domenica 19 giugno 2016

Samuel Beckett - Murphy

 
Corpo vs spirito

Murphy è uno dei grandi personaggi letterari con i quali Beckett ha marchiato a fuoco il secolo appena trascorso. Fin dalle prime righe ci viene svelato nella sua essenza, come se l’autore avesse urgenza di presentarci la sua invenzione: un protagonista tanto diverso da quelli che animavano i romanzi dell’epoca. Ed è una presentazione quanto mai sorprendente, visto che lo troviamo nudo e legato alla sua sedia dondolo:

“Stava seduto così perché gli faceva piacere star seduto così. Prima di tutto piacere del corpo, appagamento fisico. Poi piacere dello spirito, allargamento nel suo mondo spirituale. Soltanto dopo aver appagato il corpo, poteva cominciare a vivere nello spirito. E il suo modo di vivere nello spirito gli dava un enorme piacere, quasi un’assenza di dolore.”

Gesti stereotipati, un dondolio via via più lento, un movimento ipnotico che sembra il viatico al raggiungimento di uno stato di trance. Da subito il dualismo corpo/spirito, la necessità di placare i bisogni del primo per avere accesso al mondo del secondo, quello che Murphy riconosce come il suo vero mondo, quello dal quale gli altri cercano di strapparlo via e quello nel quale lui cerca costantemente rifugio perché non è interessato a ciò che accade fuori da sé: la realtà è irredimibile, e da questo punto di vista l’incipit così noto del romanzo (il sole splendeva, senza possibilità di alternative, sul niente di nuovo) è una vera e propria dichiarazione di intenti.

Murphy aspira all’atarassia e il primum movens su questo cammino è il tentativo di annullare o ridurre il potere della volontà, intesa come molla che muove le nostre passioni. Quando prova a sprofondare nel suo spirito, lo fa per abbandonarsi al torpore, non per seguire pensieri o speculazioni. Quella che detta il tempo è la musica del suo Io, non quella suonata dal pensiero cosciente.

Il problema del protagonista del romanzo consiste nel non riuscire a conciliare i contrari nel suo cuore perché il suo spirito è una grande sfera cava, ermeticamente chiusa all’universo esterno. Succede così che esperienza mentale ed esperienza fisica parlino in Murphy linguaggi diversi, di qui la frattura, l’impossibilità di armonizzare le due parti della sua persona che per questo risulta divisa. Per questo gli unici individui per i quali prova empatia sono i pazienti della clinica psichiatrica nella quale si trova a lavorare; loro non vogliono nulla da lui (a differenza da tutti gli altri con i quali entra in contatto e che per un motivo o per l’altro pretendono di cambiarlo), loro sono indifferenti al mondo circostante, anche loro – come Murphy – hanno qualcosa di rotto dentro.

Il dramma di Murphy deflagra nel momento in cui, invece di accettare la situazione di incomunicabilità alla quale si è condannato, prova a stabilire un contatto con il signor Endon, un paziente schizofrenico. La partita a scacchi tra i due rappresenta il climax del romanzo e uno dei vertici della poetica beckettiana: Murphy prova a gettare un ponte tra lui e un individuo che giudica simile a sé e per farlo utilizza le mosse del gioco come fossero lettere di un alfabeto diverso da quello consueto, un linguaggio nuovo per tentare una comunicazione altrimenti impossibile. È una partita nella quale si gioca tutto: dapprima cerca di ripetere sulla scacchiera i movimenti del suo avversario per dimostrargli che è come lui, poi prova a farlo uscire dal guscio, invitandolo a mangiare dei pezzi per accorciare le distanze e così attirarlo nel suo territorio. Tutto inutile, il signor Endon non gioca contro Murphy ma gioca da solo, e dopo aver abbozzato qualche movimento ripiega progressivamente verso le posizioni che occupava all’inizio del gioco, indifferente al suo avversario: Murphy per lui non esiste, è uguale a tutti gli altri. Di qui la sconfitta, non tanto nella partita a scacchi quanto nel progetto del protagonista, condannato a una solitudine senza speranza: Murphy non chiedeva di cambiare il suo destino di essere diviso, ma almeno di condividere con qualcuno la separazione tra corpo e spirito che vive dolorosamente sulla sua pelle. 

