domenica 9 ottobre 2016

Juan Carlos Onetti - Il cantiere




Triste, solitario y final

Romanzo imprescindibile nella bibliografia onettiana, nel quale ritroviamo Larsen - il Raccattacadaveri protagonista della saga di Santa María - al passo d’addio.
L’autore ce lo presenta nel momento in cui fa la sua comparsa nella cittadina. Ed è una presentazione da par suo:
Larsen scese dalla fermata delle corriere che arrivano da Colón, posò un momento la valigia a terra per tirarsi verso le nocche i polsini di seta della camicia e si avviò verso Santa María proprio quando aveva da poco smesso di piovere, lento e dondolante, forse più grasso, più basso, anonimo e in apparenza domo.”
In apparenza domo. Tre parole, poste alla fine della prima pagina, pesanti come macigni, tre parole con le quali Onetti traccia la strada, i binari sui quali correrà il romanzo. Si tratta di binari privi di suspense perché le cose, come spesso succede nei romanzi dello scrittore uruguayano, sono già scritte fin dall’inizio. Se e è vero infatti che sono il caso e il destino a riportare Larsen a Santa María, “per concedergli l’ingenua rivincita di imporre nuovamente la sua presenza alle strade e ai locali pubblici dell’odiata città”, è anche vero che la rivincita che Raccattacadaveri vorrebbe prendersi è, appunto, “ingenua”, destinata cioè a fallire in partenza.
Larsen è destinato alla sconfitta. Il massimo a cui può aspirare è “continuare a perdersi senza doverlo accettare, senza che la sua rovina diventasse lampante, pubblica, spassosa”, ha intuito di essere cascato dentro una trappola, eppure decide di giocare una partita che non può vincere piuttosto che provare a tirarsene fuori e lo fa “perché questa era la sua ultima possibilità di illudersi”.
Larsen è l’uomo che si trova nel fondo del dirupo e decide di rimanervi, perché quella è la sua vita, e al di fuori “non c’è altro che l’inverno, la vecchiaia, il non sapere dove andare, persino la possibilità della morte”. Ma Larsen è anche l’uomo che cerca di tirarsi fuori dal baratro nel quale è sprofondato e e l’appiglio che trova è quanto di più pericoloso poteva aspettarsi, vale a dire le braccia di Jeremías Petrus, un vecchio faccendiere ed impostore che sta precipitando nel vuoto come lui, ma che a differenza di Larsen non se ne cura. Sul fondo del pozzo a fare compagnia a Raccattacadaveri c’è la lunga teoria dei vinti, degli sconfitti dalla vita: c’è chi, come Galvéz, cercherà di ribellarsi al suo destino finendone schiacciato, chi, come Angelica Inés, vive nella prigione dorata della sua pazzia, e poi gli altri, un’umanità dolente che si trascina per le strade di Santa María indifferente a tutto quello che succede, un po’ per abitudine, un po’ perché non sa, non può o non vuole fare altrimenti.
Larsen si sente diverso dagli altri e cerca di lottare per sfuggire alle sabbie mobili, senza rendersi conto che più si muove e più rapidamente il fango lo risucchia al suo interno.
Larsen gioca a carte con la Vita, ad ogni giro crede di avere in mano le carte per conquistare la posta e poi finisce per perdere la scommessa. Eppure non si rassegna e rilancia, consapevole che quella che sta giocando è l’ultima partita, la sua ultima possibilità di avere se non un futuro almeno un presente, e si ingegna a trovare una via d’uscita dall’angolo nel quale la Vita lo ha schiacciato. Rilancia al buio, bluffa, prova a confondere il suo avversario, tira fuori tutto l’armamentario che ha accumulato in anni e anni di partite a carte pur di rimanere a galla.
Tutto inutile, dall’altra parte del tavolo siede la Vita, un avversario che nessuno ha mai sconfitto perché sa sempre che carte abbiamo in mano.

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