domenica 28 febbraio 2016

E.L. Doctorow – La coscienza di Andrew


di cervello, coscienza e anima



Romanzo breve, complesso e spiazzante. Un lungo dialogo tra Andrew, scienziato cognitivo, e Doc, uno psicanalista forse, perché l’identità dell’interlocutore del protagonista non è precisata. Dalla prima alla terza persona, dal presente al passato, dal reale all’immaginato, dal dialogo al monologo, il tutto ambientato in uno spazio che l’autore non si cura di definire, lasciandolo alla nostra immaginazione.

La storia di un uomo bersagliato dal destino ma anche complice del destino, almeno per alcune delle sventure accadutegli, e che prova a guardarsi indietro manifestando indifferenza (“affabile come sono, generoso e disponibile come cerco di essere, alla fin fine non ho sentimenti, nel bene e nel male”). La morte della figlia, il divorzio dalla moglie e poi un nuovo amore: la speranza di un riscatto, della possibilità di riemergere dal buio nel quale era finito… e di nuovo il destino a negargli questa chance.

Andrew si dichiara un impostore e allarga la definizione a comprendere anche Doc e tutti noi

“Siamo tutti impostori, dottore, anche tu. Specialmente tu. Perché sorridi? Fingere è il pane quotidiano del cervello. È quello che fa. Riesce perfino a fingere di non essere se stesso. Ah sì? E che cosa sa fingere di essere, tanto per fare un esempio? Be’, per lunghissimo tempo, e fino all’altro ieri, l’anima.”

Già, cervello, coscienza, anima. Dove sono i confini, quali le sfere di competenza? Cosa governa cosa? La strada che percorriamo è un andare per tentativi, l’esplorazione di territori ai confini delle nostre possibilità, assecondando la voglia di sapere e poi rilanciando con interrogativi nuovi. Cos’è la felicità (se esiste)? Cosa succede a scrutare dentro se stessi? Come si deve vivere? Ma soprattutto: quanto dobbiamo fidarci del cervello? Perché

“(l’anima) è la finzione del cervello. Dobbiamo andarci cauti con i nostri cervelli. Prendono le decisioni prima di noi. Ci conducono all’acqua ferma. Rinunziano al libero arbitrio. E la cosa è ancora più bizzarra: se tagliate un cervello a metà, emisfero sinistro ed emisfero destro continueranno a funzionare autonomamente senza sapere l’uno cosa fa l’altro. Ma non state a pensarci, tanto non siete voi a pensare. Limitatevi a seguire la vostra stella. A vivere dando per scontata la vita costruita socialmente. Abolite la scienza. Credete più o meno in Dio. Dimenticativi gli errori commessi. Offrite la vostra giustificazione allo specchio del bagno.”

Questioni destinate a rimanere aperte, domande per le quali non esistono risposte certe. La ricerca di una spiegazione onnicomprensiva va, fatalmente, a sbattere contro una realtà frammentaria, fatta di troppe cose, proprio come il gabbiano che ad un certo punto della narrazione si schianta contro il vetro di una finestra.

E allora? Come uscire da questo impasse? Con un coup de théâtre, ad esempio, come una verticale eseguita dal protagonista nello Studio Ovale della Casa Bianca, davanti al Presidente ed al suo staff allibito. Un “infinite jest” che segna una svolta, forse una resa, sicuramente un punto di non ritorno: da “Grande Impostore” a “Pazzo Santo”, un modo per difendersi, proprio come

“Le sciocchezzuole inventate da Twain accanto al letto delle sue figlie. Che lui le protegge, e che il mondo è un posto sicuro e confortevole adesso che devono fare la nanna. Che quando saranno grandi si ricorderanno di questa favola e rideranno d’amore per il loro padre. Che questo è il suo riscatto.”




sabato 20 febbraio 2016

Antonio Di Benedetto – L’uomo del silenzio




“Potrò essere solo a certe condizioni. Quali non lo so.”



