sabato 28 marzo 2020

Sudeste – Haroldo Conti


L'uomo e il fiume

Sudeste è la storia del Boga, tagliatore di giunchi sul delta del Paranà che alla morte del vecchio che lavorava con lui decide di abbandonare la capanna nella quale vive ed inizia a vagabondare sul grande fiume, mosso dall'"ansia che spinge l'uomo verso l'orizzonte".
Un viaggio senza uno scopo preciso, per sopravvivere ma soprattutto perché il legame con quel corso d'acqua è una catena che il Boga non sa e non vuole sciogliere. Un viaggio che non prevede nessun punto di arrivo perché alla foce del Paranà "le distanze si dilatano e il traguardo si allontana insieme a te".
Come un Suttree ante litteram, l'uomo scivola lentamente dentro al suo destino. Quello del Boga è un modo consapevole di andare alla deriva, sentendosi parte del fiume e indifferente a tutto il resto. "Il fiume è splendido e l'uomo se ne sente misteriosamente attratto. Questo è tutto ciò che può dire". Un girovagare da un posto all'altro con la prua diretta verso nord, lottando con il vento di Sudeste che sferza il corpo ed i pensieri. Vivere nella pancia del fiume come unica aspirazione, sentirsi accolto da quella Natura, farne parte lasciando che le cose vadano come devono andare.
In Sudeste ci sono Boga, il fiume e il vento. E poi ci sono gli altri: figure di contorno, abbozzi di un'umanità che Conti tratteggia con contorni volutamente sfumati, persone senza passato e dal futuro quantomeno incerto. Il Bastos, Il Colorado Chico, il Lungo… ma soprattutto un omino "che sembra il Cabecita" con il suo cane Capi e un paio di brutti ceffi, uno senza nome e l'altro chiamato "Chino" ma conosciuto anche come "la Bionda", due delinquenti che con le loro malefatte cambieranno il corso della vita del Boga che si lascerà cadere dentro alla situazione senza far nulla per tirarsene fuori.
"Era come uno spettatore. Vedeva trafficare se stesso e gli altri come da una distanza incredibile e affaticante. L'aveva trascinato il fiume. L'estate. Un giorno o l'altro sarebbe finito tutto. Con un piccolo sforzo avrebbe potuto tirarsene fuori. Ma non era capace di fare uno sforzo, piccolo o grande. In qualche modo le cose si erano ingarbugliate e lui era rimasto lì."

Sudeste è un libro lento come il corso del fiume che descrive, un libro di silenzi, pensieri, descrizioni e pochi dialoghi. Un grande romanzo sul legame tra l'uomo e la natura, legame che Conti è ben attento a dipingere in maniera tutt'altro che idilliaca. Il Boga 'appartiene' alla natura, ed in nome di questa appartenenza accetta fatiche e sofferenze in cambio di quei pochi istanti di felicità che nascono dal sentirsi in armonia con il fiume ("A partire da quel momento, sulla spiaggia deserta, cucinando i pesci, poteva considerarsi un vagabondo. Non fu proprio questo ciò che pensò, ma improvvisamente si sentì invadere da una strana serenità, una placidità mai provata, e qualcosa di simile a una sorridente allegria. Finalmente si trovava nella situazione che aveva sempre desiderato."

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domenica 22 marzo 2020

Zoo o lettere non d'amore – Viktor Borisovič Šklovskij


"Un tentativo di uscire dagli ambiti del romanzo tradizionale."

