sabato 4 settembre 2021

Le femmine. Vecchio scorticatoio – Wolfgang Hilbig


Un viaggio al termine della notte tra Dostoevskij, Céline e Lamborghini

Le femmine e Vecchio scorticatoio sono due monologhi potenti, apocalittici e disperati con i quali Hilbig urla al mondo la sua rabbia e impotenza nei confronti della società che lo circonda, figlia di una generazione che non ha fatto ancora davvero i conti con la tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Quello che descrive con un'efficacissima scrittura "espressionista" è un cammino di sconfitta, un viaggio al termine della notte tra rifiuti, incubi e fantasie distorte, un viaggio che parte da un'ossessione e lo precipita in un vuoto esistenziale.
Il protagonista de Le femmine è un uomo perduto, un'anima solitaria incapace di comunicare con gli altri, di sentire come loro sentono. Vive tra bidoni di immondizia, scarto tra gli scarti, diviso dal mondo e avvitato su se stesso, vittima anche della sua incapacità di definirsi.
«Sì, la mia era una malattia della parola…»
 «Fuori il mio corpo correva nella notte, del tutto insensibile, mentre dietro di me la parola era immersa nel miasma stantio, diffuso e tuttavia tenace di un'angoscia vecchia e impenetrabile, i vocaboli si dibattevano imprigionati in reti nebulose, e più i guizzi di terrore laceravano fili e maglie, più quelle si tendevano fitte e sottili. Che cosa ci facevano le mie parole in mezzo a quel groviglio, mi domandavo: forse cercavano di accoppiarsi e non ci riuscivano; va' via, su vieni, resta qui…erano parole guastate dalla diffidenza verso il luogo in cui venivano pronunciate.»
Il dramma nasce anche da questo: dal comprendere di essere affetto da una specie di schizofrenia della parola proprio nel momento in cui ci si è appesi alla scrittura come ciambella di salvataggio da un mondo che va alla deriva. Incapace di entrare in sintonia con la realtà, il protagonista de Le femmine si rifugia in un solipsismo esasperato, finendo per perdere anche il contatto con se stesso e precipitando in uno stato di abulia, solo con l'unico conforto delle sue visioni.


Simile è il percorso del protagonista di Vecchio scorticatoio, un ragazzo che cerca di scomparire, alla ricerca di un luogo fisico che in realtà è un luogo dell'anima, esule in un terra di mezzo ai margini della società. Il suo è un viaggio veloce verso il dubbio, la confusione, il nulla. Anche qui le parole, ultima bussola per orientarsi nello disfacimento generale, perdono il loro significato e lasciano l'uomo solo, abbandonato al suo destino. Solo a urlare il suo grido afasico nel vuoto.

Link
http://www.altrianimali.it/2021/04/09/contaminati-paese-la-gente-linguaggio/

sabato 14 agosto 2021

La metà del doppio – Fernando Bermúdez

Esercizi di scrittura del più importante scrittore argentino contemporaneo


Sette racconti nei quali ciò che più conta non è tanto la trama quanto l'architettura e le tecniche narrative che l'autore mette in campo per costruire strutture labirintiche, reti sempre diverse che inevitabilmente finiscono per avviluppare il lettore alla storia.
Quella di Bermúdez è una scrittura complessa, non lineare, che scrive se stessa come le mani che disegnano di Escher. Sette racconti sui quali aleggia l'idea della perdita, della ricerca o dell'inseguimento. Si passa dalla narrazione classica (Mezzanotte passata) a quella che sovrappone i piani narrativi (Hugo Talmann, morto a New York), dall'uso di tecniche cinematografiche (La condizione genuina) a storie che partono dal reale per sconfinare nel surreale (Circostanziale di tempo).
L'autore gioca con le parole, in apparenza elevandole a simboli di precisione ma in realtà gettandole nell'indeterminatezza con continui cambi di registro da un racconto all'altro, con un cambiamento dei punti di vista che richiede la costante attenzione del lettore: non conta ciò che è vero e ciò che è falso ma quello che succede o, meglio, come succede, cosa provoca nei personaggi e in noi stessi. Sono storie che si aprono ad altre storie, in un labirinto di trame, un affascinante gioco di scatole cinesi in cui è bello smarrirsi per cercare la propria strada, sapendo che a una lettura successiva potremmo trovare una nuova traccia, una pista diversa da seguire.