La storia di un’ossessione, quella dell’uomo senza nome protagonista del romanzo per il rumore, rumore che fa il suo ingresso in scena già alla seconda riga (Apro il cancello e trovo il rumore) e che viene presentato come qualcosa di concreto più che entità astratta (lo cerco con lo sguardo, quasi fosse possibile determinare la sua forma e il limite della sua vitalità).

All’inizio è solo un disturbo, frastuono che proviene dalla strada e si limita ad infastidire il protagonista quando è in casa, ma nel corso della storia si dilaterà a dismisura fino a diventare ingovernabile, monomania in grado di fare da innesco per l’esplosione di quel malessere che il giovane non riesce più a comprimere dentro di sé.

Un uomo solo, che frequenta un strano e contorto amico di nome Besarion, con il quale non riesce ad avere un rapporto confidenziale ma solo conversazioni superficiali, ed è invaghito di una ragazza, Leila, una vicina di casa alla quale non riuscirà mai a dichiarare i suoi sentimenti, finendo poi per sposarne l’amica, Nina, più per indolenza che per amore (Sposerò Nina. È la cosa più facile, sì, molto più facile di tutto il resto.).

Un uomo freddo, apatico, che si sorprende della considerazione qualcuno può avere per lui (“Perché mi accetta?” – chiede a Nina – “Perché lei è buono e per bene.” “Sono buono e per bene?”), e che non riesce a provare alcuna forma di empatia per gli altri.

Un uomo che vive veramente solo nella sua immaginazione, nei suoi sogni, come quello del romanzo che vorrebbe scrivere senza però iniziarlo mai, ma che se non altro gli fornisce il conforto necessario per andare avanti (forse questo è il fausto giorno in cui comincerò il mio libro. Ce l’ho quasi tutto nella testa. Mi basta sceglierne un inizio: cosa dire per primo, con cosa cominciare. Seduto allo scrittoio, ci rifletto, e le creature che ho pensato già fanno quel che devono per vivere il dramma prefissato. Ho detto loro di camminare, e camminano. Mi meraviglio della magia del mio pensiero. Reclino la testa e mi assopisco. Sono felice e questo mio riposo è meritato).

Un personaggio simile in tutto e per tutto al Bernardo Soares di possoana memoria: un sognatore, ma forse anche un immaturo, uno che preferisce la fuga al confronto, che ha paura di assumersi delle responsabilità e appena può scappa in solaio a giocare da solo con i suoi soldatini. Un uomo lacerato, come lo definisce Besarion, senza sapere cos’è che lo lacera.

Gli altri, la gente, i vicini, sono nemici, fabbricatori di rumori e di disturbo, da evitare prima e combattere poi, in un crescendo che diventa drammatico con il procedere della trama.

Perché tanto accanimento nei confronti del rumore? Perché secondo il protagonista è ciò che gli impedisce la concentrazione, ma questa è solo una scusa, una giustificazione che racconta agli altri sperando di convincere anche se stesso, perché in realtà il problema è che non sa su cosa concentrarsi: il protagonista è un guscio vuoto, senza obiettivi, ambizioni, aspirazioni. Questo è il vero dramma, il dramma dell’uomo moderno che dopo essersi calato nei labirinti della coscienza scopre di aver perso il filo che lo legava all’esterno (Besarion tenta di essere, finge di essere, pur di non essere. Non essere che cosa? Non essere chi? Se stesso. Besarion tende decisamente a non essere. E io, tendo a non essere?... no, tendo a essere. Non me lo permettono. Interferiscono, mi bloccano. Potrò essere solo a certe condizioni. Quali non lo so, Lo intuisco appena.).

