domenica 12 ottobre 2014

Della distanza tra parola e significato


Sono così poche le cose di cui l’uomo ha bisogno, amare, gioire, mangiare, e poi un giorno muore. Eppure si parlano più di seimila lingue nel mondo, che bisogno c’è che siano così tante, per esprimere desideri così semplici? E perché ci riusciamo solo di rado, perché la luce che abita nelle parole impallidisce già mentre le scriviamo? Una carezza può dire più di qualsiasi parola del mondo, è vero, ma la carezza svanisce con gli anni e allora abbiamo di nuovo bisogno delle parole, sono le nostre armi contro il tempo, contro la morte, contro l’oblio, contro l’infelicità. Quando l’uomo ha pronunciato la sua prima parola è diventato quel filo che oscilla in eterno tra la cattiveria e la bontà, tra il paradiso e l’inferno. Sono state le parole a recidere le radici tra l’uomo e la natura, sono state il serpente e la mela e ci hanno elevato dalla sublime e ignorante condizione animale fino a un mondo che ancora non comprendiamo. La storia afferma che qui, una volta, quasi al principio dei tempi, la differenza tra parola e significato era a stento misurabile, ma le parole si sono consumate nel corso del cammino umano e la distanza che le separa dal loro significato si è talmente dilatata che nessuna vita, nessuna morte sembra più poterla colmare. Eppure le parole sono l’unica cosa che abbiamo.

[Jón Kalman Stefánsson: "Il cuore dell'uomo"]

sabato 11 ottobre 2014

Michel Houellebecq - Estensione del dominio della lotta


Poche settimane della vita di un trentenne analista-programmatore. Incontri e colloqui con colleghi, clienti, amici. Un protagonista apatico, indifferente al mondo che attraversa la vita senza farci caso, senza uno scopo (non si può non ricordare il Solitario di Ionesco). Dialoghi sempre sull'orlo dell'abisso, la sensazione che ad ogni passo la terra rischi di franarci sotto i piedi. 
Houellebecq divide e io fatico a metterlo a fuoco. 
Mi ispira, da subito, un'antipatia spontanea, ma non capisco se la scelta di dire cose sgradevoli, che vanno contro l'opinione corrente sia di forma o di sostanza, se cioè sia veramente convinto di quello che scrive o non voglia piuttosto provocare, andare contro l'opinione corrente e accreditarsi come principe del contro-pensiero, interpretare il ruolo del "diverso", del lupo solitario fuori dal coro. 
Differenza non da poco, quella che corre tra uno vero e uno furbo, tra uno che lo è e uno che lo fa, tra spontaneità ed artificiosità. Magari ci stanno tutti e due gli aspetti. 
Per ora: giudizio sospeso.

sabato 27 settembre 2014

José Saramago – Le intermittenze della morte


Da un Saramago che ha appena spento ottantatre candeline non credo sia lecito attendersi sperimentazioni letterarie o cambiamenti di registro rispetto alla sua produzione più recente e infatti Le intermittenze della morte è un buon libro "di scuola", perfettamente in linea con il carattere "saramaghiano" più classico. 
La scrittura è quella tipica e densa che contraddistingue il maestro di Azinhaga dagli anni Ottanta (da Una terra chiamata Alentejo in poi), fatta di uno stile "orale", periodi lunghissimi, quasi senza a capo, ortografia limitata alle virgole e a pochissimi punti, uso delle maiuscole per distinguere chi sta parlando. 
Canonica la forma e consueto anche il contenuto: come ne La zattera di pietra, Cecità e Saggio sulla lucidità, anche qui l'assunto iniziale del libro è il classico cosa succederebbe se, l'evento inaspettato da cui consegue tutto il resto. 
Il problema è che da qui in poi l'uso di cliché mi è sembrato un po' eccessivo. 
Cito a caso: la frase che apre il libro (il giorno seguente non morì nessuno) è anche quella che lo chiude, come ne La morte di Ricardo Reis, i bersagli contro cui si scaglia l'autore sono tutto sommato i soliti (società, Chiesa, politica), la storia è ambientata in un luogo sconosciuto e in un tempo non precisato, mancano i nomi dei personaggi, come spesso succede nei libri di Saramago anche qui c'è un cane... e se vogliamo forse c'è scarsa originalità anche nel riproporre la coppia Eros/Thanatos. 
Peccati veniali ci mancherebbe, il libro è interessante e si legge volentieri, ho apprezzato la consueta ironia dell'autore, le allegorie, la pietas. 
Consuete, appunto.

