Capitolo secondo
Se una farfalla in Brasile un giorno
Si
parte. Se il fischio che si è levato dall’Highland Monarch poco fa
è stato solo un colpetto di avvertimento, un segnale discreto
buttato là tanto per dire, Cari signori, ci dispiace distogliervi
dalle vostre occupazioni, ma ci corre l’obbligo di avvisarvi che
stiamo per prendere il largo, compensando con il pregio della brevità
il fastidio arrecato ai timpani, ora la situazione è diversa e la
sirena può permettersi di essere finalmente se stessa e fare la voce
grossa senza tentennamenti. E’ il momento degli addii, senza
possibilità di ripensamento, chi c’è c’è e chi non c’è
s’arrangi, come dicono i bambini, la nave va, ed un sibilo vigoroso
è la colonna sonora di tanta partenza. Un fischio lungo e
sgradevole, un concerto monocorde che sovrasta per intensità ogni
altro suono e si dilata a raggiera in cerchi sempre più ampi, fino a
penetrare nella testa delle persone in maniera così decisa da
spiazzare anche i pensieri, e forse è un effetto voluto, che chi ha
il compito di organizzare le partenze sa bene che quasi sempre si
tratterebbe di pensieri tristi.
Come
valorosi soldati impegnati nella strenua difesa del loro fortino
assediato dai nemici, i viaggiatori hanno già occupato le balaustre
lungo il perimetro della nave e dalle loro posizioni scrutano con
attenzione il molo di Alçantara alla ricerca di parenti ed amici. I
più veloci hanno fatto in tempo a posare le valigie nelle cabine a
loro assegnate ed ora si muovono con disinvoltura cercando la
posizione migliore, i più accorti hanno preferito sopportare
l’impaccio di trascinarsi appresso i bagagli ma sono riusciti ad
occupare i posti di poppa, che sono i migliori, con l’esperienza di
quelli cha sanno che a volte vale la pena di fare un piccolo
sacrificio quando si sa che può essere seguito da un grande premio,
e gli indecisi, i lenti, i ritardatari, insomma la maggioranza di
quanti sono saliti sul piroscafo a Lisbona, sono costretti ad
accontentarsi di una scomoda collocazione lungo i ponti laterali, una
scelta obbligata, un ripiego, che da lì è difficile vedere ed
essere visti dalla gente che assiepa la banchina. Chi primo arriva
meglio alloggia, questa è la regola non scritta che vale da sempre
in circostanze come questa, e nessuno stia qui a parlare di
cavalleria, di far spazio alle signore od ai bambini, che su questa
nave di anime belle intenzionate a cedere un posto conquistato a
fatica non se ne vede l’ombra.
Si
parte, e il primo impulso è di precipitarsi in sala macchine per
costringere l’addetto a schiacciare quel maledetto pulsante e far
tacere per sempre la nota malefica. Sembra che ci sia un
compiacimento da parte del transatlantico nel reiterare all’infinito
il suo fischio, quasi a cancellare ogni dubbio sull’importanza del
momento. La sirena dell’Highland Monarch come equivalente sonoro di
una riga nera tirata su un foglio bianco a dividerlo in due con gesto
tanto deciso quanto significativo. Attenzione signori, il suono che
sentite è lo spartiacque fra il prima che avete vissuto ed il dopo
che vi aspetta, quello che è stato è stato, si parte e da ora in
poi l’unica legge a contare sarà quella del piroscafo. E’ un
rumore intollerabile anche per i timpani più allenati, un rumore che
per assurdo potrebbe non finire mai e coprire per sempre ogni altra
voce, cancellando ogni possibilità di relazione, ogni pensiero.
Considerazioni bislacche, figlie della collera, che nascono con la
notte e si dissolvono all’alba, che poi ci si accorge che non è
così, che non è mai morto nessuno per colpa di un rumore e con il
passare del tempo ci si abitua a tutto. Già, a tutto. In fondo se
l’uomo è arrivato fin dove è arrivato non lo deve certo al fatto
di essere una macchina perfetta, ma alle sue capacità di
adattamento. La perfezione non è poi quella gran cosa che
raccontano, è anzi un limite, che incatena ed impedisce di crescere
ulteriormente, la duttilità è il segreto, l’attitudine a cambiare
con il mutare delle situazioni. E’ sempre stato così, anche in
natura e la storia dell’evoluzione è lì davanti testimoniarlo.
