Tutti siamo stati a Schiara, ad ascoltare il canto del mare. A seguire con lo sguardo le traiettorie improbabili che il gabbiano disegna nel vuoto, ad accompagnarlo in volo fin quando scompare dietro al monte. Ad osservare il gatto coricarsi pigro all’ombra del muro. Tutti abbiamo chiuso gli occhi insieme a lui. A cercare con lo sguardo il filo dell’orizzonte, là dove il mare si fa cielo ed il cielo mare. Tutti abbiamo sognato in quel punto. Ad incontare il vecchio contadino che risale da mille anni quegli scalini sconnessi.
A fissare incantati la mano del vento che disegna arabeschi sul dorso del mare, per ritrovarci poi a rincorrere il corso dei nostri pensieri. A respirare il silenzio, cercando di lasciare entrare in noi almeno un po’ di quella serenità. A provare un senso di vuoto e di pace insieme, e scoprire che felicità e malinconia sono due sorelle che viaggiano tenendosi per mano.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Al'improvviso si trova proiettato al centro di una scena per lui insolita: c'è della sabbia per terra (o forse è segatura) che nasconde il pavimento, e un pesante tendone blu disposto tutto intorno a delimitare lo spazio. Sembra di essere in un circo, pensa. Intorno a lui ci sono altre persone - saranno sei o sette - che parlano tranquille, per nulla preoccupate di trovarsi in quel posto. Fatica a mettere a fuoco le cose, come se fosse calata una specie di nebbia che sfuma i contorni, come se avesse dimenticato da qualche parte gli occhiali. Tutti sono concordi che quello che sta succedendo, il fatto di trovarsi lì, non sia una situazione reale, eppure la stanno vivendo, e allora dove si trovano? Che posto è quello? Che identità hanno in questo momento?
Ad un certo punto uno dei presenti dice: "Se siete così convinti che quello che succede qui dentro non sia reale, allora questa cos'è?" e con un gesto della mano solleva un lembo del tendone blu in maniera da lasciar uscire una tigre, che lentamente inizia a girare in mezzo al gruppetto di persone. Tutti rimangono immobili, impietriti dalla paura, fino a che uno non dice: "la tigre non esiste, tutto questo non esiste" ed allunga un braccio per toccare la fiera, ma come la sua mano raggiunge la tigre, questa scompare.
Al posto più bello del mondo si arriva dopo una camminata di dieci minuti scarsi. Si lascia la macchina lungo la Litoranea e poi si sale per qualche centinaio di metri, arrampicandosi lungo una scaletta stretta fra rovi di macchia mediterranea. All’inizio sono gradini regolari quelli che si offrono alla vista, ma salendo si ha l’impressione che l’opera dell’uomo fatichi a tenere testa alla natura. Gli anni, la pioggia ed il sole sono rivali difficili da fronteggiare: poche curve e gli scalini hanno già perso il rassicurante aspetto squadrato, per diventare via via più irregolari, i margini si stondano, le lastre di ardesia si rompono e nelle fessure si incuneano ciuffi d’erba, fino ad arrivare a tratti del percorso dove la stradina è poco più di un sentiero disegnato sulla terra.
Ti guardi intorno e vedi muretti a secco che franano un po’ dappertutto, erica, denti di leone, parietaria, felci selvatiche e piante grasse finite lì chissà come… Un mondo in mezzo al quale sono passato tante volte ma che solo ora mi fermo a guardare. Una varietà infinita di erbe e piccoli arbusti. Vorrei essere un botanico per saperne di più, per apprezzare meglio quello che vedo e non conosco e che sento così vicino. Una lucertola che si infila rapida tra due rocce, un fico, due ciliegi (o sono mandorli?). E quell’odore: forte e dolciastro insieme, sembra liquirizia. E’ il tarassaco? Probabilmente. Forse. O forse no. So solo che nella mia testa questo è quello che io chiamo l’odore delle Cinque Terre, ma non riesco ad identificare con precisione da che pianta provenga.
Una pigna che cade, il frinire di una cicala. Le voci di almeno tre o quattro specie diverse di uccelli che si rincorrono. E il silenzio. Con il canto del mare sullo sfondo.
