domenica 20 giugno 2021

Memoria della memoria – Marjia Stepanova

 


«il libro sulla mia famiglia alla fine non è affatto sulla famiglia, ma su qualcos'altro. In realtà è sul meccanismo della memoria e su ciò che vuole da me.»

Memoria della memoria è un'opera sorprendente tra saggio e romanzo in cui, in una sovrapposizione di piani narrativi, letterario e meta-letterario finiscono per trarre linfa uno dall'altro. Stepanova riprende i fili di un tema che attraversa la letteratura europea e russa dal dopoguerra ad oggi, che sviluppa in maniera personale corredando i suoi pensieri con un intertesto ricchissimo.
I ricordi personali, quelli della scrittrice e della sua famiglia, diventano il pretesto per sviluppare una riflessione ad ampio raggio che parte dai materiali della memoria (oggetti, fotografie, lettere…) per affrontare il canone della memoria in senso lato. Stepanova individua i trabocchetti di cui è costellato il percorso, dai falsi ricordi ai rischi della post-memoria e si confronta con punti di vista diversi: quello di Mandel'štam di "seppellire il tempo passato in una bara di pino", quello di Charlotte Salomon di affrancarsi dal passato descrivendolo, quello di Joseph Cornell di salvare attraverso le sue scatole la memoria del passato e quello di Sebald – il più vicino alla scrittrice russa – che intende il tempo "come una caverna porosa, simile a certi monasteri scavati nella roccia, nelle cui celle ciascuno svolge il proprio lavoro parallelo".

In questo libro l'autrice lavora su due livelli, familiare e nazionale. Su quello familiare si propone di mettere ordine nei propri ricordi nonostante la consapevolezza che si tratta di un ordine illusorio. L'impresa merita comunque di essere intrapresa perché ha il potere taumaturgico di "farla stare meglio" e anche perché raccontare il mondo dei ricordi le consente di strapparlo per un attimo dall'oblio.
Sul piano nazionale invece, prova ad affrontare e superare la fissazione del mondo letterario russo per il passato, specchio di una crisi ideologica caratterizzata dal rifiuto di confrontarsi con il presente e di pianificare una prospettiva per il domani.
Memoria della memoria è un grande libro sul bisogno e insieme sull'impossibilità della memoria.

Sapevo che il vero aleph di questa narrazione l’avevo già in tasca. Era una statuina minuta, circa tre centimetri di lunghezza, di porcellana bianca e fattura piuttosto convenzionale, un putto nudo e riccioluto che sarebbe potuto passare per un cupido, se non fosse stato per i calzini. L’ho comprato su una bancarella di antiquariato a Mosca, dove si sono resi conto tardi che gli oggetti del passato sono costosi. Ma non mancavano quisquilie da due soldi, e infatti in una vaschetta colma di ogni genere di bigiotteria intravidi una scatola che conteneva un mucchietto di cosini bianchi. Stupiva che non ce ne fosse almeno uno tutt’intero, bene o male ostentavano tutti qualche mutilazione: chi niente braccia, chi niente testa, e tutti quanti senza eccezione scheggiati e ammaccati. Li rigirai a lungo tra le dita in cerca di uno un po’ più grazioso, finché non trovai il più bello. Era quasi intero ed emanava un luccichio da regalo. Ricci e fossette al loro posto, e anche i calzini lavorati a maglia, e né la macchia scura sulla schiena né l’assenza delle braccia impedivano di deliziarsene. Naturalmente chiesi alla signora della bancarella se per caso ne avesse uno ancora più integro, e in risposta mi raccontò la storia che decisi di approfondire. Queste statuine da due soldi sono state prodotte in una città tedesca per mezzo secolo, mi disse la signora, dalla fine degli anni ottanta del XIX secolo. Le vendevano un po’ dappertutto, nelle drogherie e nei negozi di casalinghi, ma la loro funzione principale era un’altra: semplici ed economiche, venivano usate nel trasporto delle merci come paracolpi friabili, affinché le cose pesanti non si sbeccassero urtandosi nel buio. In pratica queste statuine venivano prodotte apposta per essere mutilate; ma poi, prima della guerra, la fabbrica chiuse. I magazzini, pieni di queste piccole porcellane, rimasero dismessi finché non finirono sotto un bombardamento, e parecchio tempo dopo, quando le casse vennero aperte, dentro non rimanevano che pezzi monchi. Così comprai il mio putto senza prendere nota del nome della fabbrica o del telefono della signora della bancarella, sapendo però che probabilmente mi portavo in tasca il finale del mio libro: la soluzione del problema che si ha l’abitudine di cercare nelle ultime pagine. Diceva già tutto. E che non esiste storia che arrivi integra fino a noi, senza piedi malconci e teste penzoloni. E che lacune e strappi sono l’immancabile compagno di viaggio dello stare al mondo, il motore recondito, il meccanismo della futura accelerazione. E che solo il trauma ci trasforma da prodotti di massa in un noi inequivocabile, un noi al dettaglio. E che naturalmente anch’io sono una di quelle statuine, un oggetto di larga produzione, frutto della catastrofe collettiva del secolo andato, suo survivor e involontario beneficiario, al mondo per miracolo e tra i vivi.
[…]
Una sera piovosa la statuina mi cadde di tasca e si ruppe sul pavimento di piastrelle della vecchia casa, come l’uovo d’oro nella favola della gallina pezzata. Si ruppe in tre pezzi, la gamba nella calzina volò sotto la pancia della vasca da bagno, il corpo da una parte, la testa dall’altra. Ciò che illustrava alla meno peggio l’integrità della storia propria e famigliare d’un tratto divenne allegoria: dell’impossibilità di raccontarla e dell’impossibilità di conservare almeno qualcosa, e della mia totale incapacità di rimettere insieme me stessa dai frantumi di un passato altrui o almeno appropriarmene in modo convincente.