"Mio caro, mio amato. Non scrivermi d'amore. Non devi. […] Io non ti amo e non ti amerò."
Così si rivolge Alja a Viktor Šklovskij nella Lettera terza di questo libro e lo scrittore russo emigrato a Berlino la prende in parola costruendo con Zoo (il riferimento è a quartiere della capitale tedesca dove vivevano gli espatriati russi) uno strano gioco letterario in cui si impegna a scrivere di tutto tranne che d'amore, se non fosse che in realtà ogni argomento trattato sottende in maniera più o meno esplicita il sentimento che l'autore prova per la donna.
Un non-romanzo ricco di metafore, uno zibaldone di pensieri in forma di lettere all'amata. Šklovskij veste con l'ironia il dolore dal quale nasce la sua ispirazione, con un procedimento simile a quello che Cervantes ha riservato a Don Chisciotte utilizzando l'eroe parodistico "non solo per il compimento di imprese caricaturali, ma anche per pronunciare discorsi saggi". E come se non bastasse ad ingarbugliare una matassa già sufficientemente intricata, proprio nell'ultima delle Lettere che compongono il libro l'autore compie un'imprevista giravolta dichiarando che in realtà il tema dell'amore è solo una metafora perché Zoo è "un libro sull'incomprensione, su persone estranee, su una terra straniera. Voglio tornare in Russia."
In realtà che l'amore per Alja sia il fuoco che incendia quest'opera è evidente, così come è evidente che un altro amore, quello di Šklovskij per la Letteratura, sia la seconda fiamma che alimenta il braciere della sua ispirazione.
Da questo punto di vista, emblematica è la Lettera quarta, nella quale l'autore dichiara di voler palare del tempo e poi, passando dal suo amore per Chlebnikov arriva a parlare dell'"amaro calice dell'amore che è come i chiodi con i quali ci crocifiggono".
Amore e Letteratura riuniti quindi in un abbraccio nel quale finiscono per confondersi, e non poteva essere altrimenti, considerando che "tutta la letteratura russa è consacrata agli insuccessi amorosi" (Lettera quattordicesima dell'edizione del 1924).
Belyj, Pasternak, Chagall, Il'ja Erenburg… diversi ed interessanti sono i bozzetti di grandi artisti che ritroviamo tra le pagine di Zoo, così come le riflessioni sul ruolo dello scrittore, sulla "necessità della forma letteraria", sul bisogno dell'artista di essere libero e di realizzare qualcosa di nuovo.
"Il caso più interessante" – scrive nella Lettera ventiduesima – " è costituito dal libro che sto scrivendo ora. Si chiama Zoo, lettere non d'amore o La Terza Eloisa; qui i singoli momenti sono uniti; infatti tutto è collegato dalla storia d'amore di un uomo per una donna. Questo libro è un tentativo di uscire dagli ambiti del romanzo tradizionale."

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https://www.enotes.com/topics/zoo-viktor-shklovsky

sabato 14 marzo 2020

Il burrone – Ivan Aleksandrovič Gončarov


Pubblicato nel 1869, Obryv, Il burrone, risulta il terzo degli "Ob" per data di pubblicazione (Obyknovennaja istorija, Una storia comune, è del 1847 e Oblomov  del 1859) e, nell'opinione comune, anche il terzo per importanza.
Si potrebbe dire che anche un Gončarov minore è pure sempre un Gončarov e quindi vale la pena di una lettura, ma il punto è che non sono così sicuro che quest'opera possa essere rubricata con tanta semplicità come "minore", anche se a tratti può risultare eccessivamente manierata e disomogenea nella struttura.
Il burrone, infatti, riveste un ruolo notevole nella bibliografia gončaroviana perché chiude un'ideale ambiziosa trilogia che descrive la faticosa transizione della società russa da un feudalesimo di stampo medievale ad un Mondo Nuovo  ancora tutto da disegnare.
Il filone al quale appartiene questo romanzo è è quello del realismo psicologico e la storia è quella di Boris Pavlovich Raysky, un nobile annoiato, un artista "oblomoviano" che vive tra scrittura, pittura e scultura senza mai applicarsi veramente ad alcuna di queste arti. Un amante del bello, un uomo volubile guidato dall'istinto e che rifugge le responsabilità. Il pretesto di controllare certi suoi possedimenti lo porta dalla grande città alla campagna,  dove si innamora, non ricambiato, di Vera, una cugina di secondo grado, a sua volta invaghita di Mark Volokhov, un giovane rivoluzionario nichilista e iconoclasta che è sotto la sorveglianza della polizia.
La storia d'amore sul triangolo Raysky-Vera-Volokhov è solo un pretesto, non solo e non tanto per parlare d'amore (tema che comunque l'autore declina in diverse sfumature e secondo il sentire di ognuno dei personaggi, confermando la sua assoluta capacità nella descrizione dei caratteri) ma per portare in scena il conflitto sociale di cui si diceva.
Il passaggio da una società patriarcale ad un mondo nuovo è rappresentato da Gončarov da un lato attraverso il tentativo de protagonisti di affermare la propria personalità anche andando in rotta di collisione con gli stereotipi dell'epoca e con la morale comune, dall'altro mostrando le incertezze ed i limiti di ognuno di loro. È la perfetta immagine di quello che rappresenta ogni cambiamento: si identificano difetti e limiti del sistema corrente e poi ci si divide su come modificarlo, c'è univocità sulla diagnosi e confusione sulla terapia.
Le idee nuove sono, appunto, idee. Opinioni da verificare alla prova dei fatti e soprattutto numerose e contraddittorie almeno quante sono le teste che le esprimono. Per questo Gončarov sembra voler fare un passo indietro preferendo tornare al porto sicuro della tradizione piuttosto che affidare la barca alle insidie di una navigazione verso l'ignoto, con il rischio di precipitare da quel burrone richiamato nel titolo e sul filo del quale si articola la trama del libro.
Raysky diventa così nel corso della storia una figura positiva, un uomo con limiti evidenti ma anche un portatore di idee democratiche che non arriva all'integralismo ed agli eccessi di un Volokhov. Il Nuovo sembra essere per Gončarov una via mediana tra Rivoluzione e Restaurazione: apertura alla democrazia e al liberalismo ed ai bisogni del singolo ma nel solco della storia e della cultura russa.

