venerdì 10 luglio 2015

Jón Kalman Stefánsson – I pesci non hanno gambe


La poesia non salverà il mondo...
ma forse mi aiuterà a salvarmi dal mondo.

Jón Kalman Stefánsson: è lui il Virgilio a cui ho deciso di affidarmi per questo tratto di strada.
Altri lo hanno preceduto (Pessoa e Leonard Cohen, Carver e Mark Strand, Rilke e Tord Gustavsen... sono solo i primi che mi vengono in mente), altri lo seguiranno. Ma adesso tocca a lui, a quella scrittura attenta che ho imparato a conoscere attraverso i suoi libri precedenti, alla scelta accurata delle parole e al loro accostamento quasi più da poesia che da prosa, che me lo fanno immaginare chino sulla pagina come un calligrafo giapponese, intento a trovare il gesto preciso che gli permetta di entrare in sintonia con la parola. Attenzione: il rischio di compiacersi troppo per la bella scrittura, di guardarsi allo specchio e di scivolare nel calligrafismo c'è, ma Stefánsson sembra non preoccuparsene troppo ed anzi sceglie di alzare ancora di più l'asticella, aggiungendo alle difficoltà della forma anche quelle del contenuto, avventurandosi in un terreno particolarmente ostico da affrontare, quello dei sentimenti.
Amore, morte, amicizia, bellezza, speranza, sogni, passione, rimpianti, memoria, senso di colpa, tempo, Dio, avidità, felicità, affetti, inadeguatezza, oblio... sono le parole dell'alfabeto stefánssoniano che ricorrono per tutto il libro e che non spaventano l'autore perché, evidentemente, sente l'urgenza di parlarne, non se ne vergogna. Scrivere di sentimenti, si è detto, è un tema scivoloso, si cammina su un ciglio che affaccia sul burrone della banalità e a mettere male un piede c'è il rischio di finirci dentro nonostante le migliori intenzioni. Stefánsson i piedi sa benissimo dove posarli e non ha timore a porre questi sentimenti al centro del romanzo e a parlarne in maniera semplice ma non scontata: perché ne ha bisogno, perché ne abbiamo bisogno. Perché ha un animo sincero.
Parlare della trama di I pesci non hanno gambe è poco importante: qui la trama è solo un pretesto per cantare la bellezza e il suo contrario, il Paradiso e l'Inferno, l'amore e la morte. Come nei libri precedenti. l'occhio dell'autore si posa sulla dualità dell'animo umano, sul suo essere al tempo stesso qualcosa ma anche qualcos'altro, sull'eterno oscillare tra due opposti che rischierebbe di deflagrare in conflitto in qualsiasi momento, se la scrittura e l'arte non si incaricassero di fare da collante per tenere insieme le cose.
Accendere la luce su oggetti, luoghi e persone per non lasciarli andare via, perché le parole li sottraggano ancora un po' alla morte: questa – in estrema sintesi – è l'idea a a partire dalla quale muovono i romanzi di Stefánsson, un rivoluzionario delicato che espone le sue idee sul mondo e sulla società senza urlare, senza la pretesa di aver ragione. La vita è ricerca di uno scopo, ci dice, e così ci racconta quello che i personaggi cercano, ma anche quello che pensano e soprattutto quello che sentono, saltando tra passato e presente senza preoccuparsene troppo perché il suo tempo e quello dei protagonisti del romanzo è scandito da sogni e pensieri, non dalle lancette di un orologio.


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