L’animale che non riusciva a stare dietro alle situazioni
climatiche ed ambientali era destinato a soccombere e ad estinguersi,
quello che ci riusciva poteva sopravvivere ed andare avanti, almeno
sino al mutamento successivo. Certo, se spostiamo il discorso dalla
natura al campo sociale le cose cambiano, e non poco, che quando un
animale per salvarsi cambia pelle lo consideriamo in maniera
positiva, ma se a cambiar pelle per riuscire a stare a galla nelle
situazioni della vita è un uomo lo giudicheremo, ben che vada, un
opportunista, ma si sa come vanno le cose, quello che è buono in un
ambito non è detto che lo sia anche in un altro. E comunque questo è
un altro discorso, che quello che vogliamo dire è che non sarà
certo un suono, per quanto molesto, a cancellare il pensieri dalla
testa delle persone imbarcate sull’Highland Monarch. E se fossimo
di quelli abituati a vedere il bicchiere mezzo pieno, ed a trovare un
lato positivo in ogni cosa, aggiungeremo qui che anche il baccano, in
fondo, può risultare utile, non fosse altro per coprire i pianti e
le grida della gente accalcata sul molo e sulla nave. Accontentiamoci
del male minore, come si dice in questi casi, e giacché non è
possibile sottrarci alla visione dei fiumi di lacrime che solcano i
volti di chi va e di chi resta, ringraziamo la sirena che ci fa la
grazia di non ascoltare il sonoro di questo spettacolo.
L’aver
trovato qualcosa di positivo in mezzo a questo girone dantesco ci ha
messo di buon umore, così che la vista di un rubizzo signore di
mezza età, con i radi capelli grigi spettinati dalla confusione, in
equilibrio malfermo sopra una pila di valige, intento a scandagliare
con sguardo serio il molo tenendo la mano destra sulla fronte come
fosse una sentinella di una delle caravelle di Colombo pronta ad
urlare Terra, Terra a squarciagola, ci suscita una risata che a
stento riusciamo trattenere. Scusateci tanto ma quella mano a cosa
serve, ci chiediamo, che in questo momento il porto è avvolto da una
cappa di nebbia e di sole che possa offuscare la vista non c’è n’è
la minima traccia. Non sembri irriguardoso nei confronti di questa
gente, che sappiamo bene quanto struggente è il momento, ma la
cerimonia della partenza oltre a celebrare il distacco, con tutto il
carico di angoscia e disperazione che questo implica, porta con se
anche più di un aspetto comico. E’ un po’ come quando si assiste
ad un funerale nel quale, nonostante la gravità del momento, non
riusciamo a sentirci coinvolti più di tanto, è fatale che
l’attenzione dopo un po’ cali ed a volte si finisca per buttare
l’occhio su episodi che per pudore ci limiteremo a definire
imbarazzanti, ma che isolati dal contesto sembrerebbero francamente
ridicoli. Alzi la mano chi non ha mai dovuto trattenere non dico una
grassa risata ma almeno un mezzo sorriso ad un funerale, chi non ha
dovuto mordersi la lingua o girarsi dall’altra parte o costringere
i suoi pensieri a prendere un’altra strada per non tradire un
improvviso moto di ilarità. E’ una cosa normale, non è
cattiveria, né mancanza di rispetto, probabilmente è un modo come
un altro per esorcizzare le paure, un tentativo di prendere le
distanze e sconfiggere l’angoscia. Mettiamola così, a volte si
ride per non piangere, e se qualcuno ha ancora dei dubbi gli
ricorderemo qui che le barzellette sui funerali non le abbiamo di
certo inventate noi. Insomma, sarà per colpa della distanza, che è
notevole, sarà per via della nebbia, che avanza senza sosta,
aggiungiamoci pure che anche l’emozione fa il suo nel giocare
brutti scherzi, ma come non ridere del fatto che i saluti che si
levano di qua e quelli che si levano di là non vadano proprio a buon
fine ma anzi si incrocino in maniera bizzarra. Non è colpa nostra,
ad esempio, se quella donna con il vestito a fiori che vediamo sul
molo mentre con la mano sinistra si tiene il petto e con la destra
agita un fazzoletto all’indirizzo della nave, credendo di
riconoscere nella mano che si sbraccia da uno dei parapetti il
proprio figlio, sta in realtà salutando un perfetto sconosciuto,
mentre il figlio prediletto, con il cuore in gola per l’emozione,
sta dirigendo i suoi baci in direzione di una signora che in comune
con la madre ha solo la chioma candida. Ma in fondo cosa importa, che
siamo tutti fratelli e sorelle, e l’emozione della partenza è la
somma di tutto quello che ci portiamo dentro e non fa molta
differenza a chi la comunichiamo. E si vede che quello di salutare la
gente sbagliata è uno sport che riscuote un discreto successo sul
molo di Alçantara, almeno a giudicare dal comportamento del padre
