Capitolo quarto.
Dove
si riferisce di un giro notturno a curiosare nelle cabine di alcuni
dei passeggeri imbarcati sul vapore delle Regie Linee
Se
sono stati necessari tre capitoli per raccontare poche ore di
viaggio, è un dubbio legittimo del lettore domandare con qualche
apprensione quante pagine dovrà attendere prima che l’Higland
Monarch raggiunga il Nuovo Mondo. Il bravo cronista risponderebbe,
con un semplice calcolo aritmetico, che siccome non è trascorsa
ancora una giornata dacché abbiamo lasciato il porto di Alçantara
mancano due settimane esatte all’approdo di Pernambuco, il primo
dei porti che il vapore toccherà in terra americana, e visto che il
tempo non è una misura di grandezza opinabile sarà facile calcolare
che questa storia si comporrà di almeno altri quarantadue capitoli,
vale a dire tre capitoli per ognuno dei quattordici giorni di
navigazione previsti, a meno che non saltino fuori imprevisti o
colpi di scena a mandare a carte e quarantotto il nostro conto.
Osserveremo qui che in realtà non è proprio così, e che a voler
essere capziosi questa cosa del tempo come misura che non può essere
messa in discussione non ci convince tanto. E’ d’uso comune,
infatti, parlare di percezione del tempo per dire che ci sono momenti
che per qualcuno sembrano volare via in un attimo e per qualcun altro
sembrano non passare mai e questo a prescindere dal fatto che,
orologio alla mano, abbiano una durata misurabile in maniera
obiettiva. A rafforzare la nostra tesi diremo poi che i tempi di un
racconto non sono i tempi della vita, e le situazioni che
incontreremo di qui in avanti meriteranno più o meno righe di
descrizione non in base al tempo misurato con il metro dell’orologio
ma in base a quello che la nostra fantasia deciderà di volta in
volta di concedere loro. A chi ci accuserà di personalismo
risponderemo che non esiste democrazia che tenga in questi casi, e
che visto che abbiamo inventato il gioco ci riteniamo liberi di
dettarne anche le regole, decidendo che giudice unico della partita
sarà l’istinto, l’immaginazione, il pensiero, chiamatelo pure
come volete che sono solo belle parole dietro alle quali si nasconde
il nostro arbitrio. Non tema il lettore che questa premessa, forse un
po’ grossolana nei modi, possa ritorcersi contro di lui e sappia
fin da ora che se abbiamo introdotto questo ragionamento sulla
relatività del tempo è stato solo per assecondare il più possibile
le sue esigenze, così che quando durante il viaggio dell’Highland
Monarch ci imbatteremo in giorni di cosiddetta calma piatta, dove non
succederà nulla e non ci sarà nulla da raccontare, per non tediarlo
più del lecito promettiamo di evitare pesanti digressioni e di
saltare a piè pari al giorno successivo.
I
passeggeri che avevamo lasciato seduti a tavola sono ormai tutti
nelle loro cabine, alle prese, chi più chi meno, con il sonno che
tarda ad arrivare. Niente di preoccupante, sia chiaro, perché per
qualcuno questa è la prima notte sul vapore per le Americhe, e per
qualcun altro la chiacchierata della cena ha avuto l’effetto di
risvegliare più di un pensiero. A ben guardare però uno che sta
già dormendo c’è, ed è il giovane dottore italiano.
Probabilmente per lui questa è stata una giornata piuttosto
faticosa, così che ha fatto appena in tempo a togliersi i vestiti ed
è già piombato in un sonno profondo, talmente profondo che dopo che
il benevolo dio alato Ipno ha esaurito il suo compito, anche suo
figlio Morfeo ha pensato bene di passare a salutare Lorenzo ed a
sfiorare il mazzo di papaveri sulle sue palpebre. In altre parole, il
giovane dottore sta sognando e noi non ci lasceremo certo sfuggire
un’occasione così ghiotta di andare a curiosare nel suo sogno.