Atmosfera kafkiana per una scrittura che per il rigore e la freddezza delle frasi brevi, secche come sentenze, mi ha ricordato Lo straniero di Camus. Ma Di Benedetto è scrittore argentino e come tale non può far mancare tra le pagine quegli squarci di luce tipici della letteratura sudamericana (il sole che si prodiga sul tavolo della stanza da pranzo, il giorno che non è altro che latticello acquoso alla finestra). Leggo sulla quarta di copertina che la rivista La Nacion ha definito l’autore “uno dei segreti meglio custoditi della letteratura nazionale”: ecco, sono contento che questo segreto sia stato finalmente svelato.

sabato 13 febbraio 2016

Javier Cercas - Anatomia di un istante



Lettura diversa da quello che mi aspettavo, nel senso che mi è sembrata più una via di mezzo tra il saggio e il reportage simil-giornalistico che un romanzo. Cercas non parte dal tentativo di golpe del 23 febbraio 1981 per sviluppare una trama, ma si ferma ad analizzarne presupposti e conseguenze con grande perizia.
Il fatto di non essere uno storico permette all’autore di lavorare su più livelli: sull’accaduto, ovviamente, ma anche sulle ipotesi e soprattutto sui protagonisti, indagandone carattere e psicologia.
Nel 1981 avevo sedici anni e mezzo, e nei miei ricordi il 23-F ha i contorni della farsa più che quelli della tragedia: il tenente colonnello Tejero, con quei baffoni, l’improbabile tricorno e gli occhi spiritati… mi aveva fatto subito pensare a uno di quei soldati che Zorro sbeffeggiava quotidianamente che a un militare di prima fila. Per non parlare dei goffi tentativi che aveva messo in atto per sgambettare Gutiérrez Mellado… un soldatino, altro che un militare determinato e pronto a tutto. Probabilmente la realtà era un po’ diversa e io l’avevo percepita in quel modo a causa della mia giovane e della televisione ( è lo stesso Cercas a scrivere che “è probabile che la televisione contamini di irrealtà qualunque cosa riprenda, e che un evento storico venga in qualche modo alterato una volta trasmesso sullo schermo, perché la televisione distorce il modo in cui lo percepiamo”). Eppure la ricostruzione dell’autore spagnolo, per quanto dettagliata e ampiamente condivisa, sembra confermare quella mia impressione di golpe da operetta e per questo non riesce a convincermi fino in fondo.
“Forse il suo piano era campato in aria e peccava di troppa immaginazione.
Non ebbe successo, soprattutto perché nei primi minuti del golpe, quando era in ballo la riuscita o il fallimento, si verificarono due fatti imprevisti: il primo è che il sequestro del Congresso non avvenne secondo la discrezionalità prevista e degenerò in sparatoria, cosa che lordò con un'immagine da golpe duro quello che voleva essere un golpe morbido, mettendo in difficoltà il re, impedendogli cioè di accettare fin dal principio una manovra politica che si presentava con un simile eccesso di violenza; il secondo è che il nome di Armada era già sulla bocca dei golpisti prima che il generale avesse l'opportunità di spiegare al re la natura del golpe e fargli la sua proposta di soluzione, e aver menzionato Armada suscitò diffidenza nel re e in Fernández Campo, cui si aggiunge la rivalità tra Fernández Campo e Armada, ottenendo il risultato che i due decisero di tenere lontano dalla Zarzuela l'ex segretario. E fu così che, dopo soli quindici minuti, il golpe si impantanò.”
Questo per dire che mi sembra poco verosimile che un golpe militare possa andare gambe all’aria solo per qualche colpo di pistola sparato in aria e perché poi il segretario generale del re si rifiuta di ricevere il generale Armada alla Zarzuela.
L’altro aspetto che non mi ha convinto pienamente nella scrittura di Cercas è l’uso reiterato delle “simmetrie”. Qualche esempio:
“pur sembrando forte, il suo partito era ancora debole, e, pur sembrando debole, il franchismo era ancora forte”
“se è forse impossibile capire il comportamento di Armada il 23 febbraio senza tenere conto del suo rancore per Adolfo Suàrez, forse è altrettanto impossibile comprendere il comportamento di Milans quel giorno senza tenere conto della sua avversione per Gutiérrez Mellado.”
“per Tejero Santiago Carrillo rappresentava qualcosa di simile a ciò che Adolfo Suárez rappresentava per Armada, e Gutiérrez Mellado per Milans”
“Milans era contro la democrazia, ma non contro la monarchia, Armada non era contro la monarchia né contro la democrazia (almeno non in modo aperto ed esplicito), ma solo contro la democrazia del 1981 di Adolfo Suàrez”
“il golpe del 23 febbraio fu singolare perché si trattò di tre colpi di Stato diversi: prima del 23 febbraio Armada, Milans e Tejero credevano che il golpe fosse lo stesso per tutti e tre, e questo permise di sferrarlo; il 23 febbraio scoprirono che c'erano tre golpe distinti, e tale scoperta causò il fallimento del golpe. Questo fu ciò che accadde, almeno dal punto di vista politico; dal punto di vista personale accadde qualcosa di ancor più singolare: Armada, Milans e Tejero scatenarono tre colpi di Stato contro tre uomini diversi”
“Santiago Carrillo aveva tradito gli ideali del comunismo,  Gutiérrez Mellado aveva tradito Franco, Suàrez aveva tradito il partito unico fascista in cui era cresciuto, Suàrez, Gutiérrez Mellado e Carrillo tradirono la lealtà nei confronti di un errore per costruire la lealtà a una scelta giusta; tradirono i loro seguaci per non tradire se stessi; tradirono il passato per non tradire il presente.”
Efficaci, niente da dire, e con indubbi vantaggi sulla leggibilità dell’opera, ma mi è parso che l’autore si sia fatto prendere un po’ troppo la mano, finendo in qualche frangente per abusare di questo espediente.

