mercoledì 14 ottobre 2015

sabato 3 ottobre 2015

Cees Nooteboom – Rituali




Di rami e di foglie 

Un Nooteboom in stato di grazia. Con una scrittura semplice e precisa e uno stile sobrio e attento agli eccessi, ci racconta la storia di Inni Wintrop, un dilettante della vita, uomo senza ambizioni che si definisce un'assenza, un buco. Un uomo che ha scelto il matrimonio come antidoto al caos dell'esistenza ma che poi non fa niente per mantenerlo in piedi. Ne consegue l'abbandono da parte della moglie a cui reagisce dapprima con un tentato suicidio e poi con un sorprendente ritorno alle attività quotidiane (rappresentato da una speculazione in borsa). Sì perché Inni è uno che pur non trovandosi a proprio agio nella navigazione del mondo, si lascia portare dalla corrente, senza fare troppa resistenza e godendosi il panorama che scorre davanti ai suoi occhi. Un tipo che considera il tempo come una massa amorfa con cui fatica a confrontarsi e guarda con sospetto all'eccesso di ordine, ritenendo che una giusta dose di confusione sia necessaria. 
Fanno da contraltare al protagonista i due Taads, padre e figlio, simili tra loro nell'opporsi al mondo ma diversi nella scelta della strada da percorrere. Quasi bernhardiano il primo, ripiegato su se stesso e chiuso nella sua misantropia, convinto che una rigida disciplina fatta di uno stretto rispetto dell'ordine spaziale e temporale possa in qualche modo difenderlo dal resto dell'universo, artefice e contemporaneamente schiavo di un rituale filosofico-religioso orientaleggiante il secondo, altrettanto folle nella sua aspirazione a vivere un'esistenza di sola introspezione. 
E sullo sfondo il mondo. La vita che scorre come un fiume da monte a valle, senza un significato evidente, indifferente alla sorte delle esistenze che trascina nella sua corsa. Inutile opporsi alla corrente, i Taads (che ci provano) sono come quei ramoscelli che si vanno ad incastrare contro le rocce che affiorano in mezzo a un ruscello e lì finiscono la loro corsa, quasi che rifiutassero di percorrere fino in fondo il cammino stabilito. Meglio, molto meglio, fare come Inni, sembra dirci un po' beffardamente Nooteboom, mettendosi comodi e lasciandosi portare come foglie in balia delle acque, cercando di godere di quello che la vita offre, prendendo le cose per quello che sono e contentandosi di conoscere quel poco che ci è dato di conoscere.

domenica 27 settembre 2015

ciao, Romeo



La morte non è niente. 

La morte non è niente. 
Sono solamente passato dall'altra parte: 
è come fossi nascosto nella stanza accanto. 
Io sono sempre io e tu sei sempre tu. 
Quello che eravamo prima l'uno per l'altro lo siamo ancora. 
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; 
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. 
Non cambiare tono di voce, non assumere un'aria solenne o triste. 
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, 
Di quelle piccole cose che tanto ci piacevano 
quando eravamo insieme. 
Prega, sorridi, pensami! 
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: 
pronuncialo senza la minima traccia d'ombra o di tristezza. 
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: 
è la stessa di prima, c'è una continuità che non si spezza. 
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla 
tua vista? Non sono lontano, sono dall'altra parte, proprio dietro l'angolo. 
Rassicurati, va tutto bene. 
Ritroverai il mio cuore, 
ne ritroverai la tenerezza purificata. 
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: 
il tuo sorriso è la mia pace.

[Sant'Agostino]


Ode al gatto

L’uomo vuole essere pesce e uccello 
il serpente vorrebbe avere ali 
il cane è un leone spaesato 
l’ingegnere vuol essere poeta 
la mosca studia per rondine 
il poeta cerca di imitare la mosca 
ma il gatto vuol solo essere gatto 
e ogni gatto è gatto dai baffi alla coda 
dal fiuto al topo vivo dalla notte fino ai suoi occhi d’oro.