Un silenzio terapeutico, al quale il mio stato d’animo si accorda subito volentieri. Mi sento più tranquillo, più sereno, i pensieri rallentano la loro corsa e cominciano a scorrere, lentamente, come una musica. Una sensazione nuova, che fa riflettere.
Penso ai rumori, ai quali sono così abituato da considerarli quasi necessari. Penso a quando in casa accendo la televisione o la radio solo per sentire rumore, non per interesse. E’ come se ne avessi bisogno, per sintonizzare il mio ritmo interiore al mondo esterno. E’ terribile: aver bisogno del rumore ed intonare ogni giorno il sentire, il pensare, il vivere quotidiano ai rumori del mondo. Solo ora me ne accorgo, ora che ho scoperto il silenzio.
Continuo a salire. Una decina di minuti di salita, ho detto. E infatti ci siamo quasi.
Ecco davanti ai miei occhi il posto più bello del mondo: un sentiero sterrato lungo cinquanta – sessanta passi da uomo e largo un passo e mezzo, che fiancheggia pochi filari di vite strappati ad un bosco che avanza e sembra destinato a vincere la sua battaglia. Il ciglio della stradina è sconnesso ed in certi punti cede franando sulla piana sottostante.
Tutto qui, con il mare che domina lo sfondo. Un mare sterminato e totale che sembra non partecipare quasi alla scena, seduto in disparte come l’attore consumato che lascia il privilegio del primo piano alle altre figure, ben sapendo che il ruolo del protagonista sarà sempre il suo.
Mi piace questo posto. Mi piace perché non è lì dietro l’angolo, ma va conquistato, dopo un percorso che è qualcosa di più di una semplice passeggiata. Mi piace perché non è un approdo definitivo ma è un posto di passaggio; dopo questo tratto di strada sterrata il sentiero continua fino ad arrivare ad un monastero da dove si gode una vista spettacolare e dove si riadunano i turisti.
Mi piace perché c’è il mare.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
Ora non ho retro nè fronte. Sono come sono alcune persone che non ti dicono mai come sono ma sai che sono come te, e lo sono.
Io ero soprannaturalmente saggio ma era primavera, non c'era nessuno a preoccuparsi o da fare. Era primaverea e gli irrigatori a pioggia erano in funzione.
Baia, insenature, rocce viscose quelli sono i piaceri di qualcuno. Piaceri che non se ne vanno ma che non è proprio che restino, restino nel modo che avrebbero dovuto. Ne ho catturato uno alato, l'ho guardato fisso negli occhi: qual'è la tua supposizione? Oh, a me piace solo vivere, il resto non m'importa granchè, niente affatto, se vuoi. Ma a me sì, dissi. Allora, beh, è come una radura nel buio che non puoi vedere. Il buio è destinato a noi tutti. Ad esso ci si abitua. Poi di nuovo spunta il giorno. E' questo che voglio dire quando dico del vivere che potrebbe andare avanti, andando altrove, ma non lo fa, sta qui, più o meno. Devi batterti per lui, allora combatte per te, ma ciò non è necessario. Andrà avanti a vivere comunque. Dico ti spiace, mi sto stancando.
Ma c'è un'ultima cosa che devo sapere di te. Ti ricordi una fucina a mezzanotte attorno a cui strisciavano gli spettri del lebbrosi, che erano fabbri ferrai in un tempo persistentemente non identificabile, e poi te ne sei andato così? Ricordi come cadeva lento il martello portando tutta quella canzone con te. Ricordi la musica dei cavalli da tiro che potevano eseguire solo contro un muro. Perfetto, quanto poco ti costa il tutto allora? Eri uno scolaro, ora hai passato la mezzetà, e la grande lotteria non c'è stata.
Vedo che devo andare. E' proprio che mi piace vivere, mi piace solo vivere. Un giorno o l'altro dovrai dirmi delle tue intenzioni, ma adesso devo stare qui su questa corsia di sorpasso nel caso arrivino le vettovaglie che non mi servono, perchè sono una creatura che vive, respira. Ma ti ho chiesto del tuo cappello. Oh, sì, beh, è importante avere un cappello.
[J. Ashbery: "Un mondo che non può essere migliore"]