Murphy è un gran libro, un libro denso, angosciante e ironico, una prateria  che si estende in ogni direzione, anche (soprattutto) in profondità. Ovunque ci soffermiamo, se iniziamo a scavare troviamo materiale, spunti per nuove riflessioni. Murphy è una specie di Moloch al cospetto del quale si può ragionare solo per approssimazione; è difficile procedere con equilibrio e misura, molto più facile provare un senso di disorientamento, l’impressione di trovarsi a navigare nel caos accontentandosi di seguire alcune linee di pensiero con la consapevolezza che ce ne sono molte di più che finiranno per essere trascurate o, peggio, non comprese compiutamente.

mercoledì 15 giugno 2016

Sprazzi di luce (armonia e bellezza al più alto grado)

"Pensò tra l'altro che nel suo stato epilettico c'era una fase, proprio prima dell'attacco (sempre che l'attacco venisse mentre era sveglio), quando improvvisamente, in mezzo alla tristezza, alle tenebre dell'anima, all'oppressione, il suo cervello pareva accendersi, e tutte le sue forze vitali si tendevano di colpo con uno slancio inusitato. Il senso della vita e la coscienza di sé si decuplicavano quasi in quegli istanti che duravano il tempo di un lampo. La mente, il cuore gli si illuminavano di una luce straordinaria. Tutte le sue emozioni, i suoi dubbi, sembravano placarsi di colpo, si risolvevano in una calma suprema, piena di gioia serena, di armonia e di speranza, piena di intelligenza e di causa ultima. Ma quei momenti, quegli sprazzi di luce, erano soltanto il preludio di quel secondo definitivo (mai più di un secondo) con cui aveva inizio l'attacco vero e proprio. Quel secondo era certamente insopportabile. Riflettendo in seguito su quell'istante, quando ormai si trovava in condizioni normali, spesso diceva a se stesso che tutti quei lampi e quei bagliori di altissima sensazione e coscienza di sé, e quindi anche di "vita superiore" non erano altro che malattia, alterazione dello stato normale, e se era così, quella non era affatto un'esistenza superiore, ma, al contrario, doveva essere annoverata fra le più basse. E tuttavia arrivò infine ad una conclusione straordinaria e paradossale: "Che importa se è una malattia?" concluse infine, "che importanza ha che sia una tensione anormale, se il risultato, se quel minuto di sensazioni rievocato e analizzato poi in condizioni normali si rivela armonia e bellezza al più alto grado, e dà un senso fino allora insospettato e inaudito di pienezza, di misura, di acquietamento e di trepida fusione di preghiera con la suprema sintesi della vita?"


[Fëdor Michajlovič Dostoevskij: "L'idiota"]

domenica 12 giugno 2016

Angelo Calvisi – Clandestini

Angelo Calvisi, direttore della fotografia.

Clandestini è una raccolta di racconti eterogenea per forma e contenuti. Storie scritte nell’arco di anni e spesso legate a un vincolo tematico richiesto dal blog o dalla rivista che poi le hanno pubblicate.
Storie diverse anche per il valore letterario (alcune più riuscite ed altre probabilmente meno), che pure ci permettono uno sguardo anche sul Calvisi scrittore di racconti.
Diciamo subito che, ad oggi, ho apprezzato maggiormente le sue qualità come autore di romanzi brevi sia in Un mucchio di giorni così che in Adieu mon coeur, ma anche alla prova di una forma narrativa diversa dimostra di cavarsela bene e soprattutto di saperne risolvere i problemi tecnici connessi  con apparente semplicità.
Le storie di Clandestini sono tutte narrate con stile diretto in prima persona presente (mi sembra che solo in un racconto l’autore usi l’imperfetto) e caratterizzate da un incipit in grado di attirare da subito l’attenzione del lettore (caratteristica fondamentale nelle short stories), un buono sviluppo della vicenda e un climax che per il mio gusto a volte è un po’ troppo vicino alla conclusione. Ma al di là di certi formalismi è “la misura” quello che mi sembra uno dei tratti salienti di questi racconti, l’equilibrio tra la scorrevolezza di una scrittura che procede sicura, senza sbavature e una narrazione che alterna accadimenti, dialoghi, osservazioni e divagazioni senza perdere il filo di una trama che alla fine si risolve  con naturalezza, senza forzature.
Angelo Calvisi, direttore della fotografia, si diceva nel titolo. Già, più direttore della fotografia che regista, perché le storie che racconta sembrano avere vita propria, svilupparsi autonomamente come un film che scorre sotto i nostri occhi. Calvisi fotografa le scene e poi traduce in parole i fotogrammi: impresa tutt’altro che banale, soprattutto perché riesce a rendere con poche pennellate impressioni, attimi, momenti di vita che trasforma in suggestioni cariche di possibilità (L’acqua è scura, calma, ci sono dei barconi che trasportano tronchi e sulla riva soffia un’aria fresca. È una scena che trasmette un’idea di inevitabilità, e non sono in grado di descriverla meglio, scrive in Missione a Berlino di un redattore suicida).
Calvisi scrive quello che vede (parafrasando il protagonista del primo racconto della raccolta, che, in un incipit che ricorda Il Grande Freddo, tira fuori il bloc-notes nel bel mezzo di un funerale e scrive: il mio stato d’animo sono le cose che vedo) ed è un vedere senza pre-concetti, finalizzato non tanto a formarsi opinioni quanto a provare a capire. La curiosità è il primum movens dell’autore, curiosità che trasforma la routine di un cooperatore sociale o di un commesso di un negozio di dischi in qualcosa di diverso: dietro ogni persona c’è un personaggio,  e Calvisi ce lo restituisce nella sua “unicità”.
È la curiosità che porta i personaggi di Clandestini a interrogarsi su ogni cosa,  anche sul significato delle parole (come fa il protagonista di Giornata tipo di uno strenuo cooperatore sociale che tornando a casa si chiede se quelli dell’autobus fossero proprio vagoni e Come si chiamava il nastro di spessa gomma nera che separava le due ante delle porte? E le porte dell’autobus si chiamavano veramente porte?), la stessa curiosità che abbiamo quando da bambini andiamo alla scoperta del mondo e che poi perdiamo (o nascondiamo) crescendo, perché la consideriamo un sinonimo di immaturità, un segno di debolezza.
C’è un’ultima osservazione che voglio fare su questo brevissimo libro (si legge, cronometrato, in un’ora) ed è relativa all’ultimo racconto, Missione a Berlino di un redattore suicida, che mi ha colpito particolarmente: una trama originale, straniante e surreale, con il protagonista che alla fine finisce per svanire all’interno della storia che ha raccontato. Un racconto diverso da tutti gli altri, ma perfettamente riuscito, a dimostrazione delle capacità dell’autore di esprimersi al meglio anche con registri narrativi differenti.