della ragazza esile dal collo lungo e sottile, che sembra impegnato a
rivolgere i suoi saluti in una direzione che è quella opposta a
quella che occupa la figlia sulla nave, ed il fatto di essere in
buona compagnia in questa sorta di inganno collettivo non è certo di
alcun conforto. Lo vediamo sorridente, mentre agita la mano e poi si
china verso una signora al suo fianco, le passa un braccio sulla
spalla e con l’altro indica un punto imprecisato della fiancata
dell’Highland Monarch, al che la signora abbozza un sorriso muove a
sua volta la mano, seppur con meno vigore. E come noi lo vede anche
la signorina in questione, e pur accorgendosi che il padre non sta
salutando lei ma chissà chi, non si scompone più di tanto e
soprattutto non si sottrae al rito collettivo dei saluti, ma adempie
al compito che il momento richiede in maniera quasi distaccata, come
se fosse un dovere da espletare prima possibile. Composta e misurata
guarda in direzione del genitore increspando le labbra in un mezzo
sorriso, un sorriso che è d’affetto, di comprensione e di
ineluttabilità insieme, ed anche, ma sì, diciamolo, di delusione,
poi alza appena la mano destra movendola leggermente in direzione del
molo, una cosa di pochi secondi, che poi la abbassa per
ricongiungerla alla sinistra che era rimasta abbandonata lungo il
corpo. Come una mandria di animali selvatici che odora l’aria per
annusare eventuali pericoli, la folla schiacciata contro la balaustra
sembra aver riconosciuto la signorina come altro da sé, per questo
se ne tiene prudentemente discosta, ma se gli animali usano l’olfatto
per avvertire la presenza del più piccolo cambiamento nell’ambiente
intorno a loro, la massa, che non è dotata della stessa abilità, è
costretta ad accontentarsi di interpretare altri segnali, come il
portamento austero, quasi rigido, della ragazza che incute deferenza
in chi la osserva, ed il suo sguardo attento, fisso verso un punto
lontano, che sembra isolarla dalla scena e renderla inavvicinabile
come una principessa richiusa in una torre.
E
giacché abbiamo iniziato questo racconto leggendo nella mente della
gente, ci piacerà continuare ancora un po’ il nostro gioco.
Abbandonato l’uomo con il monocolo al suo destino, sono i pensieri
della ragazza quelli che ci interessano ora, pensieri che però ci
dicono poco, che è difficile entrare nella vita di qualcuno in un
punto scelto a caso e credere di poter capire tutto quello che è
successo prima, ci limiteremo così a registrarne le riflessioni
senza affannarci a cercare di capire ogni parola, sperando che quello
che non ci è chiaro adesso lo possa diventare con il seguito della
storia.
Se
la mamma non fosse morta, pensa la signorina esile dal collo lungo e
sottile, se questo cuore dispettoso non avesse improvvisamente
iniziato a darmi dei problemi, se papà non avesse rovinato tutto
innamorandosi di quella donna, se quel dottore venuto da Rio non
fosse sparito nel nulla, se cinque mesi fa non fosse mancata anche la
nonna, se i medici di Coimbra avessero badato ai fatti loro invece di
dare consigli sciagurati a papà credendo di aiutarmi, se i miei zii
brasiliani non fossero stati per una volta così generosi, se questa
mano. Ferma, ferma. Tanti se, troppi. Un fiume di se che tracima in
ogni direzione e che ci trova impreparati, che non immaginavamo certo
di scoprire così tante cose quando abbiamo deciso di dare
un’occhiata dentro alla testa di questa signorina. Chiediamo venia,
ci dispiace aver curiosato con animo leggero nei pensieri di una
ragazza così afflitta, una persona come questa merita tutta la
nostra comprensione e non possiamo far altro che scusarci per la
nostra indelicatezza e dirci dispiaciuti per le disgrazie di cui si
lamenta, anche se al momento non siamo in grado di comprenderle
tutte. Ma la storia della ragazza dal collo lungo e sottile è solo
una fra le più di mille che potremo sentire su questa nave, che i
suoi se sono i se dell’altra gente che si è appena imbarcata,
magari non proprio i soliti, ma equivalenti. Se Hitler e Mussolini
non avessero creato l’Asse, sta pensando ad esempio quel signore
con barba e baffi, là in fondo. Se la guerra civile non avesse
incendiato la Spagna, è il tarlo che abita nella testa di quella
coppia con due bambini che sembrano gemelli e che sta piangendo
mentre si abbraccia, se Salazar non avesse appoggiato i nazionalisti
rischiando di trascinarci tutti in un conflitto che rischia di
incendiare l’Europa e non solo, è la considerazione di quel
giovane che abbiamo appena visto salutare una signora dai capelli
bianchi come se fosse sua madre, ma che sua madre non è. Se, se, se.
