domenica 18 gennaio 2015
Cuci una foglia vicino alle parole, cuci le parole tra loro
Cuci una foglia vicino alle parole, cuci le parole tra loro, guarda una foglia come viene soffiata lontano.
Il tempo mentre scriviamo vola, noi moriamo a noi stessi mentre intorno cresce la vita e la realtà s’addensa, s’intreccia, diventa una radice che sale fino a un tronco e ridiventa foglio.
Da sempre mi mancano le parole e io ne ho nostalgia.
Per questo cucio, cucio, cucio.
[Antonella Anedda: "Salva con nome"]
sabato 17 gennaio 2015
Fëdor Dostoevskij - Memorie dal sottosuolo
È sempre interessante
leggere (o rileggere) Dostoevskij e nella fattispecie le opere che
hanno preceduto i grandi romanzi. Osservare le variazioni nello stile
e come vengono delineati i personaggi, la costruzione del discorso
diretto e i monologhi introspettivi. Seguirne le tracce, scoprire le
idee abbozzate da qualche parte e poi abbandonate strada facendo e i
percorsi che invece sono stati sviluppati nel tempo.
Memorie dal sottosuolo
aggiunge un ulteriore tassello alla ricerca del grande russo, pur non
rappresentando – a mio avviso – un punto di svolta nella sua
produzione letteraria (come invece si afferma da più parti), ma
piuttosto una continuità con temi che appaiono qua e là in Povera
gente e soprattutto nel Sosia e
che qui vengono ulteriormente sviluppati. La differenza casomai, come
osserva Bachtin, è che in questo romanzo il protagonista è
sostenuto da un'ideologia, un pensiero che nella prima parte
dell'opera viene espresso in un'inconsueta forma di monologo quasi
filosofico e poi sostenuto della seconda parte in forma di racconto.
Sono
cattivo, so di esserlo e non voglio cambiare. Questo è l'assunto dal
quale parte il narratore, per poi constatare di essere, in realtà,
né buono né cattivo, di non essere nulla: il prototipo dell'uomo
del XIX secolo, condannato dalla sua "troppa coscienza" ad
essere senza carattere, destinato dall'eccessiva consapevolezza ad
imboccare un vicolo cieco che conduce inevitabilmente all'inerzia.
Troppi
dubbi, troppo ragionare, troppa introspezione... in una parola: il
sottosuolo.
Ad
ogni angolo sembra di sentire echi di Pessoa, Musil, Bernhard e
chissà di quanti altri, ma forse meglio sarebbe dire che nell'opera
di Pessoa, Musil, Bernhard e chissà quanti altri ad ogni passo
risuona qualche eco di Dostoevskij.
Autocoscienza,
capacità di analisi, consapevolezza di sé... vissute come una
colpa, un fardello con il quale convivere, ma anche un dolore che può
trasformarsi in una specie di piacere amaro.
Nella
seconda parte dell'opera, come detto, queste tesi vengono espresse in
forma di racconto, nel quale Dostoevskij utilizza il dialogo in
maniera simile a come aveva già fatto nel Sosia.
Ritroviamo le stesse atmosfere febbrili, il ritmo incalzante,
l'assenza di equilibrio e di logica nelle parole e nelle azioni del
protagonista. Tutto è fuori e tutto è dentro: tutto è
apparentemente dialogo, confronto e scontro con l'altro ma in realtà
tutto è monologo, contorcimento, avvitamento del personaggio su se
stesso in un vortice destinato a portarlo sempre più a fondo.
L'uomo
del sottosuolo è un uomo solo, che vorrebbe avere rapporti con gli
altri ma non ci riesce. Non sa come comportarsi e il suo approccio
finisce per essere rozzo: nel confronto con l'altro cerca di
dominare, di schiacciare il suo interlocutore, atteggiandosi a
superiore mentre in realtà è vittima di un complesso di
inferiorità, è lui a sentirsi non all'altezza degli altri. Non
essendo in grado di vivere una vita vera è costretto a viverne
un'altra, a rifugiarsi nel sottosuolo, un mondo solo suo, dove è lui
a dettare le regole del gioco e dove anche il dolore che prova sembra
un dolore "indotto", che si infligge da solo quasi a
dimostrare a se stesso di essere in grado di avere sentimenti, di
provare emozioni.
Memorie
dal sottosuolo è un'opera potente, che seppur ancora incentrata su
un'unica voce e per questo ancora distante dalla polifonia dei
romanzi successivi, continua l'indagine di Dostoevskij sugli abissi
dell'animo umano preparando la strada alle opere più mature.
domenica 11 gennaio 2015
Discorso sui libri
Mi domando se, forse senza rendercene conto, andiamo in cerca di libri che abbiamo bisogno di leggere. O se i libri stessi, che sono esseri intelligenti, riconoscono i propri lettori e si fanno notare. In fondo, ciascun libro è l’I Ching. Prendi, lo apri ed eccolo qui, eccoti qui.
[Andrés Neuman: "Parlare da soli"]
sabato 10 gennaio 2015
Giorgio Vasta - Il tempo materiale
Romanzo d'esordio
impressionante per maturità e rigore nel quale l'autore rilegge il
1978, annus horribilis della storia italiana, attraverso gli occhi di
tre preadolescenti che sulla base della fascinazione esercitata dal
delitto Moro, decidono a loro modo di fare la rivoluzione.
L'io narrante è Nimbo,
un ragazzino di undici anni che esperisce la realtà in una maniera
del tutto originale, non contentandosi cioè dell'osservazione del
mondo, ma aggiungendo ad essa anche l'uso degli altri sensi, il
tatto, il gusto, l'olfatto. Vasta traduce il tutto con un linguaggio
nuovo, fatto di una sorta di espressionismo stilistico - talora anche
troppo manierato - ricco di aggettivi ed immagini, una specie di
lente colorata che deforma tutto ciò su cui si posa.