Giusto un’occhiata fugace, niente di più, sperando che il nostro
amico non se ne abbia a male, in fondo ci impegniamo qui a riferire
solo quello che vedremo senza avventurarci in spiegazioni più o meno
audaci, che sappiamo bene come l’interpretazione dei sogni sia
pratica che non ci compete e che lasciamo volentieri al dottor Freud
ed ai suoi allievi. Eccolo allora questo sogno, è una cena di gala a
bordo di un transatlantico la scena che leggiamo al di sotto delle
palpebre chiuse del giovane dottore, sogno molto poco originale ci
viene da dire, che a quanto pare la prima cena sull’Highland
Monarch non è passata nell’indifferenza e qualche segno deve
averlo lasciato nella mente del nostro amico, ma a ben vedere quella
che sta sognando lui è una cena un po’ diversa da quella alla
quale ha partecipato nella realtà, dove a capo tavola di una mensa
imbandita siede il comandante della nave in tenuta di gala,
comandante che dopo essersi alzato in piedi per dare solennità al
momento, introduce con poche parole di rito l’ospite alla sua
destra, presentandolo come famoso poeta ed invitandolo a fare un
brindisi benaugurale. E’ proprio il giovane dottore, sorpresa delle
sorprese, l’ospite in questione e, fatto ancor più inaspettato,
sembra tutt’altro che in imbarazzo per essere stato chiamato a
recitare da protagonista al cospetto di un così vasto proscenio,
anzi, ci pare perfettamente a proprio agio mentre ricambia il sorriso
del comandante e si alza a sua volta in piedi, levando il calice e
pronunciando non già due parole striminzite con voce malferma, come
aveva fatto durante la cena appena conclusa, ma una e vera propria
orazione degna del miglior retore, che strappa gli applausi convinti
dei commensali. Niente male per uno che solo poche ore fa avrebbe
dato tutto quello che possedeva pur di trasformarsi nell’uomo
invisibile, niente male davvero e converrete che ce ne sarebbe di
materiale per dire tante altre cose, ma visto che ogni promessa è
debito ce ne asterremo, limitandoci ad osservare che in fondo non c’è
mica da vergognarsi a sognare di essere famosi e può darsi che la
lettura delle Elegie Duinesi, il libro che sta sul comodino accanto
al letto, abbia giocato qualche ruolo nella genesi di questo strano
sogno. Immaginiamo che il giovane dottore si sia addormentato con la
settima elegia tra le mani, magari leggendo come ultime parole prima
di cadere addormentato proprio quelle quella della settima elegia,
dove Rilke scrive che in nessun dove sarà mondo se non intimamente,
e questa frase potrebbe poi aver lavorato negli anfratti più bui
della coscienza di Lorenzo mescolandosi con chissà quali e quanti
altri pensieri, contribuendo a dare origine ad un sogno tanto
particolare. Ma basta così, meglio smetterla con le supposizioni e
chiuderla qui, dicendo che probabilmente lo strano sogno del nostro
amico è dovuto a qualche ragione meno aulica, come ad esempio il
fatto che potrebbe non essere abituato alla cucina portoghese e di
conseguenza potrebbe aver trovato qualche pietanza di difficile
digestione. E se la nostra spiegazione non risultasse convincente e
qualcuno volesse a tutti i costi sottolineare l’incongruenza fra i
comportamenti tenuti dal giovane dottore nella vita reale e quelli
nel sogno, gli ricorderemo che è bene non insistere troppo, che se
ci mettessimo a fare le pulci ai suoi sogni troveremmo qualcosa di
strano anche lì, e non per sua colpa, che è cosa nota a molti come
quel dio Morfeo che abbiamo appena nominato non viaggiasse da solo
alla notte ma si accompagnasse ad una cerchia di folletti che
rappresentavano le illusioni, folletti alla cui azione la mitologia
classica attribuiva la paternità delle bizzarrie che a volte
compaiono nei sogni e che non è possibile spiegare in altra maniera.
