sabato 26 luglio 2014

Mark Strand – Quasi invisibile


Mark Strand - per me il più grande dei poeti contemporanei - questa volta si presenta con una raccolta di brevi prose che ripercorrono con ispirazione e slancio immutati i temi classici della sua poetica, il tutto sottolineato da un stile apparentemente leggero, quasi colloquiale. 
L'oggetto della sua osservazione è la realtà, ma solo in apparenza. Se entriamo nel mondo del poeta ci accorgiamo che le cose non sono esattamente quello che sembrano e che i loro confini si fanno sempre più indefiniti man mano che ci avviciniamo per osservarli meglio: “Non c'è modo di dissipare la foschia in cui viviamo. Nessuno ha la minima idea di dove siamo”, scrive Strand in Nasconditi la faccia tra le mani e in Ovunque potrebbe essere un posto qualsiasi aggiunge che “si dice che qualcosa stia accadendo sul confine, ma nessuno sa quale confine”. Tutto è messo in discussione, le persone non sono quello che dicono di essere come il banchiere nel bordello delle cieche, che forse è un pastore, mentre la puttana forse è una ricca vedova. O forse no. 
Sono frammenti di realtà fotografati attraverso l'obiettivo del poeta che spinge le situazioni al limite, per vedere come si comportano ai confini dell'assurdo, cosa succede sulla linea dell'orizzonte, nel punto dove il mondo reale e quello fantastico si incontrano. Ê una poesia degli interstizi, degli “spazi intermedi [che] non sono né qui né lì, né dentro né fuori, di quella terra di nessuno, quel luogo meraviglioso, da contemplare come solo un dio potrebbe, la congiunzione luminosa di niente e tutto” (L'enigma dell'infinitesimale). 
La vita è fatta di istanti, attimi, filtrati e ingigantiti dal nostro sé che li vive “come se fossero veri”, un quotidiano costruire sul nulla cattedrali di parole che servono solo per mascherare il vuoto delle nostre vite perché, proprio come Gli studiosi dell'ineffabile, marciamo nel mondo alla ricerca di noi stessi senza renderci conto che è la polvere che alziamo quella che ci impedisce di vedere. 
Quella di Strand è poesia dell'attesa. Attesa che il niente accada (Il desiderio del ministro della Cultura viene esaudito), attesa di un futuro presunto (L'antica epoca della nostalgia), attesa di un'ondata di sentimento che arrivi improvvisamente e porti via il poeta (Gli studiosi dell'ineffabile), attesa delle donne sedute in riva al mare ad aspettare qualcosa che non sarebbe mai arrivato (La malinconia sepolta del poeta) e attesa godotiana che succeda qualcosa che però, forse, è già successo (Per non perdere il Grande Evento). 
Ma quella di Strand è anche poesia della ricerca impossibile di un'identità definita, con i troppi sé passati, presenti e futuri che finiscono per confondersi scolorando uno nell'altro. 
Ê poesia dell'assurdo e dei paradossi, quasi fossimo in un'incisione di Escher dove la logica, la consequenzialità delle cose è solo apparente. Così capita di incontrare un cuore vuoto che rientrato a casa da una giornataccia in ufficio vorrebbe svuotarsi del vuoto (Spossatezza al tramonto), ma come si fa a svuotarsi del vuoto? Come può un cuore vuoto obbedire agli ordini della mente? O ci si può imbattere in un uomo che riceve una lettera dal padre morto quarant'anni prima (Il misterioso arrivo di una lettera inconsueta), o in un tizio intento a fissare un libro di pagine vuote (Come una foglia portata dal vento), e anche in una scimmia parlante (L'assistente sociale e la scimmia). 
La poesia di Strand è anche (soprattutto?) poesia dell'assenza: c'è sempre qualcosa che rimane in fieri, che non si esprime, che genera una sorta di malinconia per qualcosa che avrebbe potuto essere e non è stato (Sogno di viaggio), una Malinconia ermetica per le cose che non sono esattamente quelle che credevamo, ma solo una “possibilità” tra le tante. 
La conclusione è che noi tutti siamo su un treno che attraversa una pianura interminabile, “nessuna città ne aspetta l'arrivo, nessuna ne piange la partenza”, senza sapere da dove siamo partiti né dove stiamo andando. Andare, questo è il nostro scopo (Nessuno conosce ciò che si conosce) e Strand guarda a questo viaggio alternando stupore e disincanto, riflessione e divertimento. Quello che fa è un uso particolarmente arguto dell'ironia, utilizzandola come una specie di palloncino al quel si aggrappa quando arriva sul bordo del precipizio e che gli permette di superare l'ostacolo, anzi, di volare sopra il baratro guardandolo dall'alto con occhio leggero. 
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Non sono un esperto di poesia, non ho solide basi né particolari competenze letterarie, probabilmente delle poesie che leggo ne comprendo solo alcune ed anche quelle poche solo in minima parte... eppure amo incondizionatamente la poesia di Strand. Perché? mi sono chiesto. Credo che la risposta l'abbia data proprio lui, in una conferenza alla John Cabot University del 2010: 
Quando tu scopri che una poesia sta parlando a te ci torni in continuazione, anche se non la capisci interamente. Anzi, forse è meglio che tu non la capisca interamente, perché c'è un nucleo in lei che rimane misterioso per sempre e ti provoca ad entrare, e più lei attira te dentro di sé e più tu scopri delle cose dentro te stesso, perché ti metti a chiederti: “Perché lo sto facendo, che parte di me viene messa in moto e reagisce a questa poesia in particolare?”. Quando una persona va in un museo e osserva i quadri deve chiedersi: “Perché sto guardando proprio questo?” E la risposta è che c'è qualcosa in te che sta risuonando esattamente con quel dipinto ed è un obbligo per chi guarda un quadro, per chi legge una poesia, interrogarsi su questo. Io non so quale parte sia nell'uomo, ma una parte piccolissima, indicibile, forse un'invenzione della mente, forse una mia invenzione... ma non può essere del tutto mia, perché quando io mi esprimo in questa maniera c'è qualcuno che lo capisce.

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