sabato 20 settembre 2014

Franco Arminio - Geografia commossa dell'Italia interna


Vivo in campagna, svolgo la mia professione in città ma appena ne ho la possibilità mi piace dedicarmi alla cura dei campi, mi reggo su una gamba mentre l'altra sogna (come direbbe Strand), mi muovo in equilibrio costante tra mondo reale e mondo di fantasia. Amo la poesia. Con queste premesse avrei dovuto apprezzare questo libro. Invece. 
L'ho trovato incomprensibile, mi sono perso già dalla prima pagina e da lì in poi è stato tutto un rincorrere - a vuoto - il filo della matassa. 
Non esagero: sono state sufficienti poche battute introduttive, quelle che avrebbero dovuto chiarirne gli intendimenti per confondermi le idee. Ê successo esattamente alla quindicesima riga, quando Arminio ha introdotto il termine "paesologia", definendolo così: disciplina indisciplinata, raccoglie le voci del mondo, sente quel che vuol sentire, dice quello che vuol dire. Ecco, lì mi sono perso, anche perché poco più avanti, a ulteriore chiarimento, scrive che la paesologia denuncia l'imbroglio della modernità. Quello che conta è sentire che la modernità è una baracca da smontare [...] per costruire casa senza muri e senza tetti, costruire non la crescita, non lo sviluppo, costruire il senso di stare da qualche parte nel tempo che passa. Boh. 
Quello che ci capisco io è che la paesologia sarebbe una disciplina che non si riesce a definire (poco più avanti scrive che è una risposta a una domanda mai formulata e quindi mai ricevuta) e che si propone qualcosa di irrealizzabile. Ri-boh. 
Poco male, il fatto è che questo libro non ha neppure una trama definita: si tratta di pensieri, riflessioni, articoli di giornali, riviste e siti internet riciclati e assemblati a costituire una specie di testo antologico, all'interno del quale il fil rouge sembrerebbe essere la critica del modello di sviluppo della nostra società. 
I colpevoli sono, ovviamente, facilmente identificabili, anche con toni leggermente apodittici: Chi dobbiamo imputare per questo delirio della crescita infinita che sta distruggendo la Terra? - si domanda retoricamente Arminio - La mentalità capitalistica o il cristianesimo (ça va sans dire...). Perché il problema di quest'epoca, ci spiega, è teologico. Avremmo bisogno di una politica che abbia una dimensione mondiale e una dimensione locale, una capacità di vedere nello stesso tempo le questioni di una vallata e quelle di un continente, dobbiamo pensare come può pensare dio e come può pensare una mosca
Una volta identificati i colpevoli dello status quo e delineati con altrettanta precisione gli obiettivi da raggiungere, rimane solo da trovare lo strumento e i modi per arrivare all'Arcadia che Arminio teorizza. Nessun problema, il nostro ha già pensato con la consueta chiarezza anche a questi dettagli. Io spero che l'anno nuovo veda la nascita di una sinistra radicalmente ecologista, una sinistra limpida che lavora per una democrazia profonda. - scrive in Divagazioni sull'anno nuovo - Altro che elezioni. Una democrazia radicalmente locale, costruita da comunità provvisorie che si formano in ogni luogo e che in ogni luogo discutono col centro sulla forma da dare alle cose. Una capillare manutenzione dal basso. La società si decide spezzando l'autismo corale, aggredendolo e costruendo luoghi in cui ci si mette in cerchio e si fa democrazia. Si sta insieme e si decide, si passa il tempo e si decide su come passare il tempo. Dobbiamo imparare a stare da soli e a farci compagnia. Dobbiamo scendere molto in fondo a noi stessi e rimanere ben saldi in superficie assieme agli altri. Abbastanza chiaro, no? Tutto e il suo contrario. 