domenica 13 giugno 2021

Il serpente – Stig Dagerman



«non poté evitare di vedere in quegli occhi la ragione per cui aveva vomitato. Non era stato il vino o qualcosa di unto che aveva mangiato. Era il disgusto per il mondo ripugnante degli adulti, per la doppiezza delle loro azioni, per la vigliaccheria, vale a dire per la paura di avere paura. Aveva vomitato per Sörenson, che aveva creduto possibile sfuggire all’angoscia di quello che capita agli altri come si sfugge al conto di una trattoria.»

Dagerman è un autore scomodo, che nei suoi scritti non indora la pillola e non fa sconti, soprattutto a se stesso. Un autore intransigente, mai disposto a mercanteggiare la sua integrità morale, che ha spinto le sue riflessioni sulla vita e sull'uomo così in profondità da condurle ad arrestarsi su un binario morto. È giovane, giovanissimo, quando scrive Il serpente, ma a ventidue anni ha già combattuto la sua battaglia e l'ha persa. L'anarchismo libertario in cui credeva è stato sconfitto. In Spagna dalle truppe franchiste e in Russia da un comunismo repressivo che si è rivelato la faccia cattiva del socialismo utopista nel quale lo scrittore aveva sperato.
Il serpente è il frutto della fine di queste speranze, una critica impietosa dell'organizzazione militare, della società svedese e del singolo. Il serpente, figura reale e simbolo ricorrente nelle pagine del romanzo, è la metafora della paura e dell'inquietudine che attanagliano i protagonisti; liberarsi della paura della paura è lo scopo che ognuno di loro dovrebbe perseguire.

Un libro sorprendente da molti punti di vista, ad iniziare dalla struttura composta da due parti, un romanzo breve e una serie di racconti collegati tra loro (definiti da qualcuno una specie di Decameron dell'angoscia) scritti da punti di vista diversi, con una padronanza della tecnica letteraria sorprendente e con un linguaggio che riflette il parlato, lontano dallo stile asciutto, essenziale, che ritroveremo nei suoi romanzi successivi. L'attenzione alla psicologia dei personaggi è massima, le figure non sono mai stereotipate ma sempre in evoluzione, Dagerman ci conduce per mano a guardare nelle pieghe dei loro caratteri, ne mostra dubbi e insicurezze, ne segue con attenzione le traiettorie fino a vederli precipitare dentro le loro vite, nel tentativo, vano, di ribellarsi al loro destino.
Il serpente è un libro il cui senso si lascia comprendere appieno solo alla fine, quando tutti i fili convergono e i collegamenti tra le storie diventano evidenti. Un ottimo punto di partenza per chi voglia fare conoscenza con questo grande scrittore.

«Che senso ha», si chiedeva adesso, «che senso ha rispettare l’ora, essere precisi, accurati, ordinati, coscienziosi, laboriosi, se tutto questo non ci può salvare? Perché non siamo dei meccanismi, visto che tanti vorrebbero esserlo? Perché nessuna assicurazione al mondo garantisce la libertà dalla paura? »
L’assicurazione contro la paura consisteva nell’essere come gli altri.
Ammetti a te stesso che chi si comporta in modo esemplare, chi rastrella i vialetti del suo giardino e spolvera la rilegatura dei suoi libri lo fa solo per viltà: sa che c’è altro da fare, ma si aggrappa a queste cose per non doversi avventurare in qualcosa di ignoto.
lo scrittore, a mio parere, dovrebbe essere un simbolo di tutte le persone del mondo che non si fanno trascinare dall’ambizione di soffocare la propria paura.