La lotta contro lo Stato
è la molla dalla quale scaturisce la storia ed anche il filo
conduttore della narrazione, ma insieme a metafore, simboli e
allegorie, mille sono i fili, più o meno sotterranei, che si
intrecciano fra le pagine.
Uno di questi lo
individuerei nell'impossibilità di comunicare tra bambini e adulti
(e probabilmente nella difficoltà di comunicare in generale): i tre
protagonisti cercano a modo loro di capire quello che succede intorno
a loro, ma nonostante si esprimano e ragionino come uomini rimangono
dei ragazzini, lasciati soli a confrontarsi con avvenimenti epocali.
L'emulazione delle Brigate Rosse finisce così per essere un misto di
gioco ed impegno, il tentativo di avere visibilità, di affermare se
stessi, di essere colpevoli pur di essere.
Altro tema importante è
quello del linguaggio: Nimbo, Raggio e Volo (nomi di battaglia dei
tre undicenni) rifiutano quello convenzionale perché espressione di
una realtà che vogliono cambiare, per sostituirlo con l'alfamuto,
un codice di comunicazione fatto
di posture e gesti che utilizzano i simboli della cultura di massa
dell'epoca rileggendoli in funzione dei loro scopi, un uso delle
forme cambiando i contenuti che esse dovrebbero rappresentare, simile
per certi aspetti a quello che facevano Schifano, Angeli, Festa,
Rotella, gli artisti della pop-art.
Il tempo materiale
è un romanzo duro e a tratti angoscioso, che procede con andamento
sincopato: frasi brevi e ritmo incalzante sottolineano le fasi della
narrazione dedicate all'azione, alle malefatte del gruppo, ad esse si
alternano monologhi o surreali dialoghi ideali con animali od oggetti
in cui il protagonista cerca faticosamente di elaborare quello che
sta succedendo e se nella prima parte dell'opera la riflessione
precede e prepara l'azione, nella seconda accade l'esatto contrario
con Nimbo che fatica a stare dietro a quello che succede, a capire
dove sta andando e perché.
Se posso trovare una
pecca in quest'opera è che una volta raggiunto il climax, la storia
da l'impressione di scivolare verso il finale in maniera un po'
troppo rapida. Forse si tratta di una scelta intenzionale dell'autore
per rendere al meglio l'idea del precipitare degli eventi, tuttavia
mi sembra uno scarto di velocità che stride con l'armonia del
racconto. Ancora un'ultima annotazione a proposito del rigore con cui
è costruito il romanzo: in certi momenti ho avuto l'impressione di
una precisione e di un controllo quasi eccessivi, una sensazione
simil-claustrofobica, come se tutto fosse consequenziale, già
compreso dentro la trama.
Gusto personale, sia
chiaro, infinitesimi granelli di sabbia in un ingranaggio ben rodato.
Poca roba per uno tra i romanzi italiani più importanti degli ultimi
tempi.
domenica 4 gennaio 2015
Gerbrand Bakker – C'è silenzio lassù
Romanzo d'esordio, nel quale Bakker sceglie la narrazione in prima persona per raccontarci la storia di Helmer, contadino olandese che ha sacrificato sogni ed ambizioni per sottostare ai voleri di un padre-padrone del quale ora attende la morte per sentirsi finalmente sciolto dal vincolo dell'obbedienza.
L'autore cerca di descriverci il protagonista nella maniera più verosimile possibile (magari "schiacciando" un po' troppo il racconto su di lui e non sviluppando pienamente gli altri personaggi), rifuggendo la scorciatoia del buonismo, senza doverlo rendere per forza simpatico. Helmer ci viene descritto a un punto della vita in cui è necessario cominciare a fare dei bilanci e frugando nelle tasche trova solo sabbia. Ha sempre abbassato la testa, accettando che il padre decidesse per lui senza provare a far valere il suo punto di vista. Se poi lo aveva un punto di vista.
La sua figura sembra quella di un ignavo, uno per cui questo o quello è indifferente, che preferisce accettare piuttosto che discutere. Ha un rapporto conflittuale con il padre, che tratta male per l'indifferenza e l'anaffettività con cui è stato ripagato negli anni passati, ma nello stesso tempo lo compatisce. Il cambiamento sembra sempre rimandato, allo stato potenziale, immaginato ma mai realizzato completamente per colpa di qualche curva del destino che interviene a mutare il corso delle cose e che il protagonista si limita ad assecondare senza opporsi. I sogni e i desideri non sono sconosciuti ad Helmer, ma sembrano sentimenti tiepidi, come se le brume del Nord li filtrassero, impedendo alla passione di esplodere.
Un romanzo di piccole cose, di sentimenti trattenuti, di occasioni perse, di rimpianti, di cambiamenti minimi, di decisioni lente, di sogni interrotti e di sogni che riaffiorano, fiammelle che si accendono e bruciano per poco tempo.
Bakker sceglie una prosa lenta, senza strappi, che scorre piana, proponendosi volutamente di non graffiare troppo la superficie. Una scelta meditata, che restituisce al meglio lo "spazio" che vuole raccontare, intendendo con ciò sia l'ambiente, il paesaggio, che fa da sfondo alla storia, la distesa aperta della campagna olandese, sia lo spazio interiore della voce narrante, fatto di pause, silenzi, pensieri.
P.S.: nella lettura del libro mi è sfuggita completamente la similitudine con McCarthy cui fa riferimento l'Editore nel commento.
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