martedì 7 giugno 2016

Who am I?

"Allora, dunque, chi sono io? Quello dei test della personalità? Ma questi non fanno altro che ritagliarmi in sbiadite diapositìve. In momenti diversi, in base a essi, ho personalità differenti. La nostra interiorità non è però un album di fotografie. Noi non siamo oggetti, ma processi. Io sono, in fin dei conti, la mia ricerca di me. Esisto perché cerco il mio me stesso. Non al fine di ritrovarmi: il fatto che cerchi me stesso è il segno che mi sono già trovato."


[Mircea Cărtărescu, : "Perché amiamo le donne"]

domenica 5 giugno 2016

Antonio Moresco – Gli esordi

“Sono come una gestante che porta dentro il proprio ventre un feto e che si trova contemporaneamente nel ventre del suo stesso feto”

È un piacere e un privilegio entrare nella creazione di Moresco in punta di piedi, lasciando che le cose si svelino un po’ alla volta, seguendole con lo sguardo meravigliato, quasi da bambino, del protagonista, che osserva il mondo e le sue dinamiche come fosse la prima volta.
Il mondo, i mondi. Tanti mondi differenti: quello del seminarista sordomuto e delle sue api, quello misterioso del Gatto… quelli di tutti i personaggi che via via appaiono, scompaiono e a volte si ripresentano sulla scena e che sembrano venire da altre storie. Mondi che il protagonista attraversa come una pallina che rotola su un piano leggermente inclinato, assecondando le curve del percorso spinta da una forza inerziale che sembra prescindere dalla sua volontà. Scivola lentamente nel mondo e descrive quello che vede, senza cercare di interpretare, ma semplicemente raccontando. Un ritorno all’origine, un tentativo di ripulire la narrazione da tutte le costruzioni che nel tempo si sono stratificate appesantendola e portandola sempre più lontano dal suo scopo originale: Moresco rimette al centro l’osservazione e cerca di farlo nella maniera più onesta possibile, evitando giudizi o eccessive spiegazioni, sforzandosi di restituire al lettore persone, fatti e comportamenti nella loro essenza.
Un’osservazione dal basso ma non un’osservazione di basso livello, tutt’altro. Perché Gli esordi non è una piatta esposizione di avvenimenti, ma un percorso ricco di sfumature (la mano intravista e le caviglie immaginate della suora nera, gli esercizi del Gatto, gli spostamenti della Pesca…) e soprattutto metafore, vere o apparenti (penso, ad esempio, al volo irregolare dei piccioni ubriachi e alla pallina su cui soffiano il protagonista e il Gatto nella prima parte, a quella strana corte dei miracoli che lo accompagna nella seconda e al biografo che invecchia a velocità impressionante nella terza), che rappresentano fessure nelle quali il nostro occhio e la nostra fantasia possono infilarsi per trasformare il mondo di Moresco nel nostro mondo, il suo libro nel nostro libro: porte che aprono infinite possibilità per immaginare altre storie.
Il mondo de Gli esordi è lo specchio del nostro mondo, ma uno specchio deformante, che restituisce  all’occhio una realtà alterata. Magari non in maniera evidente fin da subito, ma solo in qualche particolare (il viso diviso in due del padre priore, Ziò che spara all’albero…), come se Moresco ci invitasse a rallentare e a soffermarci su quello che di solito diamo per scontato.

