sabato 15 giugno 2013

Felisberto Hernandez - Nessuno accendeva le lampade


Premessa: credo che quando si decide di avvicinarsi alla letteratura sudamericana, sia necessario farlo con una predisposizione d'animo particolare. Spesso non è sufficiente cercare di capire la storia che stiamo leggendo, ma ci si deve lasciar portare dal potere della parola, lasciar andare le cose e seguire la musica, godere delle suggestioni che ogni pagina suscita. Capire, comprendere ogni cosa, mi sembrano a volte forzature, come cercare di comprimere oggetti enormi in una scatoletta. Non ci staranno mai, ci sarà sempre una parte che esce fuori.
Logicamente quanto detto non può applicarsi a tutta la letteratura sudamericana, sicuramente vale per il libro di Felisberto Hernandez.
“Nessuno accendeva le lampade” è uno straordinario esempio di questa capacità di liberare le parole, di toglier loro lo strato di polvere che le ricopriva e farle finalmente vivere. E così succede che gli oggetti vivano e un balcone che crolla è un balcone che ha deciso di gettarsi nel vuoto perché si sentiva tradito, perché è un oggetto in grado di amare e di essere amato e può capitare di incontrare una maschera di teatro che scopre di proiettare una luce dagli occhi che le permette di vedere al buio (una luce che “permette di entrare in un mondo chiuso agli altri”). È un mondo fantastico, quello nel quale Hernandez ci invita ad entrare, un mondo fatto di silenzio e di buio, quel buio che permette di immaginare le cose, creando una zona franca nella quale il tatto si sostituisce alla vista restituendoci sensazioni diverse ma non per questo meno reali, suscitando una capacità di recuperare ricordi o sensazioni che sembrava sopita. Una teoria di racconti carica di suggestioni, dal venditore di calze in grado di piangere a comando alla donna che vive circondata dall'acqua perché le attribuisce “la capacità di elaborare ciò che vi si rispecchia e di ricevere il pensiero”, fino al collezionista di bambole che finisce per non distinguerle più dalle persone in carne ed ossa. È un mondo al quale non siamo abituati, dove l'immaginazione colora la realtà fino a trasfigurarla. La vita non è solo quella che viviamo - sembra dirci Hernandez - ma anche quella che immaginiamo e scegliere fra uno dei due mondi è limitativo perché ci costringerebbe a rinunciare a qualcosa.

“Nessuno accendeva le lampade” è un libro bellissimo.

mercoledì 29 maggio 2013

Pickering Pick - Chance Is Gone


Vita e sogno


La tragedia principale della mia vita è, come ogni tragedia, un'ironia del Destino. Rifiuto la vita reale come una condanna; rifiuto il sogno come una liberazione ignobile. Ma vivo la parte più sordida e più quotidiana della vita reale; e vivo la parte più intensa e più costante del sogno. Sono come uno schiavo che si ubriaca durante il riposo: due miserie in un unico corpo.
Sì, vedo nitidamente, con la chiarezza con la quale i lampi della ragione fanno risaltare dall'oscurità della vita gli oggetti vicini che ce la raffigurano, quanto di vile, di stracco, di abbandonato e di fittizio c'è in questa Rua dos Douradores, che è per me la vita intera: quest'ufficio sordido di gente fino al midollo, la mia camera affittata al mese, dove non succede niente di interessante oltre il fatto che ci vive un morto, questa drogheria dell'angolo di cui conosco il padrone come ci si conosce fra persone, quei ragazzi sulla porta dell'antica taverna, quest'inutilità laboriosa di giorni tutti uguali, questa ripetizione persistente degli stessi personaggi come un dramma che consista solo nello scenario e lo scenario sia alla rovescia...
Ma vedo anche che fuggire da tutto questo significherebbe dominarlo o ripudiarlo, e io non lo domino perché non lo travalico all'interno della realtà, e non lo ripudio perché, qualunque cosa sogni, rimango sempre dove sono.
E il sogno, la vergogna di fuggire verso me stesso, la codardia di avere come vita quella spazzatura dell'animo che gli altri hanno soltanto nel sonno, nella immagine della morte attraverso la quale russano, nella tranquillità, che li fa sembrare dei vegetali progrediti! Non poter avere un gesto nobile che non sia fatto in privato né un desiderio inutile che non sia veramente inutile!
Cesare definì bene l'ambizione quando disse: "Meglio il primo nel villaggio che il secondo a Roma!" Io non sono niente né nel villaggio né in nessuna Roma. Almeno il droghiere dell'angolo è stimato in un raggio che va da Rua da Assuncào fino a Rua da Viteria; è il Cesare di un rione. Sono forse superiore a lui? E in che cosa mai, visto che il niente non presuppone superiorità né inferiorità né paragone? Lui è il Cesare di tutto un rione, e giustamente le donne lo apprezzano.
E così, facendo quello che non voglio fare e sognando quello che non posso avere, trascino la mia vita [...], assurda come un orologio civico fermo.
Quella sensibilità tenue ma ferma, il sogno lungo ma cosciente [...] che costituisce nel suo insieme il mio privilegio di penombra.

[Fernando Pessoa: "Il libro dell'Inquietudine"]