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sabato 7 marzo 2020

La parte inventata – Rodrigo Fresán



Il romanzo ai tempi di Internet

L'Epoca del Grande Disordine (sociale, politico, individuale) ha finalmente trovato il suo degno cantore, o se non altro una delle voci in grado di rappresentarla.
La parte inventata è un libro sorprendente, che incarna alla perfezione la confusione dei nostri tempi e Rodrigo Fresán è un moderno epigono di Macedonio Fernández, nonostante il suo riferimento letterario sia soprattutto nordamericano (e da questo punto di vista l'influenza di John Barth sembra quella preponderante).
La parte inventata è un libro che rappresenta l'evoluzione del romanzo ai tempi di Internet, nonostante l'autore non faccia altro che denigrare e-reader e cultura prêt-à-porter e l'umanità del ventesimo secolo in genere e la scrittura di Fresán ricorda la navigazione in rete, quello che succede quando cercando una notizia si finisce per googlare da un argomento ad un altro. C'è un tema di fondo sul quale si innestano un sacco di divagazioni, ognuna delle quali è il potenziale germe da cui potrebbero nascere altre mille storie.
In una sorta di delirio allucinatorio ci si muove tra meta-letterario (molto, molto meta…) ed ipertestuale, con un alternarsi di cultura pop ed "alta" tra richiami musicali (Bob Dylan, Pink Floyd, i Kinks), filmografici (2001, Odissea nello spazio) e letterari (Burroughs, Updike e soprattutto F.S. Fitzgerald); un delirio dove tutto è metafora e una narrazione nella quale si intersecano digressioni continue e generi letterari diversi, biji, ricordi, interviste, wikipedia...
Impossibile riuscire a seguire tutte le linee della storia: c'è, come detto, la critica ad una società egocentrica, autoreferenziale e superficiale che va di corsa e non sembra più aver tempo per l'approfondimento e la riflessione, c'è una riflessione sui legami e sulla loro rottura, ma soprattutto sulla scrittura, sul ruolo dello scrittore e della letteratura che dovrebbero privilegiare la parte inventata su quella reale.
"La parte inventata che non è, mai, la parte disonesta, anzi, è la parte che trasforma davvero qualcosa che è semplicemente accaduto in qualcosa così come doveva accadere. Qualcosa (tutto quel che verrà, il resto della sua vita, sorgerà da lì e da allora, proprio da questo esatto momento) di molto più autentico e pregiato e puro della semplice e volgare e spesso così poco spiritosa e approssimativa verità."

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