[Pablo Neruda]

sabato 26 settembre 2015

Ferenc Karinthy – Epepe



Tra Kafka e Saramago

Romanzo che, sorprendentemente, prende le mosse da una domanda tipica della produzione saramaghiana dagli anni '80 in poi: cosa succederebbe se?
Se la penisola iberica si staccasse dall'Europa (La zattera di pietra), se gli uomini diventassero improvvisamente ciechi (Cecità), se non si morisse più (Le intermittenze della morte), se alle elezioni tutti votassero scheda bianca (Saggio sulla lucidità), sono alcuni degli incipit usati dal mastro di Azihaga e cosa succederebbe se di colpo ci trovassimo tra gente che non parla la nostra lingua è quello del libro di Karinthy.
Un romanzo distopico, il dramma di un uomo condannato a vivere in un mondo nel quale non riesce a farsi capire ma del quale è costretto ad accettare le regole. Un mondo che da l'impressione di correre verso il nulla, in cui tutti vanno di fretta oppure sono in coda per ottenere qualcosa, ma in un caso o nell'altro sono indifferenti al dramma che il protagonista vive. Nessuno ha tempo da perdere con lui, le cose sembrano succedersi senza un motivo preciso e anche una rivolta popolare che scoppierà inspiegata e improvvisa, altrettanto rapidamente verrà repressa e dimenticata.
A rischiarare il buio nel quale le circostante hanno precipitato il povero Budai sarà (non a caso) una donna (Epepe, Pepe, Dede, Veve, Bebe, Edede o come diavolo si chiama...), l'addetta agli ascensori dell'albergo, l'unica persona con la quale il protagonista del romanzo riuscirà a stabilire un abbozzo di contatto. Una comunicazione destinata a scorrere più a livello emotivo che verbale, nella quale Budai per la prima volta proverà ad abbandonare il consueto terreno della razionalità, fatta di mille tentativi tanto ingegnosi quanto infruttuosi di comprendere l'alfabeto di quello strano posto, per affidarsi al cuore, sforzandosi di prestare attenzione non più ai suoni che escono dalla bocca di Epepe quanto al tono della sua voce, alle inflessioni, ai gesti, per provare a interpretare con l'immaginazione quello che la ragazza dice. Una comunicazione giocata sul piano della sensibilità, quel tipo di relazione che, sembra dire Karinthy, si può sperimentare solo con una donna.
Epepe è un romanzo sulla difficoltà e insieme sulla necessità di comunicare e su come un corto circuito di questo meccanismo possa condurre all'alienazione. Difficile non leggere in queste pagine anche un riferimento politico: il libro è del 1970, scritto poco dopo i fatti della Primavera di Praga e le code, la sensazione di straniamento, di vivere sotto un giogo, di non aver voce e, soprattutto, la rivolta repressa nel sangue e cancellata il mattino dopo come se non fosse mai esistita, sembrerebbero riferimenti abbastanza precisi a quello che succedeva in quegli anni nell'Europa dell'Est.


sabato 22 agosto 2015

Mircea Cărtărescu – Abbacinante. Il corpo.

Volare fuori, volare dentro. Comunque volare.