domenica 8 agosto 2021

Tre orfani – Giorgio Vasta


Il 12 marzo 2020, giorno del suo cinquantesimi compleanno, lo scrittore Giorgio Vasta trova seduti alla sua tavola Bartleby e il capitano Achab.
Questo è l'inizio di Tre orfani, un racconto surreale che non ha paura di mescolare autofiction e metaletterario per raccontare il disagio dell'uomo (anche) al tempo della pandemia.
«tre figurine consunte, tre reduci non si sa da cosa e da dove: tre reietti: tre relitti»
I personaggi melvilliani sono trattati da Vasta in maniera fedele all'originale letterario, sia nei comportamenti che nel linguaggio: a un Achab che scruta inquieto il buio della notte palermitana credendo donchisciottescamente di vedere cetacei dietro ogni ombra, fa da contraltare un Bartleby silenzioso, impegnato a cancellare prima le mail dal computer dell'autore, poi gli impegni dalla sua agenda, quelli della rubrica telefonica e i contatti di whatsapp.
«Seduto sulla sponda del letto, mi ero reso conto di non essere attraversato da nessun sentimento», 
scrive Vasta, prima di andare in bagno a lavarsi le mani, gesto che in questi mesi abbiamo ripetuto tutti fino allo sfinimento facendolo diventare automatico, e sono parole e comportamenti che ben rappresentano lo straniamento dell'autore e di noi con lui, abitanti di un mondo che è diverso da come era prima.
Bartleby rimuove, Achab è il visionario, quello che cerca qualcosa di indefinito, e Vasta si trova nel mezzo delle due visioni, sospeso tra una e l'altra, sospeso tra il non fare e il fare (ma comunque senza saper oggettivare quel fare). Liberatorio, oltre che simbolico, risulta così il gesto con cui nelle ultime pagine scaglierà ina scopa diventata arpione non tanto nella realtà del giardino ma nel vuoto dell'immaginazione, della letteratura.
«era stato solo allora, dicevo, che indietreggiando ancora di un passo avevo rinsaldato a presa, sollevato il braccio e fatto ruotare la spalla fino a battere l'estremità arrotondata contro il pavimento dietro di me; poi avevo mosso qualche passetto in avanti – avrei dovuto darmi una spinta e avevo traballato, avrei dovuto giocare di gambe per ottenere slancio e avevo vacillato: il movimento era venuto fuori storpio, ma lo stesso, non so come, ero riuscito a disegnare con il corpo un arco ampio e poi a richiuderlo schiudendo il pungo: il bastone di scopa intagliato aveva lasciato la mia mano e lungo la sua traiettoria, prima verso l'alto e poi verso un punto il più possibile esatto e lontano, era diventato un rampone che trapassava senza suono, uno strato dopo l'altro, il cielo nero e i suoi arcipelaghi stellari, l'etereo e il subacqueo, una babele di silenzi, dirigendosi cieco verso il suo bersaglio – la balena di Achab, il muro di Bartleby, e ogni scrittura fatta di solchi e schegge, e i mio cinquantesimo anno pandemico e tutto il tempo chiuso dentro gli anni e dagli anni sprigionato, il tempo preso nelle camere, disperso nel mio corpo, quello che mi si scioglie alle spalle e quell'altro, se è un altro, che a ogni respiro mi brancola fuori dal petto, che sempre più piano balbetto con le labbra e con le dita – finché, no so più quando, avevo sentito l'impatto: la punta del rampone che con un rumore colmo, profondo, tenero e aspro, si conficcava nella carne del buio.»

sabato 17 luglio 2021

Kornél Esti – Dezső Kosztolányi


«Tra la vita e la letteratura Esti sceglie sempre la letteratura, poiché quella è la vita.»