Questo per dire che il giovane dottore è vittima inconsapevole delle
visioni che gli si presentano durante il sonno, che certo non
possiamo pretendere che sia in grado di controllarne la coerenza, ma
la medesima scusante non può essere accampata per altri che questa
sera hanno seduto al suo stesso tavolo, altri che nella solitudine
delle loro cabine si stanno comportando in maniera ben diversa da
quanto avevano dichiarato a cena, ma che a differenza di Lorenzo sono
ben svegli. Jusep Campalans, il pittore catalano, ad esempio, aveva
detto con tono perentorio, lo abbiamo sentito con le nostre orecchie,
di aver rinunciato da tempo all’arte del dipingere per dedicarsi
esclusivamente all’agricoltura, ed ora lo ritroviamo seduto su una
sedia, mezzo vestito e mezzo spogliato, che abbozza qualche figura
con un carboncino su un album da disegno. Riconosciamo uno schizzo
con i tratti di Zenobia Camprubì Aymar, che abbiamo conosciuto come
signora Jimenez e un altro, quello al quale è intento in questo
momento, che cerca di rappresentare le fattezze della ragazza dal
collo lungo e sottile. E se è possibile cercare di giustificare
l’incongruenza tra le parole che Campalans ha pronunciato durante
la cena ed i comportamenti di adesso, dicendo che non è sufficiente
l’abbozzare due figure su un quadernetto per essere considerati
pittori di mestiere, più difficile è trovare una spiegazione che
regga per quelle scatole di colori ad olio, tempere e pennelli che
sono sparse sul letto e per i pacchi di fogli e taccuini che spuntano
da una borsa, non proprio l’armamentario, ci sia consentito, di chi
ha scelto di fare il contadino. Acqua che non devi bere lasciala
correre, dicono gli spagnoli, ma visto che ormai di quest’acqua noi
abbiamo cominciato a berne, tanto vale continuare ancora un po’ e
proseguire nel nostro giro della buonanotte per le cabine
dell’Higland Monarch alla ricerca di altri altarini da scoprire. E’
il turno ora di Alvaro de Campos che, ancora vestito di tutto punto,
siede al tavolino della sua cabina leggendo una raccolta di poesie
dell’amico Sà Carneiro, fumando l’ennesima sigaretta. Niente di
male, ci mancherebbe altro che non si fosse liberi leggere qualche
poesia, il fatto è che quella che sta leggendo lui non è una poesia
qualsiasi, ma un eccentrico componimento che all’uscita sul primo
numero di Orpheu aveva scatenato critiche a non finire. Sono versi
che l’ingegnere navale conosce bene e che per qualche ragione che
forse sa solo lui ha sentito il bisogno di tornare a leggere, versi
che parlano di zone intermedie e di sogni che sviano per il deserto e
che si chiudono con l’immagine di un braccio che cade e se ne va a
danzare in abito da sera nei saloni del vicerè. Versi che non
sappiamo quale significato possano avere per Alvaro de Campos, ma che
a noi fanno pensare al sogno del giovane dottore ed alla povera mano
di Marcenda. Ma non è tanto la lettura di una poesia quello che ci
preme in questo momento, quanto quello che accade dopo che l’ingegner
de Campos ha chiuso il libro. Si versa un bicchiere di aguardiente,
da un’ultima tirata alla sigaretta prima di spegnerla, fissa per un
attimo il soffitto e poi si china a scrivere su un pezzo di carta, e
sembra proprio che siano versi di una poesia quelli che escono dalla
sua penna, ma qui ci fermiamo, che non saremo così indiscreti da
metterci a leggerli, un po’ di curiosità è lecita, ma c’è pur
sempre una soglia di intimità che è giusto rispettare. Aggiungeremo
solo che dopo aver riempito con grafia minuta il piccolo foglio,
Alvaro de Campos lo rilegge due o tre volte, apporta qualche
correzione di poco conto, poi lo arrotola con cura e lo infila dentro
una bottiglietta che ha preso dal cassetto, stringe con forza il
tappo per chiuderla ermeticamente, quindi infila in una tasca interna
della giacca il piccolo contenitore con il suo prezioso contenuto e
se ne esce dalla cabina. Strano, ricordiamo bene quando parlando con
il poeta Ramon Jimenez aveva detto di non aver più scritto una sola
riga dal giorno della morte di Pessoa, e ricordiamo anche la
discussione sul piacere di rendersi invisibile che le sue parole
sulla scelta di non esister più come scrittore avevano innescato.
