sabato 13 settembre 2014

Ricardo Piglia - Respirazione artificiale


Premessa: questo libro richiede attenzione e concentrazione, non è la tipica lettura estiva (per questo, visto che ho avuto la bella idea di portarmelo in spiaggia, ho dovuto rileggerlo un paio di volte). 

Ê un libro originale, forse anche troppo. Originale nello stile, con la narrazione che passa dalla prima alla terza persona e poi a una stranissima “narrazione riferita” (non saprei come definirla diversamente): “una sera, raccontò Marconi, mi racconta Tardewski”, “apro, e nel farlo, dice Tardewski che gli raccontò Marconi”, e originale nella struttura, che assembla il romanzo epistolare, la biografia, la saga familiare, il giallo, il saggio storico-filosofico-letterario... 
Ho faticato ad orientarmi, a trovare un “centro” nel libro. Se volessi riassumere la trama potrei dire che è la storia dello scrittore Emilio Renzi che scrive la biografia dello zio Marcelo Maggi, il quale a sua volta tenta di ricostruire la biografia di Enrique Ossorio partendo dai suoi scritti... semplificazione estrema e rozza ma che credo renda bene le difficoltà che ho incontrato, anche considerando che poi la trama non si risolve, nel senso che quando Renzi parte per incontrare di persona Maggi, quest'ultimo sparisce. 
Un romanzo nel quale la narrazione mi sembra procedere per dittici, per coppie di personaggi (Maggi/Renzi, Maggi/Tardewski, Renzi/Tardewski, Borges/Arlt, Cartesio/Hitler, Kafka/Joyce, Kafka/Hitler) visti in continuità o in contrapposizione e nel quale la parte più convincente mi è sembrata la seconda, quella meta-letteraria, dove Piglia costruisce una specie di mappa della letteratura argentina esprimendo giudizi spesso tranchant su un sacco di scrittori e poi mescola realtà e fantasia a disegnare una trama verosimile, non vera ma più affascinante del vero. 
Respirazione artificiale è tante cose: un romanzo sull'esilio, sulla solitudine e sull'utopia, sul fallimento consapevole (non solo quello di Tardewski), sul Caso che interviene a modificare il corso delle vite, sulla ricerca delle radici, sul bisogno di fare ordine nel passato per cominciare a comprendere, sulle storie che ci raccontiamo per immaginare che ci sia successo qualcosa nella vita, ma soprattutto sul bisogno e sulla difficoltà di scrivere la musica che sentiamo dentro. 
Questo credo che sia, se non il trait d'union, almeno uno dei fili importanti che legano la storia:“Sento una musica e non posso suonarla, diceva, credo, Coleman Hawkins”, scrive Emilio Renzi a Maggi per spiegare l'impasse in cui si trova, “c'è qualcosa che ho compreso: la ragione che spiega questo disordine potrà essere formulata in una sola frase. Ma ho una sola paura, arrivare a concepirla e non poterla esprimere” dice il senatore Luciano Ossorio a Renzi, “tormentato dalle sue idee, perché voleva pensare bene e perché incontrava enormi difficoltà a scrivere. Lo faceva disperare la sola possibilità di non poter arrivare alla verità”, così si esprime Tardewski a proposito di Wittgenstein. 
Un romanzo sulla difficoltà di dire, di trovare le parole che mettano ordine tra le cose, di riuscire a restituire all'esterno quello che sentiamo nella maniera più precisa e compiuta possibile. 
Un romanzo sull'impossibilità del dire bene tutto ciò che deve essere detto (parafrasando Valery).

sabato 23 agosto 2014

Parole, parole, parole...


Le nostre parole sono come squadre di salvataggio che non rinunciano alla ricerca, il loro scopo è riscattare gli eventi passati e le vite ormai spente dal buco nero dell’oblio.

Le parole sono frecce, proiettili, uccelli leggendari all'inseguimento degli dei, le parole sono pesci preistorici che scoprono un segreto terrificante nel profondo degli abissi, sono reti sufficientemente grandi da catturare il mondo e abbracciare i cieli, ma a volte le parole non sono niente, sono stracci usati dove il freddo penetra, sono fortezze in disuso che la morte e la sventura varcano con facilità.