domenica 7 febbraio 2016

Tadeusz Konwicki - Piccola apocalisse


 "Nessuno protestava, ci avevano fatto tutti l’abitudine."



Piccola apocalisse è un libro sull’approssimarsi della fine del mondo, tema che Konwicki finge di voler “sterilizzare” riconducendolo a una dimensione intima, quella del protagonista del libro, mentre nei fatti oggetto della sua attenzione è quel mondo che sembra andare (o essere già andato) in frantumi sia di qua che di là dal muro.

Protagonista del romanzo è uno scrittore che ha da tempo perso la fiducia nella parola scritta e guarda alla vita con disillusione: nulla sembra avere significato, agire è compiere azioni stereotipate, vivere è camminare sulle macerie di una guerra (la seconda guerra mondiale) che ha spazzato via tutto quello che ha incontrato sulla sua strada: cultura, moralità, principi, idee… precipitando l’umanità indietro di secoli, facendo regredire l’uomo a ominide. Si vive obbedendo ad un Destino che non si riesce a comprendere, accettando quello che accade con rassegnazione, magari concedendosi l’unico svago di giocare con l’idea della morte, assaporandone con la fantasia il gusto dolce e amaro, come fa lo scrittore al centro della trama.

Per questo quando una mattina bussano alla porta due suoi sodali, appartenenti agli ambienti dell’opposizione, e gli chiedono di farsi interprete di un gesto dimostrativo e darsi fuoco alle otto di sera davanti all’edificio del Comitato Centrale del partito, lo scrittore non trova ragioni valide per non farlo e da quel momento inizia la sua piccola apocalisse, una Via Crucis tra le strade di Varsavia in attesa che arrivi l’ora designata per immolarsi in nome di qualcosa nel quale probabilmente ha smesso di credere da tempo.

Attraverso le pagine di Piccola apocalisse, Konwicki ci restituisce l’immagine plastica della Polonia del dopoguerra: una nazione sottomessa al giogo sovietico con una popolazione incapace di alzare la testa davanti alle vessazioni quotidiane cui la sottopongono la casta di satrapi che la malgoverna. Una Polonia dove ci si abitua a tutto e tutto si accetta: non importa che ti stacchino acqua e gas da casa, che manchino latte e giornali, che si venga sottoposti a controlli dei documenti più volte al giorno e che un autobus passi ancora o meno per una determinata strada… Si vive sotto una cappa di nebbia che ammanta il quotidiano fino a rendere incerta pure la data: il giorno e il mese, per non dire l’anno.