Sarebbe fin troppo facile montare in cattedra a fare i fustigatori
dei comportamenti altrui ed osservare come il modo di agire di Alvaro
de Campos si avvicini a quello di Jusep Torres Campalans, e come
tutti e due non possano certo essere proposti come modelli di
coerenza, ma il fatto è che ci sono simpatici e che per indole
siamo propensi più a giustificare le debolezze umane che a
denunciarle. In fondo ad essere debole non è solo la natura del
pittore catalano o quella dell’ingegnere portoghese, ma quella di
tutti gli uomini e come meglio si vivrebbe se trovassimo la forza di
ammettere che la volontà è più fragile di quanto ci piacerebbe che
fosse, se solo ci decidessimo a prendere atto che tutta quella
processione di proverbi e modi di dire, che va dal semplice volere è
potere al più articolato a buona volontà non manca facoltà, sino
al perentorio la volontà è tutto, è una maschera che indossiamo
per coprire le nostre insicurezze, un lenzuolo con il quale ci
proteggiamo alla bell’e meglio per nascondere che il re è nudo, un
po’ come il cane quando abbaia e mostra i denti per non far vedere
che ha paura. E se avessimo voglia di giocare a fare i sofisti
potremmo anche dire che non c’è neppure tanta contraddizione tra
le parole che Campos e Campalans hanno pronunciato a cena ed i
comportamenti che tengono nel segreto delle loro cabine, in fondo
quegli schizzi su un taccuino e quei versi su un pezzo di carta non
li vedrà mai nessuno, quindi in realtà è come se non dipingessero
e scrivessero affatto, dato che, come si usa dire in questi casi, uno
spettacolo senza pubblico è come se non fosse mai avvenuto. Al
nostro giro notturno per curiosare tra le abitudini notturne dei
partecipanti alla cena di questa sera, mancano ancora un paio di
cabine, la più vicina delle quali è quella occupata dal dottor
Jimenez e da sua moglie Zenobia, ci perdoni quindi la signorina
Sampaio se la lasciamo per ultima, che a qualcuno deve pur toccare il
compito di chiudere questa carrellata, non dubiti però che non ci
dimenticheremo di lei e che fra breve saremo pronti a riferire anche
di quello che sta facendo o sta pensando la ragazza dal collo lungo e
sottile. Per adesso concentriamoci sui coniugi Jimenez, certi che
nella loro cabina non ci saranno strane sorprese ad attenderci,
considerata la stima incondizionata che godono queste due persone
negli ambienti culturali di mezza Europa. Come previsto li troviamo
intenti nei preparativi per la notte, lei in bagno alle prese con
quel guazzabuglio di balsami, creme, pomate e quant’altro che fanno
delle donne della nostra epoca l’equivalente degli alchimisti
medioevali, e lui davanti all’armadio, mentre ripone nei cassetti
le ultime camicie che ha tolto dalla valigia, i due discutono ad alta
voce del piacere di essere considerati invisibili, argomento che
evidentemente non è stato ancora del tutto digerito dalla fine
della cena ad ora. Davvero non credevo che esistesse un Alvaro de
Campos in carne ed ossa, dice lui, Mi da l’idea del tipo
eccentrico, gli fa eco lei, quando parla sembra uno che butta lì le
cose per il puro piacere di provocare, come se fosse un amante del
paradosso, Non avevo mai sentito prima d’ora di uno scrittore che
non cercasse di rendersi visibile, di far conoscere quello che
scrive, E quel sorriso stirato, quasi un ghigno, quell’atteggiamento
da snob, come se tutto gli fosse indifferente, Chissà cosa nasconde
dietro quella maschera, se poi è una maschera quella che indossa,
Magari non lo è, può darsi che sia proprio uno di quegli snob
annoiati da tutto e da tutti, che non trovano più niente che li
interessi. Con questi ed altri discorsi simili i due sono ormai a
letto, e dopo aver terminato di chiacchierare dedicano i minuti che
precedono lo spegnimento della luce alla lettura, riservando il
momento di quando sarà buio per quello che seguirà, se ci sarà
qualcosa che i due vorranno far seguire alle parole. E così Zenobia
inforca un paio di occhiali ed apre il suo amato Tagore e Ramon
Jimenez prende in mano un volumetto di poesie di Ruben Dario, ma se a
lei sono sufficienti poche righe per lasciare la cabina e la nave e
trovarsi per mano all’autore indiano ad esplorare un giardino fatto
di spiritualità e buoni sentimenti, per il poeta di Moguer le cose
non vanno di pari passo che questa sera non gli risulta tanto
semplice tenere ferma la mente sulle pagine del libro, questa sera i
suoi pensieri sembrano aver deciso di non lasciarsi portare per mano
dove ha deciso la mente ma di provare a camminare con i propri passi
in tutt’altra direzione. L’abbiamo già detto, quei discorsi sul
piacere di non esistere agli occhi degli altri, tanto più se
pronunciati da uno come l’ingegner de Campos che fino ad ora il
dottor Jimenez credeva fosse un nome di fantasia inventato da Pessoa,
devono ancora essere digeriti ed il tempo necessario per questo
processo di assimilazione si annuncia abbastanza lungo. I pensieri di