[Jón Kalman Stefánsson: "Paradiso e Inferno"]


Spesso le parole sono solo pietre inerti, indumenti consunti e laceri. Possono anche essere erbacce, portatori di infezioni nocive, assi marce che non reggerebbero nemmeno il peso di una formica, figuriamoci la vita umana. Eppure, le parole sono una delle poche cose di cui disponiamo davvero, quando tutto sembra prendersi gioco di noi. Tienilo a mente. E tieni a mente anche una cosa che nessuno capisce: le parole più insignificanti e improbabili possono caricarsi inaspettatamente di un pesante fardello, e condurre la vita in salvo, oltre burroni vertiginosi. 

Alcune parole sembrano sopportare il potere distruttivo del tempo, è così strano, certo, si stagionano, diventano un po’ opache, ma resistono e conservano in loro le vite trascorse da tempo, conservano il battito di cuori scomparsi, l’eco di una voce infantile, conservano antichi baci. 

Alcune parole sono scorze nel tempo, e racchiudono forse il ricordo di te. Le parole possono essere proiettili, ma possono anche essere squadre di soccorso. 

[Jón Kalman Stefánsson: "La tristezza degli angeli"]

domenica 10 agosto 2014

Jón Kalman Stefánsson – Paradiso e Inferno


Paradiso e Inferno è un libro di una bellezza struggente. 
Ritroviamo la domanda “perché si vive?” che era alla base di Luce d'estate, anche se qui è rappresentata in maniera diversa, vale a dire nella ricerca da parte del Ragazzo (il protagonista del libro) dell'essenza delle cose, qualunque essa sia, essenza che che Bardur, un altro dei dei personaggi, identifica con la poesia, capace di portare “in luoghi dove le parole non arrivano". 
Già, le parole. Paradiso e Inferno è un libro di parole, che racconta tante storie, ma soprattutto che racconta - come ogni grande opera che si rispetti - la Vita, che cerca di far rivivere chi non c'è più, di richiamarlo alla memoria per fargli raccontare ancora una volta la sua storia, per vincere la Morte. 
Le parole di Jón Kalman Stefánsson sono da gustare una ad una, da lasciar sciogliere in bocca come caramelle. Parole che cadono leggere come fiocchi di neve, sembra che non possano far male, che debbano scivolare via veloci come pioggia e invece rimangono e si compattano in una prosa densa. Ecco, Stefánsson scava nell'anima dei personaggi come un chirurgo gentile, che opera con mano delicata ma ferma, sapendo perfettamente dove andare a parare e cosa toccare. 
Le parole, si diceva. Bardur muore per star dietro alle parole, quelle parole che il Ragazzo ascolta e spesso non sa dire. Le parole alle quali l'autore attribuisce il ruolo di “squadre di salvataggio che non rinunciano alla ricerca, il loro scopo è riscattare gli eventi passati e la vita ormai spenta dal buco nero dell'oblio”, parole che però hanno due facce perché sono “reti sufficientemente grandi da catturare il mondo e abbracciare i cieli, ma a volte non sono niente, sono stracci usati dove il freddo penetra, sono fortezze in disuso che la morte e la sventura varcano con facilità”. 
Paradiso e Inferno è un libro sospeso tra buio e luce, il buio della morte, della resa e della rinuncia alla lotta e la luce che invece ci spinge ad andare avanti, perché “da qualche parte, nel profondo delle regioni della mente, si nasconde una luce che tremola e rifiuta di estinguersi, rifiuta di cedere il passo al peso delle tenebre e allo morte che soffoca. Quella luce ci alimenta e ci tortura, ci costringe a continuare invece di sdraiarci per terra come bestie prive di favella e aspettare ciò che, forse, non arriverà mai. La luce brilla, noi andiamo avanti. I movimenti senza dubbio incerti, esitanti, ma il loro fine è ben chiaro – salvare il mondo. Salvare te e noi stessi con queste storie, questi brandelli di versi e di sogni che da tempo sono precipitati nell'oblio. Ci troviamo a bordo di una barca che fa acqua, e con le reti guaste vogliamo pescare le stelle.” 
Oltre che scrittore di narrativa Jón Kalman Stefánsson è anche scrittore di poesie e direi che qui la sensibilità del poeta si vede tutta.

sabato 9 agosto 2014