Per tutta la prima parte del romanzo il protagonista non dice parola e nella seconda si aggira per le pagine del libro come un sonnambulo incapace di mettere a fuoco quello che accade intorno a lui, eppure nessuno degli altri personaggi sembra farci caso. Un protagonista senza nome che vive in uno stato di perenne spaesamento: fatica a capire in quale città si trova, in che giorno, in che stagione. Va avanti senza punti di riferimento, galleggia nella realtà senza decidere nulla, eseguendo gli ordini che altri gli impartiscono, facendo quello che gli viene chiesto. Lui osserva, ascolta, aiuta, gli altri parlano e non sanno più guardare. Il mondo disegnato da Moresco è un mondo nel quale le dinamiche dell’Io sembrano aver definitivamente sbaragliato quelle del Noi e dove dominano l’indifferenza e l’anaffettività. Un mondo che probabilmente ci è abbastanza familiare.

giovedì 2 giugno 2016

Politically incorrect: Gadda

Una giuliva bischeraggine animava le facce di tutti; […] E tutti speravano, speravano, giulivi. Ed erano pieni di fiducia. Oppure, autorevoli, tacevano. […] incartonati nell’arnese d’amido dello smoking quasi nel cerotto e nel turgore supremo della certezza e della realtà biologica.
[…] venivano giù come un olio al loro imbandierato varo, varati finalmente nel sciocchezzaio con tutti gli onori e i carismi: carene insevate da stupidità. Più insulsi erano, e più felice e liscio gli andava sottoculo lo scivolo, […] Tutti avevano la loro vita, la loro donna: e si erano lasciati varare: ed erano in condizione di essere presi, sul serio. […] Ognuno credeva, realmente, di essere una cosa seria. […] Tutti erano presi sul serio: e si avevano in grande considerazione gli uni gli altri.
Gli attavolati si sentivano sodali nella eletta situazione delle poppe, nella usucapzione d’un molleggio adeguato all’importanza del loro deretano, nella dignità del comando. Gli uni si compiacevano della presenza degli altri, desiderata platea. E a nessuno veniva fatto di pensare, sogguardando il vicino, «quanto è fesso!».
Tutti, tutti: e più che mai quei signori attavolati. Tutti erano consideratissimi! A nessuno, mai, era mai venuto in mente di sospettare che potessero anche essere dei bischeri, putacaso, dei bambini di tre anni. Nemmeno essi stessi, che pure conoscevano a fondo tutto quanto li riguardava, le proprie unghie incarnite, e le verruche, i nèi, i calli, un per uno, le varici, i foruncoli, i baffi solitari: neppure essi, no, no, avrebbero fatto di se medesimi un simile giudizio. E quella era la vita.
[…] Così rimanevano. A guardare. Chi? Che cosa? Le donne? Ma neanche. Forse a rimirare se stessi nello specchio delle pupille altrui. In piena valorizzazione dei loro polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini ossibuchivori.
[…] Nessuno conobbe il lento pallore della negazione. […] Le figurazioni non valide erano da negare e da respingere, come specie falsa di denaro. […] Cogliere il bacio bugiardo della Parvenza, coricarsi con lei sullo strame, respirare il suo fiato, bevere giù dentro l’anima il suo rutto e il suo lezzo di meretrice. O invece attuffarla nella rancura e nello spregio come in una pozza di scrementi, negare, negare: chi sia Signore e Principe nel giardino della propria anima. Chiuse torri si levano contro il vento. Ma l’andare nella rancura è sterile passo, negare vane immagini, le più volte, significa negare se medesimo. Rivendicare la facoltà santa del giudizio, a certi momenti, è lacerare la possibilità: come si lacera un foglio inturpato leggendovi scrittura di bugìe.

[…] Lo hidalgo era nella sala, […] La sua secreta perplessità e l’orgoglio secreto affioravano dentro la trama degli atti in una negazione di parvenze non valide. Le figurazioni non valide erano da negare e da respingere, come specie falsa di denaro. […] Lo hidalgo, forse, era a negare se stesso: rivendicando a sé le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore, nulla rimaneva alla possibilità. Tutto andava esaurito dalla rapina del dolore. Lo scherno solo dei disegni e delle parvenze era salvo, quasi maschera tragica sulla metope del teatro.

[…] Pur incombendoci di dare il più severo giudizio circa l’aberrante violenza de aquel perdido, tenemos todavía que abrir el ánimo al residuo de una duda; y este sobrante caritativo es en el concepto y quizás en la inquietud de que un mal tan profundo tuviese en alguna parte su origen, aún recóndito y obscuro: che vi fosse una ragione o una causa, o più ragioni o più cause, forse, ignote agli umani, irreparabili, perché l’animo dello hidalgo andasse così privo di ogni gioia.

[Carlo Emilio Gadda: "La cognizione del dolore"]