Ramon Jimenez, ci perdoni il poeta l’intrusione nel suo privato, ma
non crediamo sia il caso di fare favoritismi proprio adesso e visto
che poco fa ci siamo presi la libertà di leggere nei sogni di un
dottore, non vediamo perché ora non dovremmo fare lo stesso
sbirciando nella mente di un poeta, i pensieri di Ramon Jimenez
dicevamo, sono rivolti ad una ragazza peruviana sua ammiratrice con
la quale quasi trent’anni fa ha intrattenuto una corrispondenza
epistolare. Un nome che emerge dal passato dopo un letargo che
sembrava eterno, Georgina Hübner, una giovane saltata fuori dal
nulla ed al nulla rientrata, Chissà dove sarà adesso, si chiede
Jimenez, rammentando lo sconcerto con il quale aveva letto quelle
righe scarne giunte dal Perù che ne comunicavano la morte improvvisa
senza aggiungere particolari sulle circostanze della sua scomparsa e
che avevano messo fine a due anni di lettere attraverso l’Atlantico,
Chissà dove sarà adesso, si chiede rammentando lo sconcerto ancora
maggiore con il quale aveva appreso nei mesi successivi le altre
notizie, quelle che dapprima avevano messo in dubbio l’esistenza
stessa di Georgina, fino a quelle voci insistenti che dicevano che
tutta la storia fosse stata una specie di tragico scherzo, se non di
truffa ai suoi danni e che sembravano proprio aver trovato più di
una conferma. Con il tempo anche lui aveva accettato il fatto che
quella Georgina Hubner a cui aveva dedicato anche alcuni versi fosse
in realtà un personaggio di fantasia, inesistente, ma adesso non ne
è più tanto sicuro, adesso i suoi pensieri hanno voglia di
cancellare tutti i fatti e le informazioni raccolte su questa vicenda
per essere liberi di correre dietro al fantasma della ragazza
peruviana, adesso è notte, il momento migliore per i sogni, ed i
sogni non hanno bisogno di confrontarsi con prove documentali per
costruire le loro architetture. Ma lasciamo Ramon Jimenez alle sue
fantasie per occuparci di altro, è arrivato il momento della
signorina Sampaio, dulcis in fundo, come dicevano i latini, e con
questa galanteria ci scusiamo con lei per averla trascurata sino ad
ora, ma attenzione però, che la nostra galanteria finisce qui, che
il rispetto per il genti sesso non ci esenterà dal riservarle lo
stesso trattamento di chi l’ha preceduta e dal riferire al lettore
quello che succede nella sua cabina. Eccola allora, la ragazza da
collo lungo e sottile, che a tavola sembrava così preoccupata di non
essere dimenticata e che ci teneva tanto ad essere considerata vera.
Anche lei è a letto, ma sembra che in questo caso il dio Ipno, che
con tanta facilità aveva chiuso le palpebre del giovane dottore,
abbia il suo daffare per riuscire a farla addormentare. E’ la prima
volta che Marcenda dorme su una nave e non è abituata al suo leggero
basculamento, al brontolio del mare ed agli altri rumori di bordo,
così diversi da quelli consueti, non è abituata all’idea di
passere quindici giorni su un piroscafo in viaggio sull’Atlantico,
non è abituata allo spazio angusto della cabina, e soprattutto non
è abituata a stare sola. Non basta spegnere la luce per riuscire a
dormire e neppure la stanchezza per una giornata così piena e
faticosa è sufficiente per riuscire nell’intento, per far assopire
una ragazza di venticinque anni ci vuole la tranquillità,
tranquillità che è proprio quello che in questo momento manca a
Marcenda. Si gira e rigira nel letto, in uno stato che non è più
quello di veglia e non ancora quello di sonno, con una serie di
immagini che si sovrappongono nella sua mente alla velocità di
fotogrammi di un film. I commensali che hanno partecipato alla cena
di questa sera, il dottor Jimenez con la moglie, il giovane dottore
italiano e gli altri, il padre che la saluta sul molo di Alçantara e
poi passa un braccio sulla spalla di Maria Madalena Simões, il
dottor Ricardo Reis, i ricordi di Coimbra, la nave così alta sul
pelo dell’acqua, il viso della madre, la folla dell’imbarco,
l’imbarazzo del giovane dottore nel parlare, le cose da fare appena
arrivata in Brasile, telegrafare a casa, contattare gli specialisti
che le hanno indicato i dottori in Portogallo, la nonna mancata da
poco, gli amici lasciati a casa e ancora il viso del giovane dottore.
E
con Marcenda abbiamo terminato un tour notturno che magari non è
stato molto rispettoso dell’intimità altrui ma che ci ha permesso
di conoscere un po’ meglio le persone con le quali avremo a che
fare per le prossime due settimane, un’ultima cosa ci rimane da
dire e cioè che mentre tornavamo sul ponte di poppa, per lasciarci
addormentare dal mare ascoltandolo cantare la sua canzone
respirandone il salmastro, abbiamo incontrato l’ingegner de Campos
che, sporgendosi dalla balaustra, lasciava cadere in acqua una
bottiglietta. Mentre rientrava in cabina giureremmo di averlo sentito
parlare a bassa voce come se stesse conversando con qualcuno,
Fernando ci sembra che dicesse, ma questo non potremmo darlo per
certo.
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