sabato 4 aprile 2015

Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio cose…


Le strade che percorrevano, i valori ai quali si aprivano, le loro prospettive, i loro desideri, le loro ambizioni, tutto ciò, è vero, procurava loro talvolta un disperante senso di vuoto. Non conoscevano nulla che non fosse fragile o confuso. Eppure era la loro vita, era la fonte di ignote esaltazioni, più che inebrianti, era qualcosa d’immensamente, d’intensamente aperto.
[...] Visitarono i grandi magazzini, per ore intere, meravigliati e già sgomenti, ma senza ancora osare confessarselo, senza ancora osare guardare in faccia quella specie di meschino accanimento che stava per diventare il loro destino, la loro ragion d’essere, la loro parola d’ordine, meravigliati e quasi sommersi già dalla vastità dei loro bisogni, dalle ricchezze esibite, dall'abbondanza offerta.
[...] Nel loro ambiente, era quasi una regola desiderare sempre più di quanto fosse consentito acquistare. Non erano stati loro a deciderlo: era una legge della civiltà, un dato di fatto del quale la pubblicità in generale, le riviste, l’arte delle vetrine, lo spettacolo della strada, e perfino, sotto un certo aspetto, il complesso della produzione comunemente denominata culturale, erano le espressioni più conformi.
[...] amavano tutto ciò che negava la cucina ed esaltava l’apparato. Prediligevano l’abbondanza e la ricchezza apparenti; rifiutavano la lenta elaborazione che trasforma in pietanze prodotti ingrati
[...] si sentivano i padroni del mondo. Provavano un’esaltazione sconosciuta, come se fossero stati detentori di favolosi segreti, di forze inesprimibili.
[...] Ma, in quei momenti in cui si lasciavano trasportare da un piatto sentimento di calma, di eternità, che nessuna tensione turbava, in cui tutto era in equilibrio, deliziosamente lento, la forza stessa di quelle gioie esaltava tutto quel che c’era in esse di effimero e di fragile. Non ci voleva granché perché tutto crollasse: la minima stonatura, un semplice momento di esitazione, un segno un po’ troppo grossolano, bastava a smembrare la loro felicità; essa ridiventava quel che non aveva mai cessato di essere: una specie di contratto, qualcosa che avevano acquistato, qualcosa di fragile e di patetico, un semplice istante di tregua che li rimandava con violenza a quanto c’era di più pericoloso, di più incerto nella loro esistenza e nella loro storia.
[...] L’impazienza, si dissero Jérome e Sylvie, è una virtù del ventesimo secolo. A vent'anni, quando ebbero visto, o creduto di vedere, quel che la vita poteva essere, la somma di felicità che celava, le infinite conquiste che permetteva, eccetera, seppero che non avrebbero avuto la forza di aspettare. Potevano, proprio come gli altri, arrivare; ma loro volevano soltanto essere già arrivati.
[...] Tutto infatti dava loro torto, e in primo luogo la vita stessa. Volevano godere la vita, ma, ovunque intorno ad essi, il godimento si confondeva con la proprietà. Volevano restare disponibili, e quasi innocenti, ma gli anni intanto passavano, e non ne ricevevano nulla.
[...] Gettavano sul mondo uno sguardo torbido, e la lucidità cui facevano appello si univa di frequente a incerte oscillazioni, ad accomodamenti ambigui e a svariate considerazioni, che temperavano, minimizzavano o addirittura svalutavano una buona volontà peraltro evidente. Pareva loro che questa fosse una strada, o un’assenza di strada che li definiva perfettamente, e non soltanto essi, ma tutti i loro coetanei. Precedenti generazioni, si dicevano a volte, avevano certo potuto raggiungere una più precisa consapevolezza di se stesse e del mondo che abitavano.

[Georges Perec: "Le cose"]

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