sabato 11 marzo 2017

Sul ramo (e sul filo)

Sul ramo

Nessuno grida di gioia per essersi svegliato
Soltanto gli uccelli all'alba, gli uccelli dietro la finestra,
Tutti temono ciò che il giorno porterà loro,
Soltanto noi sul ramo no.

Nessuno vuole rinunciare a ciò che possiede
E nel folto letto si aggrappa ai resti del sonno,
Tutti vivono come se dovessero vivere in eterno,
Soltanto noi sul ramo no.

[Kazimierz Wierzyński]


sabato 4 marzo 2017

Marilynne Robinson – Le cure domestiche




Quasi un ossimoro

Una storia di donne e di legami familiari, raccontata in prima persona da Ruth, una delle due sorelle protagoniste del romanzo. Una prosa attenta alla scelta delle parole, precisa, ricca di descrizioni minuziose e di descrizioni che la fanno sembrare quasi “anti-moderna”. Una prosa carica di simboli: il buio e la luce e poi l’acqua, su tutti.
Sono i pensieri, più che i dialoghi, a caratterizzare un racconto nel quale il tono lirico usato dalla Robinson per narrare l’anaffettività dei personaggi, stride come gesso che graffia la lavagna.
Le cose succedono, e pur nella loro drammaticità vivono solo in quell’istante, perché un attimo dopo che sono passate sembra che una coltre di polvere le ricopra:
“Questa quiete perfetta si era stabilita in casa loro dopo la morte del padre. Quell’evento aveva sconvolto la sostanza stessa delle loro vite. Tempo, aria e luce portarono ondate e ondate di trauma, finché tutto il trauma non si esaurí, e tempo e spazio e luce ridivennero immobili e nulla parve piú tremare, e nulla parve piú piegarsi. Il disastro era svanito nel nulla, come il treno stesso, e se la calma che lo seguí non fu piú grande della calma che l’aveva preceduto, l’impressione fu comunque quella.”
È come se l’inevitabilità della vita rendesse superflua qualsiasi riflessione, inutile qualsiasi abbandono emotivo:
 “Nel giro di un mese tutta la vita in letargo e la decomposizione interrotta sarebbero ricominciate daccapo. Nel giro di un mese non si sarebbe sentita in lutto”.
Questo il contesto nel quale Ruth e Lucille crescono. Tra adulti che si sfilano più o meno volontariamente dalle loro responsabilità (“tutta la nostra famiglia amava mantenere le distanze. Questa era la definizione piú imparziale delle nostre migliori qualità, e la descrizione piú gentile dei nostri peggiori difetti”), o che quando sono presenti, come Sylvie, non sono in grado di “fare casa” in senso classico perché “i suoi pensieri erano sempre altrove”. Sarà proprio Sylvie a mettere in crisi il rapporto simbiotico che lega le due sorelle, spingendole su due strada diverse: Lucille deciderà di uscire dall’isolamento facendo un passo verso gli altri, verso la luce e l’omologazione, verso quella sicurezza che la vita degli altri sembrano offrirle, Ruth invece seguirà Sylvie lungo la strada buia e stretta di chi vive senza certezze ed è consapevole della propria fragilità e che la teme ma non abbastanza da rinunciarvi (“Credo di non sapere cosa penso –. Questa confessione mi imbarazzò. Per me allora era fonte sia di terrore sia di conforto il fatto di sapere che spesso sembravo invisibile o, per meglio dire, sembravo esistere in modo minimo e incompleto. Mi sembrava di non avere impatto sul mondo, e di avere in cambio il privilegio di poterlo osservare a sua insaputa. Ma la mia allusione a questa sensazione di spettrale inconsistenza suonò strana alle mie stesse orecchie e il sudore incominciò a coprirmi tutto il corpo, dichiarandomi immediatamente colpevole di palese corporeità”).
Come detto, la cifra di questo romanzo mi sembra proprio lo iato tra la prosa piana de  Le cure domestiche e i concetti che la Robinson ci propone: ad un concetto di “fare casa” classico (quello inseguito da Lucille), che rincorre affannosamente il miglioramento e la stabilità sacrificando tutto quello che sembra non servire e soprattutto cancellando un passato non in linea con le proprie aspettative, Ruth (/Robinson) contrappone  un punto di vista decisamente anticonformista che rifiuta il modello della sorella (“mi sembrò che Lucille si sarebbe data da fare per sempre, pungolando, spingendo, blandendo, come se potesse supplire alla volontà che a me mancava, per costringermi dentro una forma decente e trascinarmi oltre le frontiere che immettevano in quell’altro mondo, dove mi pareva che non avrei mai potuto desiderare di entrare. Poiché mi sembrava che niente di ciò che avevo perso o che potevo perdere potesse essere ritrovato là, o, per dirla in altro modo, mi sembrava che qualcosa di quello che avevo perso potesse essere trovato nella casa di Sylvie”) e sceglie di non rinunciare ai ricordi, un modello di vita che mette al centro gli individui e non le cose (emblematico, a questo proposito, l’incendio della casa prima di abbandonare la città). Andare contro il comune sentire non è una scelta semplice, è un procedere rischioso, sempre  in bilico sopra ad un filo, con il rischio di cadere da un momento all’altro, concetto che la Robinson rende meravigliosamente con la metafora dell’acqua, quella del fiume in cui era precipitato il treno del nonno prima e nel quale si era gettata la madre delle due sorelle dopo, fiume che Sylvie e Ruth sfideranno passando sulla ferrovia che lo sovrasta, correndo il rischio di cadere a loro volta per poter essere libere di “fare casa” da un’altra parte.

