mercoledì 19 dicembre 2018
sabato 15 dicembre 2018
Roberto Arlt – Acqueforti di Buenos Aires
Acqueforti
di Buenos Aires è la raccolta
di una serie di articoli scritti da Roberto Arlt per El mundo tra il 1928 e il 1933 e che richiama nel titolo la tecnica
incisoria omonima, caratterizzata dall'ampia libertà d'azione concessa
all'artista che non necessita di un lungo tirocinio per applicarsi ad essa.
Sono racconti brevissimi, istantanee
che riprendono scene di vita della Buenos Aires degli anni '30, una città colta
mentre stava diventando metropoli, nel momento in cui passaggio verso la
modernità spingeva in maniera decisa sull'acceleratore cancellando gli aspetti
più tradizionali della vita porteña. Siamo lontani – è bene dirlo subito –
dalla grandezza disperata e folle de I
sette pazzi e I lanciafiamme, ma
si tratta tuttavia di una lettura interessante per approfondire la conoscenza
con l'opera di Arlt.
La scrittura, innanzitutto. Il
lunfardo, il gergo che contamina lo spagnolo con termini dialettali degli
immigrati italiani e di altri paesi europei e non europei. Uno slang utilizzato
dagli abitanti di Buenos Aires al quale Arlt conferisce dignità letteraria,
mescolandolo con il linguaggio più "colto" perché, come scrive
Ricardo Piglia in Respirazione
artificiale, Arlt "non intende il linguaggio come unità, come qualcosa
di coerente e liscio, come un conglomerato, una marea di gerghi e voci. […] Arlt
trasforma, non riproduce."
Scrittura perfetta quindi per
l'utilizzo che ne vuole fare l'autore, descrivere cioè attraverso brevi
ritratti estemporanei i tipi caratteristici della società del tempo:
nullafacenti, trafficoni, gente comune, furbastri… Sono fotografie di un'epoca,
bozzetti via via caustici, disincantati, acuti, ironici, provocatori, curiosi.
Immagini di una vita passata cariche di nostalgia, perché, scrive Arlt,
"ci resta l'orgoglio di aver fatto progressi, questo sì, ma la felicità
non esiste. Se l'è portata via il diavolo."
domenica 9 dicembre 2018
sabato 8 dicembre 2018
Julio Cortázar – Rayuela. Il gioco del mondo
Rayuela è un romanzo sperimentale sospeso tra Francia ed
Argentina, tra surrealismo (e patafisica) e tradizione. Rayuela è un mandala, Rayuela
è un gioco. Rayuela è una bomba
piazzata nel bel mezzo dei romanzo che lo fa esplodere in mille pezzi; parole
che schizzano da tutte le parti imbrattando i muri della storia e che noi ci
affanniamo a rincorrere e poi raccogliere per provare a incollarle di nuovo
insieme in modo da ricostruire un discorso che abbia un senso, per riallacciare
i fili di una trama che abbia una logica che ci tranquillizzi. E mentre noi ci
sforziamo di ricostruire il puzzle, ecco che da una parte c'è lui, Cortázar, il
bombarolo, che ci guarda e sorride, perché non abbiamo capito che le parole
devono restare lì dove sono finite, confuse e confondenti, perché quello è il
loro scopo.
Attenzione, però. L'intento
dell'autore non è quello di divertire o stupire il lettore annoiato dalla
lettura di tanti libri sempre uguali, qui ci viene richiesto di passare da un
ruolo passivo ad uno attivo, cercando nella trama un percorso di lettura
personale, ricostruendo a partire da Rayuela
un altro libro che sia solo nostro. E
allora possiamo dire che questo libro è il tentativo di Cortázar di negare una
realtà unica per andare alla ricerca di altre realtà, di percorrere contemporaneamente
tutte le strade possibili, senza fermarsi né al disordine della Maga, né alla
ricerca dell'ordine perfetto di Horacio; Rayuela
vuole raccontare il divenire, il movimento, il passaggio da qualcosa a
qualcos'altro, rappresenta lo sforzo dell'uomo che consapevole di essere
imperfetto cerca di trascendere se stesso senza sapere però quale direzione
prendere, e allora inventa, genera, e la sua verità diventa quella
dell'invenzione.
Sovvertire l'ordine esistente,
questo è ciò che importa, rompere gli schemi, i dogmi che limitano il nostro
orizzonte. Anche il linguaggio deve essere superato, non tanto le parole quanto
le regole che le tengono assieme, con Rayeuela
l'obbiettivo diventa quello di incamminarsi in una direzione nuova, una strada
che non ha una meta definita ma che vale la pena di essere percorsa perché
rappresenta il cambiamento, il viaggio verso il nuovo.
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Cortázar,
letteratura argentina,
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domenica 2 dicembre 2018
Norman Manea – Il ritorno dell'huligano
L'autobiografia di Norman Manea in
forma di romanzo. La storia di un esule nel mondo accompagnato da un senso di
colpa, prima per non essere partito e poi per averlo fatto. La storia di un ebreo
errante perennemente in fuga, dalla dittatura del generale Antonescu prima e da
quella di Ceaușescu poi: dallo sradicamento dalla Bucovina per finire in
Transnistra durante gli anni dell'infanzia, fino all'espatrio nel 1986 in
America, il "Paradiso" dove non manca niente, nemmeno la depressione
("Non manca niente in Paradiso: cibo, vestiario e giornali, materassi,
ombrelli, computer, scarpe, mobili, vini, gioielli, fiori, occhiali, dischi,
lampadari, candele, lucchetti, catene, cani, uccelli esotici e pesci tropicali.
E negozianti, saltimbanchi, poliziotti, parrucchiere, lustrascarpe, contabili,
puttane, mendicanti: tutte le fisionomie, le lingue, le età, le altezze e tutti
i pesi").
Manea è l'huligano del titolo,
termine da intendere non nell'accezione moderna di teppista ma in quella che fa
riferimento a un libro di Mihail Sebastian: huligano nel senso di marginale,
non allineato al pensiero comune, escluso, "l'altro" per antonomasia.
Un libro che con una scrittura
ricca racconta la storia dell'autore e quella della sua famiglia: ricordi, immagini,
echi di voci lontane, fotografie dalle quali prova a ricostruire fatti accaduti
tanto tempo prima. Non si procede in ordine cronologico, ma per episodi che
come tessere vanno a comporre un mosaico nel quale c'è la vita di Manea ma
anche la storia della Romania moderna. L'infanzia, la fascinazione del
comunismo, la menzogna come rifugio e poi il risveglio dall'illusione, la
scelta della facoltà di Ingegneria, la malattia dello scrivere, il rapporto con
la madre… un racconto nel quale vita e letteratura si intrecciano e si
confondono, perché per Manea la letteratura è
vita.
La lingua rimane l'unico punto
fermo, il suo rifugio, la vera Patria dell'autore, quella che definisce
"la casa della lumaca", l'elemento in grado di conferirgli quella
coerenza e quella di identità che niente e nessuno possono portargli via.
Lettura interessante di un autore
che merita un ulteriore approfondimento.
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