Se che ne incrociano altri come persone che si incontrano al centro
di una piazza. Se i venti di crisi non mi avessero spinto ad emigrare
per cercare fortuna in Argentina, pensa più d’uno dei ragazzi che
viaggiano in terza classe, se il mio amore non mi avesse abbandonato
ad un mese dalle nozze, è il pensiero di quel bel giovane con i
baffi all’insù che ha scelto il nuovo continente per rifarsi una
vita, ma è anche, strano a dirsi, lo stesso pensiero di quella
sartina che si asciuga il sudore dalla fronte seduta sulle valige e
che dire bella proprio non si può, la quale sta viaggiando verso il
Sud America per un altro matrimonio, che i suoi genitori hanno
combinato con un uomo che lei neppure conosce e che speriamo per lei
possa essere più fortunato di quello che ha visto sfumare ai piedi
dell’altare. Visto che ci troviamo ad assistere ad un’esposizione
di se altrui, non ci sarà niente di male se ci permettiamo di
aggiungerne qualcuno di tasca nostra. Se M. T. non avesse affidato il
suo messaggio d’amore alle acque del Tamigi ma l’avesse
consegnata direttamente a G. S., è la prima cosa che ci viene in
mente, e subito dopo, se non avessimo letto Saramago, e se Saramago
non avesse letto Pessoa, e se Pessoa. Ma ora basta, è meglio finirla
qui, che a forza di andare a ritroso rischiamo di arrivare a Adamo ed
Eva.
In
fondo di se come questi è lastricata la strada della vita. Sono i
figli di quei bivi che si presentarono un giorno sul nostro cammino,
i nipotini di quegli aut aut davanti ai quali siamo stati chiamati un
tempo a fare una scelta piuttosto che un’altra e che poi, a
distanza di tempo, ci si ripropongono sotto forma di rimpianto, di
rimorso, di dubbio postumo, in una parola sotto forma di se. E che
senso può avere rammaricarsi per aver preso una strada piuttosto che
un’altra tanto tempo prima, quando succede che spesso la nostra
scelta non è stata fatta consapevolmente, che con molta onestà
dovremo ammettere di esserci affidati in più di un’occasione alla
sorte e con la stessa onestà sarà bene riconoscere anche che a
volte non ci siamo neppure resi conto di essere ad un crocevia ed
altre ancora abbiamo preferito lavarcene le mani, non operando alcuna
scelta, demandando questo compito ad altri. Siamo fin patetici quando
ci pavoneggiamo da decisionisti ed andiamo così fieri delle nostre
capacità da sembrare più alti di una spanna. Ma chi crediamo di
prendere in giro, che la sicurezza che esibiamo è solo un tentativo
di darci coraggio, di farci guardare avanti e ricacciare i dubbi
nelle profondità del nostro animo. Quando operiamo una scelta, non
potremo mai essere sicuri che sia quella giusta, non c’è una
formula matematica per sapere cosa è meglio in ogni circostanza, il
tempo è un giudice che lavora con calma. C’è chi prende le sue
decisioni seguendo l’istinto, chi segue il cuore, chi la ragione,
chi si fida degli altri, chi tira ad indovinare. Tutti sistemi validi
e sbagliati allo stesso tempo, che possono funzionare o no, che
magari per un po’ vanno bene e poi si dimostrano inadeguati al
bivio successivo, chi può dirlo. Quello che possiamo dire è com’è
fatta la vigilia di una scelta, quanti dubbi, incertezze e
ripensamenti la abitano. Un’aria pesante e viziata, una cappa
fumosa che svanisce per incanto una volta che la decisione è stata
presa, sotto energici colpi di ramazza che portano a galla una strana
euforia, un’atmosfera quasi di festa, come se fosse necessario
celebrare la fine del dubbio con un senso di sollievo, per andare
incontro alle conseguenze della nostra scelta con animo più leggero.
