sabato 3 maggio 2014

Eugène Ionesco - Il solitario


La storia di un uomo che dopo aver ereditato da una zio d'America decide di licenziarsi dal lavoro. Ê uno come tanti: “scettico, disilluso, facile a stancarsi e stanco, uno che vive senza scopi, che lavora il meno possibile”. Un mediocre che pur non sentendosi a proprio agio nella vita non fa nulla per cambiarla, la subisce. Uno che vive cercando di mettere la sordina ai pochi desideri che gli rimangono, che si limita a guardare la vita che passa. Uno che alla realtà degli altri preferisce il suo altrove. 
I legami con l'universo ci sono, ma sono per lo più fili sottili: una specie di gelosia nei confronti della donna che l'ha appena lasciato, una telefonata a un conoscente, pochi discorsi formali e talora una sensazione di vuoto. Gli mancano, a volte, le persone con cui ha avuto contatti. 
Nonostante cerchi di convincersi che è necessario rassegnarsi alla vita, non sempre ci riesce. Rimane una sorta di rabbia che ogni tanto spunta fuori e questa è la molla che lo tiene vivo. Nel suo animo non accetta che ci siano limiti alla conoscenza, che non si possano penetrare le leggi che regolano l'universo. Vede che tutte le nostre costruzioni (morali, materiali e religiose) si basano su postulati e questo non sa accettarlo. Non riesce ad andare avanti sapendo di vivere in un mondo basato sul niente, eppure non può fare a meno di interrogarsi sulla nostra natura di uomini. 
La differenza tra lui e gli altri – dice – è che le persone normali stanno tra i due estremi, né luce né tenebre mentre lui riesce a vivere solo in stato di grazia perché ha aspirazioni troppo alte. Cerca sempre il limite, vuole conoscere tutto, non sa adattarsi ad una realtà incompleta.
 Fatalmente il protagonista finirà per restringere sempre più il suo raggio d'azione: prima al quartiere nel quale si è appena trasferito, poi all'appartamento, quindi alla camera da letto. Un'esistenza fatta solo di ricordi, di piccoli lampi di luce nel grigiore della vita, un avvitamento su se stesso che si fa sempre più stringente proprio mentre fuori scoppia la rivoluzione, una contesa nella quale non si capisce quali siano le parti in causa, chi combatta contro chi e soprattutto in nome di che cosa. 
Di nuovo una divaricazione tra lui e il mondo: gli altri che trovano rimedio nell'azione, nella rivolta contro la società e lui che invece non agisce ma vive nell'angoscia. In quell'angoscia causata dalla consapevolezza di vivere con una perenne sensazione di “mancanza”, di non saperere abbastanza, di non sapere tutto, soprattutto di non aver mai saputo adattarsi.
 Eppure, nonostante fin qui tutto sembri solo grigiore ed oppressione e la vita del protagonista ben incanalata lungo una stada senza uscita, il romanzo si chiude in maniera sorprendente. L'autore sembra voler tenderer la mano al protagonista riconoscendogli la volontà di non arrendersi e il tentativo di dare un senso alle cose che ha dimostrato per tutto il racconto, e quasi per premiarlo gli offre se non una via d'uscita almeno dei simboli: un albero in grado di nascere da un cumulo di rifiuti, le ante dell'armadio che si aprono e lasciano entrare nella stanza un mare di luce, un giardino di immagini e una scala d'argento che si dissolvono in pochi istanti, non prima però che qualcosa di quella luce sia penetrata nel protagonista ed in lui sia rimasta.

domenica 27 aprile 2014

IV


sono massi pesanti come piume
corde che stringono e sciolgono
orme che il piede scrive e l'acqua cancella
chiodi che lacerano le carni
ferite che il tempo lenisce
specchi che riflettono mentendo
porte che aprono porte che aprono porte..

                                        sono solo parole.

[Xenia Dubinina: "Dialoghi afasici"]

sabato 26 aprile 2014

Le mani scalze


A letto, ormai senza luce
con le mani
mi tappo gli occhi per non vedere
la notte. E nel piccolo spazio
frapposto fra le palpebre e i palmi
crescono i sogni
come fiori di serra.

[Manuel Forcano: " Le Mani Scalze"]

venerdì 25 aprile 2014

sabato 19 aprile 2014

Bohumil Hrabal - Una solitudine troppo rumorosa


Eccone un altro. 
Ogni tanto saltano fuori. 
 In mezzo a prati dove fioriscono capolavori ed opere dozzinali, buone cose e porcherie... ecco, ogni tanto, spuntare un libro “diverso”, difficile da definire. 
Uno di quei libri che arrivano diritti non alla testa, né al cuore, né allo stomaco, ma proprio lì, un lì che non so definire esattamente dove sia ma che esiste, perché leggendo Hrabal ti accorgi subito che qualcosa dentro di te è stato toccato, avverti una vibrazione particolare lì da qualche parte. 
Ci vorrebbe un gruppo apposta per questa roba qui, su Anobii, o magari c'è già. Penso a “roba” come “Che tu sia per me il coltello”, “La scuola degli sciocchi”, “Norwegian wood” e altro ancora..., libri per noi astigmatici della realtà, per noi che ogni tanto amiamo confonderci, per me che “quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari”, ma poi magari penso che questi sono libri che hanno smosso qualcosa lì dentro solo a me e non ad altri, per cui meglio lasciar perdere. 
Una solitudine troppo rumorosa, dicevo, è un libro speciale. Un libro sui libri e con i libri, nel quale il libri non sono un luogo dove rinchiudersi, ma un modo per aprire i confini, per vivere in un universo nel quale le cose, gli oggetti, gli animali hanno la stessa identità degli uomini, sono porte che si aprono su un altro mondo, quello che Henta, “artista e spettatore al tempo stesso”, ha dentro. Ciò comporta, fatalmente, che anche l'idea di umanità di Henta sia diversa da quella degli altri, di quelli che ha intorno. Umanità per Henta è avere un contatto non asettico ma fisico, quasi “carnale” con gli oggetti. Ed è un'umanità sorprendente, fatta anche di zingari che scattano fotografie con macchinette senza pellicola (perché “al mondo non dipende proprio nulla da come le cose finiscono, ma tutto è soltanto desiderio, volere, anelito”) e di professori di estetica alla ricerca di una “felicità diversa”. Ma non solo, Una solitudine troppo rumorosa è un libro che parla anche di surmolotti e delle loro lotte che si consumano nel sottosuolo, di pacchi di carta pressata che contengono verità, sogni ed illusioni, di una Grecia che non esiste come tale ma come luogo della mente (l'idea di Grecia che Hanta ha in testa), e di simboli, metafore e citazioni alte (da Gesù a Lao Tze, a Schopenauer), un libro dove distruggere è anche e soprattutto creare. 
Potere della scrittura: a proposito di Una solitudine troppo rumorosa Hrabal diceva “non ho tentato di scrivere null'altro se non che da noi un'epoca finiva e un'altra cominciava”, ecco, a me invece è arrivato molto di più, forse ciò che volevo sentirmi dire, ciò di cui avevo bisogno.