Alle affermazioni di Arminio mi verrebbe di rispondere con Venditti: No, compagni, amici, io disapprovo il passo, manca l'analisi e poi non c'ho l'elmetto. Sì perché è proprio l'analisi quella che mi sembra un po' debole. 
Quello che voglio dire è che a volte capita di imbattersi in argomenti particolarmente complessi, meritevoli di analisi approfondita e per i quali difficilmente esistono soluzioni a portata di mano. In questo caso, forse, sarebbe meglio astenersi da dire banalità. Parlare di Taranto in due paginette (La città di ferro), per interrogarsi se sia meglio mettere soldi su una fabbrica che non sarà mai innocua o se non sia preferibile orientare l'investimento anche in un grande piano di recupero del centro antico, mi sembra lecito ma anche esercizio retorico che poco aggiunge alla sostanza del problema, visto che la soluzione proposta è che ci vuole una politica all'altezza di un luogo straordinariamente bello e complesso: c'è la fabbrica, ci sono gli operai, ma ci sono anche i contadini intorno alla città, anche loro hanno un lavoro, anche loro hanno diritto a essere tutelati. E hanno diritto a essere tutelati i bambini e gli anziani di Taranto. E anche gli ipocondriaci: le persone che tendono a sviluppare malattie immaginarie
Tutte queste cose, ci sia perdonata l'immodestia, le sapevamo già (compresa la definizione di ipocondriaco), senza che ci fosse bisogno che ce le dicesse Arminio, se proprio doveva scrivere un articolo su Taranto (come sull'Aquila) forse poteva cercare di evidenziare un aspetto rimasto in ombra, di proporre un'analisi diversa, di sviluppare l'argomento in maniera originale... Questo almeno è quello che mi sarei aspettato io. 
Tralascio volutamente le descrizioni "poetiche" che affiorano qua e là e mi limito a segnalare questa perla: Rocchetta Sant'Antonio. Puglia nord. Per arrivare da casa ci vuole poco meno di mezz'ora. Una strada fatta di curve e pale eoliche. Non si incontra traffico. Ê una giornata di settembre né calda né fredda, la luce non è bella neppure brutta, il vento è debole, le nuvole sono lontane, il mio cuore è ancora storto (Un paesologo a Rocchetta).
Concludo dicendo che con questo pot-pourri di materiale raffazzonato si arriva a pagina 95, un po' pochino per farne un libro, per cui si è pensato bene di aggiungere una trentina di pagine chiamate Saggi deliranti e facoltativi, fatte di brevi riflessioni, aforismi, perle di saggezza e pensieri sfolgoranti da cui è possibile attingere a piene mani. Qualche esempio? Un paese è essenzialmente un luogo in cui circolano brutte notizie. 
 Nei paesi ci sono espressioni di grande eleganza. Tipo: Anna e Michele si sono messi insieme. 
 Siamo troppi e c'è troppo parlare. Un anno di silenzio, per ricominciare. (Ecco: se fossi Arminio su quest'ultima affermazione ci rifletterei seriamente...) 
 In questa ultima sezione del libro ho notato diversi attacchi alla Rete (che sarebbe il nostro diluvio universale, una pioggia incessante di parole) e a Facebook, non per l'uso che ne viene fatto, ma proprio come mezzo. Facebook è una creatura piccolo-borghese, - scrive Arminio - perché il tratto dominante della piccola borghesia è proprio quello di considerare che tutto è piccolo
 Non credo sia necessario aggiungere che il nostro ha un profilo Facebook dove è registrato come personaggio pubblico e paesologo con link ai suoi blog e dove sono segnalati suoi interventi pubblici (https://www.facebook.com/francoarminio?fref=ts).