Triste, solitario y
final
Romanzo
imprescindibile nella bibliografia onettiana, nel quale ritroviamo Larsen - il
Raccattacadaveri protagonista della saga di Santa María - al passo d’addio.
L’autore ce lo
presenta nel momento in cui fa la sua comparsa nella cittadina. Ed è una
presentazione da par suo:
“Larsen scese dalla fermata delle corriere che arrivano da Colón, posò
un momento la valigia a terra per tirarsi verso le nocche i polsini di seta
della camicia e si avviò verso Santa María proprio quando aveva da poco smesso
di piovere, lento e dondolante, forse più grasso, più basso, anonimo e in
apparenza domo.”
In apparenza domo. Tre
parole, poste alla fine della prima pagina, pesanti come macigni, tre parole
con le quali Onetti traccia la strada, i binari sui quali correrà il romanzo. Si
tratta di binari privi di suspense perché le cose, come spesso succede nei
romanzi dello scrittore uruguayano, sono già scritte fin dall’inizio. Se e è
vero infatti che sono il caso e il destino a riportare Larsen a Santa María, “per concedergli l’ingenua rivincita di
imporre nuovamente la sua presenza alle strade e ai locali pubblici dell’odiata
città”, è anche vero che la rivincita che Raccattacadaveri vorrebbe
prendersi è, appunto, “ingenua”, destinata cioè a fallire in partenza.
Larsen è destinato
alla sconfitta. Il massimo a cui può aspirare è “continuare a perdersi senza doverlo accettare, senza che la sua rovina
diventasse lampante, pubblica, spassosa”, ha intuito di essere cascato
dentro una trappola, eppure decide di giocare una partita che non può vincere
piuttosto che provare a tirarsene fuori e lo fa “perché questa era la sua ultima possibilità di illudersi”.
Larsen è l’uomo che si
trova nel fondo del dirupo e decide di rimanervi, perché quella è la sua vita, e
al di fuori “non c’è altro che l’inverno,
la vecchiaia, il non sapere dove andare, persino la possibilità della morte”.
Ma Larsen è anche l’uomo che cerca di tirarsi fuori dal baratro nel quale è
sprofondato e e l’appiglio che trova è quanto di più pericoloso poteva
aspettarsi, vale a dire le braccia di Jeremías Petrus, un vecchio faccendiere
ed impostore che sta precipitando nel vuoto come lui, ma che a differenza di Larsen
non se ne cura. Sul fondo del pozzo a fare compagnia a Raccattacadaveri c’è la
lunga teoria dei vinti, degli sconfitti dalla vita: c’è chi, come Galvéz,
cercherà di ribellarsi al suo destino finendone schiacciato, chi, come Angelica
Inés, vive nella prigione dorata della sua pazzia, e poi gli altri, un’umanità
dolente che si trascina per le strade di Santa María indifferente a tutto
quello che succede, un po’ per abitudine, un po’ perché non sa, non può o non
vuole fare altrimenti.
Larsen si sente
diverso dagli altri e cerca di lottare per sfuggire alle sabbie mobili, senza
rendersi conto che più si muove e più rapidamente il fango lo risucchia al suo
interno.
Larsen gioca a carte
con la Vita, ad ogni giro crede di avere in mano le carte per conquistare la
posta e poi finisce per perdere la scommessa. Eppure non si rassegna e
rilancia, consapevole che quella che sta giocando è l’ultima partita, la sua
ultima possibilità di avere se non un futuro almeno un presente, e si ingegna a
trovare una via d’uscita dall’angolo nel quale la Vita lo ha schiacciato.
Rilancia al buio, bluffa, prova a confondere il suo avversario, tira fuori
tutto l’armamentario che ha accumulato in anni e anni di partite a carte pur di
rimanere a galla.
Tutto inutile, dall’altra
parte del tavolo siede la Vita, un avversario che nessuno ha mai sconfitto
perché sa sempre che carte abbiamo in mano.
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