sabato 14 aprile 2018

Alice Munro - Chi ti credi di essere?



Alice è un ragno,
e i suoi racconti una tela che l’autrice dipana con la sicurezza di chi è padrona di una tecnica sopraffina. Non una parola fuori posto, si usa dire in certi casi, e i racconti di Chi ti credi di essere? sono proprio uno di questi casi.
Questo libro è un romanzo sotto forma di racconti, ognuno dei quali tratteggia un episodio della vita di Rose. Sono storie in bilico, “a metà tra la sfortuna e la colpa, sempre sull’orlo sdrucciolevole del fallimento”, con il rischio che la situazione precipiti da un momento all’altro.
Munro analizza le sfumature dei sentimenti, come si trasformano e con che velocità, indaga la volubilità dell’animo umano, la difficoltà dei protagonisti di chiarire (prima di tutto a se stessi) cosa vogliono davvero. Rose è l’emblema di una serie di personaggi che aspirano alla normalità ma vivono nell’indeterminatezza, nella provvisorietà emotiva, che cercano di corrispondere all’immagine che hanno di sé o a quella che vogliono dare agli altri. L’autrice scivola con mano sicura dalla superficie alla profondità delle cose e la messa a fuoco risulta sempre imperfetta, perché le cose possono essere diverse da come appaiono, i comportamenti possono essere interpretati e spesso anche i protagonisti non sono certi del significato delle loro azioni.
Chi ti credi di essere? è un viaggio tra le pieghe dell’anima: le contraddizioni, i dubbi e come questi condizionano l’agire delle persone, sono il materiale del quale si nutre la ricerca dell’autrice, materiale dal quale tira fuori un libro di grande qualità.

sabato 7 aprile 2018

Cesare De Marchi – La furia del mondo



La Grande Letteratura.

Libro alto. Quasi di altri tempi. Una scrittura rotonda, controllata, lenta e che a tratti appare anche un po’ impolverata, perché questo è un libro pubblicato nel 2006 ma che potrebbe tranquillamente essere stato scritto cento anni prima. 
La furia del mondo è un grande romanzo italiano, uno di quelli dei quali andar fieri e che contiene un sacco di cose: trama e ordito, scrittura e intreccio e poi arte, storia, filosofia, musica… Da Tasso a Giordano Bruno, dalla Divina Commedia a Shakespeare a Lutero, al padre di Bach, e tutto tenuto insieme meravigliosamente bene.
Un libro sull’inesplicabilità della vita, sulla ricerca vana di Rupprecht Radebach di trovare ad essa un senso. Un libro sulla “volontà intorpidita” di Abel (nomen omen), uccello troppo fragile per resistere alla furia del mondo. Ma anche un libro sulla vita di Uli e di Annette e di Christa e della malmaritata e di mille altre figure che faticano, che si adattano o provano a farlo, cercando un equilibrio che è fatto anche di rinunce o rimpianti e che si porta dietro il dolore e la fatica di una vita che rimane sempre troppo lontana da quella che avrebbero voluto. 
Con La furia del mondo De Marchi sceglie la strada della continuità, con una prosa che rinuncia al mito del post-qualcosa e del meta-qualcos’altro per inserirsi nella scia della tradizione e sfoderare un romanzo di grande spessore, uno dei grandi romanzi italiani del nuovo millennio.

sabato 31 marzo 2018

Alla fine il conto è zero


Viviamo senza capirne niente
fingendo, alcuni, di capirne tutto
dei giorni nostri in fila tra trascorsi nel trastullo
con i nostri hobby horse da strapazzo:
liti manie credenze
ruote da pavoncelli sediziosi
riti d’elevazione o d’abiezione
scongiuri voci impositive
oltraggi all’umiltà.
A poco servono teologi da festival
che ne sanno ancor meno
delle beghine di paese
bistrattate da poeti tracotanti;
e augusti filosofi verbigeranti
sotto il segno del mito o della moda;
e iene maculate dai denti gialli
che ringhiano, a loro tornaconto,
spirito di servizio o senso d’appartenenza.
Se ne può, di tutti – state certi –
fare anche senza.
Alla fine, il conto è zero:
la nostra sola scienza.

[Enrico Testa: “Cairn”]

sabato 17 marzo 2018

Kazimierz Brandys - Lettere alla signora Z.