La
vita è come una partita a scacchi che si gioca contro il destino, su
un campo di dimensioni enormi. Non sappiamo quanti pezzi abbiamo a
disposizione e neppure come muoverli esattamente, è un gioco che
impariamo un po’ per volta, man mano che lo giochiamo. Nonostante
la nostra autostima possa essere più o meno grande, per quanti
sforzi facciamo per convincerci di aver valutato le cose sotto tutti
i punti di vista, ogni pezzo che muoviamo è spinto unicamente dal
buonsenso, che non è possibile prevedere lo svolgimento che il gioco
prenderà poco più avanti, è un calcolo troppo complicato, anche
per le menti più allenate. Inutile atteggiarsi a strateghi, quello
che facciamo è contentarci di scelte semplici, simili in questo ad
un uomo che avanza movendosi con passo traballante nel buio, tendendo
la mano in avanti in modo da accorgersi prima di un possibile
pericolo. Quando facciamo una mossa un po’ diversa dal solito, il
più delle volte non seguiamo un piano preciso, ma bluffiamo
spudoratamente, animati dal piacere del rischio, con l’unico scopo
di buttare un sasso in fondo ad un pozzo per vedere quanto è
profondo. Ad ogni nostra mossa il destino risponde con una mossa
analoga e a volte, quando i suoi pezzi sono vicini a noi, ci è
possibile comprendere i motivi che l’hanno ispirata, ma quando i
pezzi che il destino muove sono lontani dai nostri occhi la questione
si complica non poco, che sappiamo che il nostro avversario ha fatto
una mossa ma non quale, forse ce ne renderemo conto più avanti,
forse sta accumulando truppe sul nostro lato più debole in
previsione di un attacco, forse si sta solo difendendo. Non è facile
capire le mosse del destino, anzi, a volte è proprio impossibile,
considerando che ce la mettiamo già tutta solo per dare un senso a
quelle che facciamo noi, e badare troppo ai movimenti dell’avversario
rischierebbe di farci perdere la concentrazione sui nostri pezzi. In
mezzo a tanti dubbi, di una cosa sola siamo certi, che la partita
deve essere giocata. Non ci possiamo sottrarre al nostro ruolo, le
regole che ancora non conosciamo le impareremo via via, sulla nostra
pelle, si tratta di far tesoro dei nostri errori, ma non solo, che
sarebbe anche troppo facile, in realtà è bene che ci abituiamo alla
svelta all’idea che questo gioco ha una componente di
imponderabilità dalla quale non si può prescindere. Troppe
variabili, troppi fattori da considerare. Ogni volta che un pezzo
cambia posizione sulla scacchiera, è tutto lo scenario che muta,
strategie che sembravano ben avviate muoiono in un baleno e nel mare
delle possibilità si schiudono mille sviluppi futuri, destinati a
loro volta ad irrobustirsi od a naufragare con la mossa successiva.
E’ bene non innamorarsi troppo di un progetto o di un’idea, che
rischiano di essere spazzati via nello spazio di due mosse, questa è
una delle lezioni che la partita ci impartisce. E per richiamare
bruscamente alla realtà i languidi sognatori che inseguono chimere,
sarà bene chiarire ancora una cosa a proposito di questa sfida, che
non c’è nessun mistero, nessun dubbio sull’esito. Si sa in
partenza chi vince. Vince sempre il destino, è scritto. Noi possiamo
solo accontentarci di giocare la nostra partita e cercare di
impegnarlo il più a lungo possibile.
Messa
così la cosa è meno triste di quanto si possa pensare, che il fatto
di non dover portare a casa il risultato finale ci permette di
giocare la nostra partita senza assilli. E se anche la gente che
affolla le balconate dell’Highland Monarch cominciasse a ragionare
in questa maniera e la smettesse di cercare di dare un senso a tutti
i se che l’angustiano, avrebbe di che guadagnarne in serenità. A
volte è necessario sottrarsi alla logica della causalità ed
arrendersi all’idea che esistano anche fenomeni che non sono
spiegabili, almeno non ancora. E’ la scienza a dirci questo, che
non tutti i sistemi sono lineari, e non sempre ad una piccola
variazione dello stato iniziale corrisponde una variazione egualmente
piccola dello stato finale. Se così fosse, se potessimo mettere in
fila catene di eventi legati dal rapporto causa-effetto, potremmo
spiegare praticamente tutto, fino al punto di prevedere una tromba
d’aria in Texas dal battito d’ali di una farfalla in Brasile,
come diceva Edward Lorenz. Per fortuna non è così, per fortuna ci
sono anche i sistemi non lineari, quelli dove ad un cambiamento
infinitesimale all’inizio può corrispondere uno scarto enorme alla
fine o viceversa, o comunque quei sistemi dove data una variazione
iniziale non è possibile prevedere quello che succederà in seguito.
In fondo è bello sapere che l’uomo non ha ancora scoperto tutte le
leggi della natura. Dover ammettere che il nostro destino non è
tutto nelle nostre mani ma anche, e soprattutto, in quelle del Fato,
ci fa sentire più fiduciosi. Magari perché riponiamo maggior
fiducia nella sorte che negli uomini, ma questo è un discorso che
riguarda solo noi.