Libri belli ne ho letti parecchi, anche quest'anno. Storie intriganti, scritture originali...questo però è diverso. Qui entriamo in un territorio dove la trama e lo stile rappresentano solo una parte e nemmeno la più importante. Siamo nel campo delle opere destinate a rimanere, quelle che lasciano un segno: qui siamo dalle parti di Infinite Jest, tanto per capirci (pur con tutti i distinguo del caso).
Accade che la lettura di Abbacinante. Il corpo ti faccia sentire un privilegiato, come se fin dalle prime pagine fossi toccato da qualcosa di grande del quale vorresti far partecipi tutti, per vedere se anche a loro farà la stesso effetto. Ti è già successo, l'ha già provato qualche volta (poche volte) e sai perfettamente che è inutile cercare di definirlo. La letteratura c'entra, ma c'è anche dell'altro, c'è di più, qualcosa che ha a che fare con la capacità dello scrittore di toccare con le parole qualche ingranaggio dentro di te che credevi arrugginito, riuscendo a mettere in movimento la vecchia macchina del pensiero immaginifico con la quale non giocavi più da tanto tempo.
Credo che le opere più riuscite siano quelle che nascono da un bisogno dell'autore, libri scritti più per se stessi che per il lettore. Certo, gli ultimi Roth o Saramago (sono i primi nomi che mi vengono in mente) sono ottimi anche se il mestiere sembra avere un ruolo preponderante rispetto all'ispirazione, ma stiamo parlando di Roth e Saramago... Qui la tensione che muove la trama si sente tutta e Cărtărescu sembra assecondarla senza preoccuparsi troppo dei suoi compagni di viaggio, rincorrendo una storia che sembra attirare lui e noi come la luce le falene, avvolgendolo e avvolgendoci sempre di più nelle sue spire.Abbacinante. Il corpo non è un libro semplice, anche dal punto di vista stilistico: frasi lunghe, pochissimi a capo, passaggi di luogo e tempo improvvisi alternati a lunghe descrizioni della fisiologia del cervello o a dotte dissertazioni sembrerebbero costituire una barriera tra autore e lettori ma in realtà sono al servizio della storia. Non è possibile semplificare all'estremo, a volte la complessità è necessaria se vogliamo provare a capire. L'aspirazione dell'autore, folle e per questo affascinante, è quella di decrittare nuovamente il mondo, perché l'interpretazione che ne abbiamo dato finora è parziale e fallace e per farlo dobbiamo provare a trascendere la nostra natura umana.
Abbacinante. Il corpo può essere letto in molti modi, io lo vedo come una specie di esperimento di fisica nucleare nel quale Cărtărescu prende l'emotività e la potenza di sognatore di un bambino e la manda a sbattere a tutta velocità contro la capacità di razionalizzare dell'adulto, provando a descrivere cosa scaturisce da questo impatto e quello che si sprigiona è un misto di fuochi d'artificio e di energia stupefacenti. Un viaggio vertiginoso dove surreale, poetico, postmoderno, meta-narrazione e chissà quant'altro si intrecciano, dove il reale si confonde con la finzione e il ricordo con la fantasia. Un viaggio fatto di donne che indossano le ali per volare vicino alla luce, di uomini che si evirano per mondarsi dalle pulsioni della natura e avvicinare la verità, tappeti che si trasformano e diventano mondi interi e poi ancora: nani del circo, uomini serpente, personaggi che escono da un portone a Bucarest per trovarsi in un quadro ad Amsterdam, uomini-statua e statue-uomo e poi simboli, tanti simboli (sfera, spirale, conchiglia, ascensore, bozzolo, crisalide, farfalla)... difficile dar conto di tutto.
Un viaggio fatto di parole, che Cărtărescu utilizza come grimaldello per forzare la vita, per trovare un'uscita da questa scatola nella quale siamo costretti, una porta che ci permetta di entrare e uscire dal mondo a nostro piacimento. Un viaggio folle ,realizzabile solo grazie alla scrittura, l'unica in grado di fornirci le ali necessarie a volare fuori dal mondo e dentro di noi e di farci dimenticare per un po' che in realtà siamo solo pagine di un libro già scritto.

In ultimo (confido del fatto che nessuno mi avrà seguito sino al termine di questa sconclusionata recensione), c'è una nota personale che vorrei aggiungere: Abbacinante. Il corpo è anche un libro pericoloso. Perché allontana. Ti attira dentro con la forza di una calamita, ti porta in un altrove fatto di sogni e parole e così facendo ti allontana, fatalmente, dagli altri. E questo, almeno per me, è pericoloso.
Capita però che a volte passi qualcuno che vede il libro che stai leggendo, lo prenda in mano, alzi un po' il sopracciglio leggendo il nome dell'autore, giri il volume per scorrere velocemente tre righe della quarta di copertina (le prime tre, che arrivare sino alla fine costerebbe troppa fatica) e poi, visto che non è riuscito a farsi un'idea, ti chieda, più per curiosità che per interesse: “Di cosa parla?”. Succede che tu rimanga lì, sospeso tra la voglia di rispondere provocatoriamente “Parla del mondo” e quella, altrettanto maligna, di usare le parole di Cărtărescu “É un libro illeggibile, che non dice nulla, non vuole nulla e non significa nulla”, ma poi decida di provare a imbastire una risposta (breve, brevissima, sia chiaro, che il tuo interlocutore non ha tempo da perdere con un libro) che possa in qualche maniera soddisfarlo o incuriosirlo. Succede però che quando hai terminato la spiegazione e lo guardi per vedere se sei riuscito a comunicargli almeno un milionesimo di quello che la lettura di questo volume ti ha dato, incontri uno sguardo distratto. Il tuo amico è già andato oltre le tue parole, è ancora davanti a te ma non è più lì; ti restituisce il libro come se si trattasse di cibo andato a male e ti dice con tono che vorrebbe essere di ammirazione ma suona invece come compatimento: “Beato te, che trovi il tempo di leggere. Piacerebbe anche a me, ma con tutto quello che devo fare non ci riesco!”.
Ecco, è in questi momenti che sentirsi lontano invece che pericoloso diventa piacevole.