Diciotto capitoli che sono altrettanti racconti singoli che nel loro complesso vanno a costruire il romanzo della vita di Kornél Esti, alter ego o meglio "doppio" dell'autore.
Un tipo frivolo, snob, che vive al di fuori degli schemi della società del tempo, quello che oggi definiremo un "non omologato".
«Mio fratello e mio opposto.» lo definisce l'autore «Uguale in tutto e diverso in tutto. Io ho raccolto, tu hai sparpagliato, io mi sono sposato, tu sei rimasto celibe, io adoro la mia gente, la mia lingua, respiro e vivo solamente in patria, ma tu, giramondo, voli sopra le nazioni, libero e garrisci l'eterna rivoluzione. Ho bisogno di te. Senza di te sono vuoto e mi annoio. Aiutami, altrimenti perisco.»
Due facce della stessa medaglia: uno sa solo vivere e l'altro solo scrivere, da qui la decisione di diventare coautori. Kornél Esti racconterà le sue avventure e l'autore le scriverà. Un romanzo? Un diario di viaggio? Una biografia romanzata? Tutti e tre insieme.
Frammenti, episodi di vita, le mirabolanti avventure di Kornél Esti, un "marziano" a spasso per l'Europa del primo Novecento.
Episodi che già dal titolo dei capitoli riecheggiano quelli del Don Chisciotte. Come l'eroe dalla trista figura, Kornél Esti si scontra infatti con un mondo del quale fatica a prendere le misure, risultando spesso fuori luogo.
«Esti non capiva la vita; non aveva idea perché fosse nato in questo mondo. Pensava solo che chi era capitato in quest'avventura dallo scopo ignoto, che termina con l'annullamento, fosse sollevato da qualsiasi responsabilità e avesse il diritto di fare ciò che voleva: per esempio sdraiarsi in mezzo alla strada e iniziare a lamentarsi senza ragione e senza meritarsi alcuna disapprovazione. Ma proprio perché considerava la vita nel suo insieme priva di senso, ne capiva ogni piccola parte presa una a una, ogni persona senza eccezione, ogni punto di vista nobile e infame che fosse, ogni teoria, e l adottava immediatamente.»
«Vivere così, nell'insensatezza massima sguazzando tra le insensatezze minime, secondo lui non era stupido, anzi era forse il odo di vivere più giusto e più sensato.»
I miti della società non fanno presa sulla personalità di Kornél Esti, anche l'improvvisa ricchezza diventa per lui una scocciatura, così che decide di distribuire il denaro ereditato ma non destinandolo ad opere bene, bensì distribuendolo a casaccio, proprio come l'aveva ricevuto.
«Io non sono nato per salvare questa umanità che, quando non è colpita da incendi, alluvioni e pestilenze, mette in piedi le guerre e provoca artificialmente incendi, alluvioni e pestilenze. Ho abbandonato a se stessa, già da tempo, la cosiddetta società e non mi sento neppure tutt'uno con essa. Mia parente è la natura: folle, indomita e viva.»
Kornél Esti è un'anima pura, che guarda al caos della vita con gli occhi del bambino, affascinato dalla possibilità di intrattenere una conversazione con un bulgaro senza conoscere la lingua, ma solo con sguardi ed espressioni del viso.
Si prende gioco della ragione, la sfida e la mette in dubbio ad ogni passo e nel suo gioco iconoclasta non dimentica le élite culturali del tempo, soprattutto i poeti con la loro «visione del mondo pomposa e sentimentale» e i legislatori, gli organizzatori della cosa pubblica:
«Io ho sperimentato che si possono mantenere concordia e pace nella vita pubblica solamente se lasciamo che ogni cosa vada per la sua strada, se non ci intromettiamo nelle leggi eterne della vita; che non dipendono dalla nostra volontà, e pertanto difficilmente possiamo cambiarne qualcosa.»

«Finora tutto il disordine sulla Terra è stato generato dal fatto che alcuni hanno voluto fare ordine, tutto lo sporco si è creato perché alcuni si sono messi a spazzare. Cercate di capire, la vera maledizione a questo mondo è l'organizzazione, e la vera felicità invece sono la disorganizzazione, il caso, il capriccio.»
Kornél Esti è homo aestheticus, un folletto dei boschi che si diverte a osservare con sguardo beffardo e bonario i suoi simili e i loro sforzi per guadagnarsi un posto comodo nella vita, così simili al personaggio dell'ultimo capitolo che dopo aver sgomitato tanto per ottenere un posto a sedere sul tram, non riesce a godersi il piccolo trionfo appena conseguito perché la vettura è appena giunta al capolinea.

sabato 26 giugno 2021

L'occasione – Juan José Saer



Classico romanzo saeriano tra filosofico e psicologico giocato sul sottile confine che separa commedia e tragedia.
Bianco è un "mentalista" che dopo una brutta esperienza in pubblico a Parigi lascia l'Europa per coltivare la rivincita dello spirito sul materialismo nella solitudine della sterminata pampa argentina. Qui troverà una giovane moglie, Gina, e un medico amico, Garay López, finendo però vittima di quei dubbi che credeva di poter sconfiggere con il potere della mente.
L'occasione è un ottimo romanzo sul dualismo spirito/materia ma soprattutto sul tema dell'ambiguità. Ambigua è l'identità del protagonista, ambiguo è il rapporto tra Gina e Garay López che darà il via al processo che lo condurrà all'autodistruzione, ambiguo è il rapporto di Blanco con la realtà perché in Argentina dimostra di sapersi districare molto meglio nel campo del materialismo rispetto a quello dello spirito, che mostra più incognite di quanto egli creda. In questo senso il personaggio di Gina rappresenta l'inconoscibile, l'elemento che sfugge al controllo del protagonista, il granello di sabbia che finisce nell'ingranaggio e provoca la rottura dell'intera macchina.
L'uomo di Saer è un uomo che ha smarrito le certezze, un uomo alla ricerca della luce e che non accettando gli angoli bui dell'esistenza, le zone oscure, le sfumature, l'inconoscibile, finisce per ritirarsi nella propria fortezza spirituale, dentro la sua pazzia.

Link
http://www.altrianimali.it/2021/05/17/loccasione-saer-lirrisolvibile-dualismo/