sabato 25 febbraio 2017

László Krasznahorkai - Satantango



Fisiopatologia dell'attesa.

Una scrittura densa, materica, con frasi lunghe e ricche di subordinate che cercano di riprodurre su carta la lingua parlata, rinunciando così a semplificare i concetti ma esponendoli per come vengono fuori, anche in maniera farraginosa. Una lettura a tratti faticosa, con la quale si fatica ad entrare in sintonia, ma che ripaga dell’attenzione che richiede perché a forza di farsi strada nei meandri della narrazione di Krasznahorkai si finisce per ritrovarsi nel bel mezzo della storia. Una storia che è attraente e al tempo stesso straniante, che racconta ma non spiega e complica quando finge di chiarire.
Una storia raccontata per immagini, per tessere che poste una accanto all’altra vanno a costituire il mosaico di Satantango, un mosaico che sembra privo di un centro, nel senso che non c’è un protagonista assoluto ma una serie di personaggi (tutti molto bel tratteggiati e sviluppati nei loro caratteri) ognuno dei quali è protagonista della “sua” storia, della storia che vive e racconta dal suo punto di vista. Cambiamenti di prospettiva (lo stesso avvenimento visto attraverso occhi diversi) e alternanza dei piani temporali (per tacere dei simboli e delle fughe in avanti, in un mondo onirico tra fantasia e realtà), caratterizzano un romanzo dominato da un’atmosfera cupa, fatta di pioggia, oscurità e fango.
Fango come metafora che tutto sommerge e rende uguale, fango che rallenta i movimenti e che costringe all’immobilità. Quell’immobilità nella quale si trovano tanto bene i protagonisti della storia, un gruppo di disperati che attende l’attesa di Ieremiás, il deus ex machina che promette di portarli fuori dalle secche nelle quali la loro vita è precipitata. Futaki, Halics, Kerkes la signora e il signor Schmidt e gli altri sono morti che camminano, ciechi che vagano nel buio come i protagonisti del romanzo saramaghiano, uomini e donne che si sono auto-condannati all’attesa: aspettano per indolenza, per incapacità, perché ci hanno provato ed hanno fallito, perché non hanno mai trovato la forza per provarci… Aspettano perché non sanno far altro e intanto che aspettano cercano di dimenticare la realtà con l’alcool e con la danza, quel tango satanico che è l’ultimo sberleffo, l’unico sistema che conoscono per dimostrare a se stessi di essere vivi, almeno fino a quando non sarà passata la sbornia e tutto tornerà come prima.
Ieremiás è il Godot tanto atteso, che a differenza dell’eroe beckettiano però ad un certo punto si materializza, anche se con le sorprendenti fattezze del Don Chisciotte cervantiano con tanto di Sancho Panza al seguito (il fidato Petrina). Solo le fattezze però, ché Satantango non è un romanzo di eroi o di lieto fine e Ieremiás si rivelerà essere un truffatore di basso cabotaggio, un piccolo uomo che vive di espedienti come tutti gli altri. Non è più tempo di messia, sembra dirci Krasznahorkai, eppure quando il cielo è grigio e i tempi sono confusi gli uomini non possono fare a meno di cercarli, e di mettere nelle mani di qualcuno le loro vite. Poco importa chi sia quel qualcuno, l’importante è che sappia accendere ancora una speranza, che è l’unica (l’ultima) cosa a tenere in vita persone che da tempo hanno smesso di credere in qualcosa, e pazienza se poi speranza fa rima con illusione.

