“Quando ci si ritrova a giocare una partita che si sa di perdere, qual'è il modo giusto di procedere?”, o, in altre parole, cosa succede quando ci si scontra con i propri limiti, quando si affronta una sconfitta certa?
Questo è l'assunto, indubbiamente originale, del romanzo d'esordio di Jennifer Dubois. Questa è la domanda che il padre di Irina, malato di una grave forma di Corea, vorrebbe porre ad Alexsandr Bezetov (lo scacchista famoso la cui figura sembra ritagliata su quella di Kasparov), questa la domanda alla quale Irina (affetta dalla stessa malattia) cercherà di avere risposta.
E di risposte nel corso del romanzo ne troveremo diverse, tante quante le cause perse che ci vengono proposte.
Sia Irina che Alexsandr inizialmente proveranno a fuggire, a non giocare le rispettive partite, mettendo la sordina alle emozioni e rifugiandosi in una solitudine fatta di anedonia. Sarà una ferita il grimaldello che li costringerà a muoversi, a spezzare il meccanismo della paura per dare un senso alle loro vite. Quando si apriranno finalmente all'esterno, si troveranno ad affrontare avversari imbattibili (la malattia in un caso ed il potere di Putin nell'altro) ma riusciranno a dare una risposta alla domanda iniziale, a comprendere cioè che accettare l'ineluttabile non vuol dire rinunciare a giocare, perché quando si sa di perdere non è necessario credere di vincere, ma immaginare che ciò sia possibile.
Mi risulta abbastanza difficile dare un giudizio su questo libro. L'idea è che si tratti di un'opera interessante ma che ci fossero tutte le premesse per fare meglio; secondo me con il materiale a disposizione la Dubois avrebbe potuto tirare fuori un romanzone di stampo Ottocentesco. L'eccessiva “scorrevolezza”, la scrittura anche troppo lineare (sembra quasi una sceneggiatura già pronta per un film) rappresenta un po' un limite, i personaggi secondari (Elizaveta, Nina...) poi avrebbero potuto essere sviluppati meglio, così come la Russia avrebbe potuto essere restituita in maniera più veritiera, magari marcando meglio il dualismo Mosca – San Pietroburgo. Un'ultima pecca la individuerei in qualche luogo comune di troppo (penso ad esempio agli italiani con i capelli imbrillantinati che guardano il seno delle donne...). Peccati veniali. Nel complesso un ottimo romanzo d'esordio, però, forse...
sabato 29 settembre 2012
mercoledì 26 settembre 2012
domenica 23 settembre 2012
La caduta
Sono
caduto su un mare di specchi
Tra
sorrisi di circostanza
Ed
attenzione agli schizzi
Tra
strette di mano sudate
E lingue affilate come lame.
Una
caduta rovinosa
Con
vetri in frantumi
Che
riflettevano all’infinito
La
mia immagine deformata.
Una
caduta fragorosa
Come
non avrei voluto
In
mezzo a una folla
Prima
attonita e poi seccata.
Spruzzi
in ogni canto
Acqua
e fango sulle vesti.
Inutili
le scuse e le frasi di rito
La
colpa ad altri o al fato
Le
promesse di riparare al danno procurato
Le
assicurazioni che in futuro mai
E più attenzione in caso che.
Sono
caduto in mare un giorno
Ed
al risveglio non ricordavo di avere sognato
Quando
mi sono alzato
Non
ero neppure bagnato.
[Lars W. Vencelowe: "Mater mare"]
sabato 25 agosto 2012
Il senso ordinario delle cose
Cadute le foglie, torniamo
Al senso ordinario delle cose. E' come se
Avessimo esaurito l'immaginazione,
Inanimi in un sapere inerte.
E' difficile persino scegliere l'aggettivo
Per quanto freddo e vacuo, questa tristezza senza causa.
La grande struttura è diventata una casa modesta.
Nessun turbante percorre i pavimenti immiseriti.
La serra ha più che mai bisogni di una riverniciatura.
Il comignolo ha cinquant'anni e pende da una parte.
Uno sforzo fantasioso è fallito, una ripetizione
Nella ripetitività di uomini e mosche.
Eppure l'assenza dell'immaginazione doveva
Essa stessa essere immaginata. La grande vasca,
Il suo senso ordinario, senza riflessi, foglie,
Fango, acqua come vetro sporco, espressione di un certo
Silenzio, il silenzio di un topo uscito a vedere,
La grande vasca e la rovina delle ninfee, tutto ciò
Doveva essere immaginato come una conoscenza inevitabile,
Imposta, come impone una necessità.
[Wallace Stevens: "Il mondo come meditazione"]
mercoledì 22 agosto 2012
Laguna dantesca
Voglio come una piccola barchetta star da solo
C'è qualcosa che voglio osservare bene, faccia a faccia.
Come una pietra, o altra cosa grave, voglio discendere
nell'acqua limpida
eternamente,
svanire come fece lei,
linea dopo linea dissolta, negli abissi lunari.
Voglio come queste campanule viola dalla iacaranda
brillare con le stelle fisse,
Raganelle gracidano nel buio. Il piccolo ottone del mondo
naturale gracida e quel che io voglio
Sopra di me il gran cane è accucciato nel cielo basso del sud
e attende il suo momento.
Voglio tornare come un pezzetto di carta bruciata.
[Charles Wright: "Crepuscolo americano e altre poesie (1980-2000)"]
e scivolare su un elemento
all'orizzonte, labbra che qualcosa sanno ma restano chiuse
sotto il cielo della luna.
C'è qualcosa che voglio osservare bene, faccia a faccia.
Come una pietra, o altra cosa grave, voglio discendere
nell'acqua limpida
eternamente,
svanire come fece lei,
linea dopo linea dissolta, negli abissi lunari.
Voglio come queste campanule viola dalla iacaranda
brillare con le stelle fisse,
sfinito e appagato di me.
Raganelle gracidano nel buio. Il piccolo ottone del mondo
naturale gracida e quel che io voglio
non è nulla per loro.
Sopra di me il gran cane è accucciato nel cielo basso del sud
e attende il suo momento.
Voglio tornare come un pezzetto di carta bruciata.
[Charles Wright: "Crepuscolo americano e altre poesie (1980-2000)"]
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