giovedì 5 febbraio 2009

Autoritratto in uno specchio convesso


[...] L'anima deve restare dov'è,
per quanto inquieta, a sentire la pioggia sul vetro,
il sospiro delle foglie autunnali sferzate dal vento,
e bramare d'essere libera all'aperto, ma deve restare
in posa in questo posto. Deve muoversi
il meno possibile. Questo dice il ritratto.
Ma in quello sguardo c'è un misto
di tenerezza, divertimento e rimpianto, tanto possente
nel suo autocontrollo, che non lo si può guardare a lungo.
Il segreto è troppo ovvio. La pena che questo ci fa brucia,
fa sgorgare lacrime ardenti: che l'anima non è un'anima,
non ha segreti, è piccola, e colma
il proprio vuoto alla perfezione: la sua stanza, il nostro istante d'attenzione.
Questa è la melodia, ma senza parola alcuna.
Le parole sono solo speculazioni
(dal latino speculum, specchio):
cercano senza poterlo trovare il senso della musica.
Vediamo solo gli atteggiamenti del sogno,
cavalcando il movimento che sventaglia il viso
nel campo visivo sotto cieli serali, senza alcuna
falsa scompaginazione come prova d'autenticità.
Ma è la vita inglobata.
Piacerebbe protendere la propria mano
fuori dal globo, ma la sua dimensione,
ciò che la sostiene, non lo concede.
Senza alcun dubbio è questo, non il riflesso
a nascondere qualcosa, a far sì che la mano si profili immensa
nel ritrarsi appena.
[...]
E proprio come non ci sono parole per la superficie, cioè,
nessuna parola per dire ciò che è in realtà, che non è
superficiale ma nucleo manifesto, così non c'è
via d'uscita dal dilemma pathos contro esperienza.
Tu continuerai a rimanere, caparbio, sereno nel
tuo gesto che non è abbraccio nè monito
ma che comprende qualcosa d'entrambi nella pura
affermazione che non afferma niente.
[...]

[J. Ashbery: "Un mondo che non può essere migliore"]

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