Satantango è un gran romanzo, ricco di spunti e con tanti piani di lettura, simboli (le campane, ad esempio), sprazzi di fantastico (la bambina morta – una delle figure più riuscite e sorprendenti del libro - che fluttua in aria come un personaggio chagalliano), zone oscure, pugni nello stomaco (la sadica fascinazione dei bambini per la violenza) e poi un finale che sembra tornare all’inizio, quasi a suggerire che è il personaggio del dottore il vero autore della storia che sta raccontando.

venerdì 10 febbraio 2017

Nikolaj Anciferov – Pietroburgo Passeggiate letterarie


Con l’avvento di Pietroburgo comincia ad esistere una letteratura russa” (Iosif Brodskij – Fuga da Bisanzio)

Libro per tutti gli amanti della Palmira del Nord e per gli appassionati bibliofili, che in queste pagine troveranno una puntuale descrizione di come Pietroburgo è stata raccontata dai grandi scrittori russi e anche un’analisi dei luoghi che hanno fatto da sfondo alle vicende narrate da Dostoevskij nei suoi romanzi.
Nella prima parte, L’anima di Pietroburgo, l’autore identifica il genius loci con il Cavaliere di Bronzo, la statua equestre di Pietro il Grande fondatore della città, che troneggia maestosa nella piazza delimitata sui quattro lati dalla cattedrale di Sant’Isacco, l’Ammiragliato, gli edifici del Sinodo e del Senato e dalla Neva e che incarna perfettamente quell’equilibrio tra grandezza e tragicità che da sempre accompagna la storia di Pietroburgo. Per riuscire a penetrare l’anima della città Anciferov considera dapprima la topografia dei luoghi, la natura (le notti bianche…) e le impressioni personali, ma si accorge che tutto questo non è sufficiente e quindi si affida al coro di voci che vengono dalla letteratura e che nel corso degli anni hanno saputo coglierne di volta in volta alcuni aspetti.
Si parte dal tentativo di Sumarokov di santificare Pietroburgo (Petropoli… sarai la Roma del Nord), evitando però pericolose fughe in avanti e tenendola ben salda nell’alveo della tradizione russa, creando un filone celebrativo nel quale si inscriveranno con qualche sfumatura anche le opere di Lomonosov, Deržavin, Vjazemskij e Batjuškov. A superare questa fase didascalica sarà Puškin che darà contenuto alla forma di chi l’aveva preceduto: il mito di Pietroburgo ha trovato finalmente profondità e spessore, due gambe possenti su cui reggersi, eppure proprio adesso che potrebbe cominciare a correre si siede, vittima del crepuscolo che gli impone la storia. Napoleone, i decabristi, il pugno di verro zarista… spengono la luce e la Pietroburgo che ritroviamo nei racconti di Gogol’ diventa lo specchio dei tempi, una città che sfugge all’interpretazione, nella quale la realtà si mescola con il sogno. È il crollo delle certezze di Puškin: tutto è inganno, la grandezza lascia malinconicamente il passo alla tragicità, le notti bianche alle lunghe giornate buie. Pečerin e poi Dmitriev elaboreranno questi temi spingendoli in un filone apocalittico, quello della fine di Pietroburgo sommersa dalle acque, rivincita della Natura sull’uomo.