L’analisi di Knowicki è lucida e senza sconti per nessuno: la società polacca è una palude e quelli che ci sguazzano felicemente non possono pretendere di farlo senza sporcarsi. Ce n’è, ovviamente, per l’intellighenzia che flirta con l’opposizione stando però ben attenta a non disturbare troppo il manovratore: conformisti vestiti da rivoluzionari, smidollati che vivono di sponda, vecchi tromboni interessati solo ad appagare gli appetiti di un ego smisurato. Tra gli aedi della resistenza e gli intellettuali organici che appoggiano il (e si appoggiano al) potere, non c’è poi molta differenza: sia in un caso che nell’altro si tratta di uomini senza carattere, che agiscono per pura convenienza, ad accomunarli è anche il fatto di considerare l’invasore sovietico esattamente per quello che è: un usurpatore gretto e volgare, dal quale però accettano di farsi mettere il morso con indifferenza.

Quello che manca è il carattere, quei carattere che “aveva fatto il suo tempo”.  Il problema non è (solo) la miseria, ma la monotonia di una vita senza speranza, l’accettazione pedissequa di quello che succede. Le persone che lo scrittore incontra sul suo cammino sembrano ripiegate su se stesse, capaci di vivere solo al loro interno, dentro un recinto privato, facendosi bastare quanto è loro concesso, consapevoli dell’inutilità delle loro vite.

Nulla desta più meraviglia, neppure il crollo di un ponte (“Non importa, - osserva un passante - sono rimasti ancora un paio di ponti.”). La vita è così priva di importanza che quando lo scrittore si accinge a fare testamento, le uniche cose che giudica meritevoli di essere tramandate ai posteri sono una ricetta per guarire dalla forfora, una per curare la stitichezza e dei consigli per cavarsela a “sette e mezzo”…

Non si può parlare neppure di un’umanità di “vinti”, perché gli abitanti della Varsavia che ci descrive Konwicki si sono arresi prima di combattere. Rassegnazione e disincanto dominano sovrani, non c’è più spazio neppure per l’indignazione o la rabbia: rassegnazione è quello che resta dopo aver messo la sordina anche alle emozioni e a dare la cifra del momento storico descritto dall’autore è l’indifferenza, quell’indifferenza che manifestano al protagonista tutti coloro i quali sembrano essere a conoscenza del suo progetto suicida (“Forse l’indifferenza, figlia della mediocrità, è quella materia volatile come la nebbia, che si pietrifica in rocce, si congiunge in macigni, cresce come massiccio montuoso fino al cielo schiacciando la nostra misera vita? Forse la trasparente, incolore, inodore, informe, svogliata, onnipresente, accogliente, gentile e innocente indifferenza è l’unico peccato che viene trattenuto dallo staccio della Provvidenza? Forse nel giorno del Giudizio Universale saremo giudicati unicamente per quel peccato- non peccato?”).

Tanta indifferenza da parte della gente per la propria sorte, fa sì che la tragedia si trasformi in certi momenti in farsa, come succede al Paradyz, quando un gruppetto composto da cuochi ed avventori finisce per banchettare con il pranzo destinato ai segretari del partito. Nulla importa, se non approfittare del momento, cogliere quello che si può senza preoccuparsi del futuro.

La società polacca presentata da Konwicki è un guazzabuglio dove convive tutto e il suo contrario, o – per meglio dire – dove ogni cosa si stempera in qualcos’altro, dove non esistono confini, dove tra potere e opposizione c’è una strana contiguità per cui l’uno giustifica l’altra e viceversa, proprio come la confusione che regna sovrana giustifica l’immobilismo, la passività della popolazione. La Varsavia (ma non solo Varsavia…) tratteggiata in Piccola apocalisse è un luogo in cui il peccato si confonde con la virtù, l’immoralità con la moralità, una melma maleodorante nella quale la gente galleggia più per abitudine che per convinzione.