I “tre pazzi” per la narrativa e un’altra triade (Herbert, Miłosz e Zagajewski) per la poesia: così si potrebbe riassumere la grande letteratura polacca del Novecento.
In realtà si tratta è una semplificazione eccessiva e Konwicki, Andrzejewski e Szymborska sono i primi nomi che mi verrebbero in mente per rimpolpare la lista.
E Kazimers Brandys, aggiungo ora.
Lettere alla signora Z. è un originale zibaldone di pensieri di un grande polemista, uno strano Grand Tour nel quale il Bel Paese è utilizzato come pretesto per riflettere sull’identità dei polacchi ma anche su molto altro. La forma è quella dell’epistolario, una serie di lettere indirizzate appunto alla signora Z., una conoscente dell’autore; i temi trattati sono la vita, i cliché, il tema dell’identità polacca, ma si tratta di riflessioni di ampio respiro e che possono essere facilmente allargate all’uomo in generale.
La seconda parte del libro è relativa a lettere che l’autore indirizza all’amica dalla Polonia e risulta, a mio avviso, più debole, incentrata prevalentemente su considerazioni relative a costumi, abitudini e comportamenti della società del tempo.

“Cara Signora, sono profondamente convinto che non sia possibili descrivere ciò che si è visto. Si possono registrare dei dettagli, si può fare un inventario, stabilire i fatti e basta. Ma per ricreare la realtà, per darle lo stesso valore nella descrizione c’è solo un mezzo: inventare. In effetti vale la pena di ricordare certe cose, anzi, qualche volta è indispensabile per legittimare la finzione (ci vuole un chiodo su cui appendere il quadro); ma i veri bugiardi, i bugiardi per pura passione, si servono della verità come di un male indispensabile. Circondato da fatti, oggetti e persone, lo scrittore deve essere un fanfarone, altrimenti è perduto. Deve badare ai suoi fatti interni, la sua verità è sempre una verità su se stesso. La letteratura impegnata, della quale sono un sostenitore, consiste nell’includere se stessi nelle questioni del nostro tempo. Dicendo “se stessi” intendo l’individualità, le esperienze private, la difesa del proprio io da tutto quel che lo annienta. La letteratura è fatta di questioni centrali dello scrittore tra le quali a volte si trovano anche questioni centrali dell’umanità.”

sabato 10 marzo 2018

Paolo Zanotti – Bambini bonsai




"È solo dopo, quando bambini non si è più, che si capisce come vanno davvero le cose."

Bambini bonsai è uno strano racconto nel quale si intrecciano le voci di una prima persona  e quella di Pepe, il protagonista della storia. Siamo all'interno di una favola sull’infanzia ambientata in un futuro prossimo quasi distopico, nel quale gli animali si sono estinti, il clima è cambiato, il mare è una superficie oleosa e sui resti del cimitero genovese di Staglieno sorge  una specie di baraccopoli. All’inizio il bambino è una specie di pupazzo carnoso costretto a stare dentro un secchio d’acqua per il rischio di disidratarsi; il padre, un androide con parti sostituite da protesi meccaniche, è un uomo fallito perso nella bottiglia di carrubo e nei sogni musicali e sottomesso alla moglie, una donna dominante e lontana, una bellissima spagnola sempre pronta a civettare con chiunque. La figura di adulto con la quale Pepe ha un rapporto privilegiato è zia Incarnazione, che gli regala modellini di animali e soprattutto la scatola con il ritratto della bimba dagli occhi di albicocca, regalo che apre a Pepe le porte del sogno e della fantasia.
Sarà una grande pioggia a segnare il punto di svolta nella vita del ragazzino, pioggia come rito di passaggio che porta i bambini  staccarsi dagli adulti per entrare nella vita vera come protagonisti. Rito di passaggio anomalo però, perché gli adulti la temono e si rintanano al chiuso incapaci di fronteggiarla, rivelandosi i veri immaturi della situazione.
Inutile riassumere ulteriormente la trama, meglio lasciare al lettore il piacere di scoprire la teoria di personaggi che animano le pagine del libro: la piccola Primavera, Petronilla (una specie di Alice nel Paese delle Meraviglie) con la sua variopinta compagnia di amici e Sofia, soprattutto. Da gustare sono anche gli episodi poetici e surreali dei quali Zanotti dissemina il percorso: i sogni premonitori di Pepe, i suoi strani incontri, il lamento del mare morente, l’utilizzo fantasioso degli animali nelle metafore, i denti di memoria...
Bambini bonsai è stata una lettura sorprendente. La descrizione fedele del mondo poetico e insieme crudele dei bambini, una parabola moderna sull’Eden perduto dell’infanzia e sulla rinuncia dolorosa ai sogni che comporta il passaggio all’età adulta ("mi ero illuso che crescere significasse solo accumulare cose nuove. Ma ecco che dovevo aprire gli occhi. Prendere atto che a ogni nuova tappa occorre rinunciare ai privilegi di quella precedente").

Se ripenso oggi a quel periodo me lo ricordo tutto affollato di fantasmi, simulacri, nebbie di immagini. Del resto cosa c’è di concreto nell’infanzia? Persino gli adulti non sono altro che un sogno che si fa da bambini: è solo dopo, quando bambini non si è più, che si capisce come vanno davvero le cose, e che non c’è poi tutta questa differenza.