Pietroburgo come città del contrasti, e se di tragedia e grandezza, di lotta tra uomo e natura e tra giorno e notte abbiamo detto, è ora il momento di aggiungere qualcosa anche sulla querelle tra occidentalisti e slavofili (su questo argomento ho trovato esaustivo Il mito di Pietroburgo di E. Lo Gatto). Si parte con Herzen che condanna la città come un’accozzaglia senza identità simile a quelle europee e che pure lo affascina per la sua tragicità, e si prosegue con Turgenev che sembra vedere intorno a sé solo sofferenza e poi con Grigorovič che insiste sul tema del declino irreversibile della città. A queste voci si oppone Belinskij, che ribalta completamente quello che sembrava essere il comune sentire e propone un punto di vista diametralmente opposto a quello in voga: Pietroburgo come finestra sull’Europa, entità in grado di unire la tradizione con il nuovo, un ponte tra passato e futuro, simbolo dell’orgoglio di un popolo che vuole rialzare la testa.
Un fuoco di paglia, perché a questa visione ottimistica si oppone quella figlia dei tempi di Nekrasov, che in continuità con Herzen e Turgenev ripropone con forza il tema di una città che corre verso il nulla, vuota e immersa in una nebbia reale e metaforica.
Originale è poi l’approccio a Pietroburgo di Belyi, che nel romanzo che le dedica osserva la città da punti di vista diversi ed inusuali, come vento che si infila in ogni direzione: un racconto visionario nel quale esplodono luce e colori in un corpo a corpo tra vita e sogno che finisce per mescolare e confondere i due contendenti. Per Blok Pietroburgo è la città-mondo con l’attenzione che si concentra soprattutto sugli strati più umili della popolazione.  Sarebbe troppo lungo dar conto di tutti i punti di vista proposti Anciferov in questo libro, aggiungeremo solo che per Achmatova Pietroburgo è il luogo dell’anima e per Majakovskij, figlio del futurismo, la città è invece trasfigurata in una specie di  mostro.
La Pietroburgo di Dostoevskij merita per l’autore un capitolo a parte, nel quale viene esaminata dapprima la topografia della città, i luoghi nei quali si svolgono gli avvenimenti dei suoi romanzi. Una città sospesa sull’acqua, senza radici o punti fermi, nella quale ognuno è solo con i suoi pensieri e nella quale i personaggi dostoevskijani vagano in continuazione in una specie di stato febbrile, attirati dalla possibilità di una vita diversa, in cerca di una via d’uscita alla loro solitudine. Anciferov punta l’attenzione sul ruolo importante delle case e quello delle finestre intese come occhi che guardano il mondo, sull’attenzione che Dostoevskij dedica all’anima fragile della città e sulla ricerca delle zone grigie, di quei contrasti di cui abbiamo detto e che non possono essere sciolti ma che sono destinati a rotolare aggrovigliati perché costituiscono la sostanza stessa di Pietroburgo. 

domenica 29 gennaio 2017

Giorgio Manganelli - Centuria

 Non solo esercizi di stile.

Piccoli quadri surreali (à la Magritte, verrebbe da dire) di raffinata eleganza formale. Finestre aperte sugli abissi dell’anima, brevi scene apparentemente senza peso, rarefatte, che muovono dalle banalità del quotidiano e che sotto l’aspetto di una finta innocenza celano un attacco alle strutture del reale, all’ordinario, al consueto. Tentativi di riappropriarsi dell’incerto, delle zone d’ombra; piacere dell’attesa per l’attesa.

Al centro c’è l’uomo, ripiegato su se stesso. La sua ricerca di ordine, di coerenza, di logica, che si scontra con l’elemento esterno, l’imprevisto, l’emozione. Appuntamenti mancati, ipotesi che potrebbero spiegare, tentativi di razionalizzare… e che finiscono con l’andare in tutt’altra direzione.

Protagonisti che sembrano chiusi in scafandri di ferro, personaggi anaffettivi che d’improvviso si trovano davanti i sentimenti e faticano a decifrarli, perché per leggerli usano gli strumenti della razionalità. Uomini descritti come viandanti ciechi che si aggirano smarriti in un mondo di domande senza risposte.