domenica 30 maggio 2021

Il pozzo – Regina Ezera



Una trama sottile, la storia di un amore irrealizzato, per un libro dove quello che conta non è tanto il racconto delle vite ordinaria dei protagonisti quanto le atmosfere, i dettagli, il non detto o meglio quello che è detto sotto metafora e attraverso descrizioni, grazie ad una prosa altamente evocativa con ogni parola che risulta magicamente al suo posto.
I personaggi sono perfettamente caratterizzati attraverso il linguaggio e i comportamenti, sia quando essi si aprono agli altri (notevole è la descrizioni dei bambini, del loro mondo e della loro innocenza), sia quando non riescono a farlo e tornano a chiudersi nel loro guscio. La storia, per come è congegnata, potrebbe scivolare facilmente lungo il piano inclinato del sentimentale ma Ezera la conduce con mano sicura fuori dalle secche del romanticismo virando verso il romanzo psicologico. Il pozzo è un libro sull'impossibilità dei personaggi di uscire dalla solitudine delle loro vite; l'incontro del protagonisti è avvenuto troppo tardi, il passato li imprigiona allungando la sua ombra sul presente condizionandolo e rendendo impossibile anche la sola idea di serenità. La felicità è una sirena che prova a chiamarli e a sedurli dall'altro lato della riva con il suo canto suadente ma la realtà è una catena troppo forte da spezzare.
"Nuotava senza vedere o sentire nulla, in un paesaggio fatato, irreale. Quel mondo lontano e misterioso, nascosto dalla nebbia, l’attirava con un’illusione d’infinito e lei vi nuotava incontro, nuotava e nuotava senza provare stanchezza, l’acqua compatta e pesante la sosteneva e scivolava sotto di lei come un tapis roulant. Ma girandosi indietro vide emergere di nuovo la riva scura, massiccia e familiare, che la teneva legata a sé come con un filo di seta grigia, e lei obbediente ritornò"

domenica 23 maggio 2021

Gli anelli di Saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra – W.G. Sebald



Nell'agosto del 1992 Sebald inizia un viaggio a piedi attraverso la contea del Suffolk, in Inghilterra, "con la speranza di sfuggire al vuoto che si stava diffondendo in me". È un viaggio colto lungo le strade della memoria, tra il disordine di ricordi, pensieri e associazioni di idee che dilatano i loro confini fino a creare un territorio a metà strada tra reale e letterario, uno spazio nel quale l'autore (e noi con lui) si perde.
"L’invisibilità e l’inafferrabilità di ciò che ci fa muovere, questo è rimasto un enigma, alla fin fine insondabile, anche per Thomas Browne che considerava il nostro mondo solo come l’ombra di un altro. Egli ha quindi sempre cercato, nelle sue riflessioni e nei suoi scritti, di considerare l’esistenza terrena, le cose a lui più vicine così come le sfere dell’universo, dal punto di vista di chi ne è al di fuori, anzi si potrebbe dire con lo sguardo del Creatore. E per attingere le vette, indispensabili da raggiungere a tale scopo, l’unico mezzo che gli si prospettava era quello di un pericoloso volo ad alta quota sulle ali del linguaggio."
Le cose passano, e noi camminiamo sulle macerie di mondi trascorsi e costruiti uno sull'altro come le mura di Troia. La storia è una storia dell'evoluzione e della distruzione, la memoria un velo attraverso il quale guardiamo il passato.
Troppe cose sono successe prima di noi e ciò vanifica la possibilità di riportarle in vita con il ricordo. E allora perché scriverne?
"a chi ce lo domandasse non sapremmo dire perché continuiamo a scrivere, se per abitudine o per ambizione, oppure perché non abbiamo imparato a fare altro, o per la meraviglia che ci prende davanti alla vita, o magari per amore della verità, per disperazione o indignazione, così come non sapremmo mai dire se scrivere accresca in noi la saggezza o la follia. E forse tutti noi perdiamo la visione d’insieme appunto perché intenti a costruire ciascuno la propria opera, ed è magari per questo che tendiamo poi a confondere la complessità crescente delle nostre costruzioni mentali con un progresso nella conoscenza, mentre nel contempo già intuiamo l’impossibilità di capire gli imponderabili che davvero determinano il corso della nostra esistenza."

"Scrivere – conclude Sebald – è l'unico modo che conosco per difendermi dai ricordi. Se restassero chiusi nella mia memoria, con il passar del tempo diventerebbero sempre più gravosi, al punto che finirei per crollare sotto il loro peso via via crescente. Per mesi, per anni, i ricordi dormono dentro di noi e vanno in silenzio lussureggiando, finché un evento irrilevante li ridesta ed essi ci rendono singolarmente ciechi per la vita. Quante volte ho dunque percepito i miei ricordi e la loro trasposizione sulla carta come una faccenda umiliante e, in fin dei conti, esecrabile! Eppure, che cosa saremmo mai senza il ricordo? Non saremmo in grado di mettere ordine nemmeno tra i pensieri più semplici, il cuore più ardente perderebbe la capacità di volgersi con simpatia a un altro, la nostra esistenza consisterebbe soltanto in una successione infinita di momenti privi di senso, e non vi sarebbe più traccia di un qualche passato. Che miseria, la nostra vita! Così piena di idee insensate, così vana da non sembrar altro, a un dipresso, che l’ombra delle chimere generate dalla nostra memoria. Sempre più terribile si manifesta in me la sensazione di un’infinita lontananza. ".

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