Il cantore dell'Apocalisse.
Un'opera nuova (qualcuno ha parlato di surfiction), che riscrive le regole della letteratura ibridando i generi e che inizia proiettandoci da subito nelle pagine di un testo che si fatica a decriptare. Una sintassi piegata alle esigenze della scrittura, con l'eliminazione di aggettivi e avverbi e l'inserimento di spazi bianchi, cesure improvvise, frasi che sembrano scontrarsi, pensieri che si accavallano, salti di ritmo e di argomento: questo è il biglietto da visita con cui Lyacos si presenta al lettore.
Siamo nella testa dell'uomo che fugge, siamo l'uomo che fugge da un nemico imprecisato attraverso un mondo di macerie, nell'incubo di una realtà afasica tra disperati senza identità come lui. C'è odore di morte e di impossibilità dietro ogni angolo, le parole sembrano suggerire interpretazioni, lasciano intuire qualcosa senza mai farlo vedere. Spazio e tempo si confondono, il protagonista è ora su un treno e un momento dopo in altri luoghi e in altri momenti; presente, passato e sogni si mescolano, realtà e illusione si fondono, creando una dimensione nella quale l'uomo trascina i pezzi di un'identità traballante, pericolosamente in bilico sul filo della dissociazione mentale. Una Bibbia fitta di cancellazioni, sulla quale il protagonista scrive e legge frasi scritte da altri è l'oggetto che lo accompagna, il Libro sul quale ogni Uomo scrive la sua parte Le pagine pari del libro che hai in mano sono bianche e così lasci cadere sul foglio anche le tue parole, aggiungendo frammenti che si mescolano ad altri: pensieri che vorresti ti aiutassero a capire la storia, pensieri che vorresti ti aiutassero a capire chi sei, pensieri che ri-scrivono la storia del libro che stai leggendo.
L'uomo non sa se ciò che lo guida è memoria o sogno e si muove come un sonnambulo in un mondo del sottosuolo abitato da "morti che si aggrappano a immagini sparse che poi svaniscono." Scrive "per poter ricordare", ma il tentativo di trovare un'uscita è un vagare allucinato senza punti di riferimento, un cammino in cerchio intorno allo stesso punto, un rincorrere se stesso in un loop sul ciglio dell'abisso. La vita è un cammino verso una meta irraggiungibile, verso un orizzonte che si sposta un po' più in là man mano che sembra avvicinarsi, e che attira l'uomo nella sua rete con la falsa promessa di lasciarsi comprendere.
Se Z213: Exit, il primo volume della trilogia, è un'elegante rilettura dell'Angelus Novus di Benjamin, Con la gente del ponte assistiamo a un cambiamento di registro, ad una rappresentazione teatrale ricca di riferimenti culturali diversi, nella quale voci provenienti dalla recitazione, da un televisore, un mangianastri o un libro, si alternano raccontando il viaggio dell'uomo in un mondo disgregato e del suo tentativo di far risorgere l'amata.
La prima morte, terza parte dell'opera è invece un libricino diviso in quattordici parti che rappresentano altrettanti tentativi di un uomo di sopravvivere alla morte in un richiamo al mito greco di Filottete e che si conclude con un segnale di speranza, lasciando intravedere un'ipotesi di salvezza per l'uomo non nel mondo ma in uno spazio indefinito ("sono salvo, non nel mondo/ neppure fuori da esso, ma nell'inconsistente punto d'urto/ e decollo del mondo lì dove concepito l'urlo/ comunica la manovella/ e le ruote/d'istinto spingono/la carrozzina nell'infinito.").
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