Seconda opera di Dostoevskij e prima bocciatura da parte di pubblico e critica. Ci sta.
Un insuccesso è da mettere in conto, soprattutto se all'età di venticinque anni decidi di addentrarti nei territori dell'autocoscienza, di calarti negli abissi dell'Io senza l'ausilio di una mappa, senza sapere di preciso cosa rischi di trovare.
Sì perché il sosia è del 1846 e Freud cominciò a pubblicare poco prima del 1900... Diciamo che Dostoevskij era leggermente in anticipo sui tempi (a volte capita ai geni): logico che potesse non essere compreso da lettori che si attendevano un romanzo che affrontasse il tema del “gemello identico” nella maniera classica, buttandola in parodia.
Niente di più lontano dalle intenzioni dell'autore, invece. Che come scriveva in una lettera al fratello, considerava il sosia come una sorta di confessione, intesa come “scavo interiore” del protagonista. Protagonista che altro non è che un vigliacco che cerca di giustificare i suoi comportamenti, dicendo di non dipendere da nessuno mentre nei fatti pensa ed agisce in conseguenza di quelli che ritiene siano i pensieri e le azioni degli altri.
Questa è la breccia da dove origina il dramma di Jakov Petrovič Goljadkin, la linea di frattura nella quale Dostoevskij decide di piantare chiodi e picchetti e poi calarsi nelle profondità della personalità del protagonista: Goljadkin afferma di non avere bisogno dell'altro mentre in realtà non ne può fare a meno, per questo finirà per costruirsi un “altro” se stesso col quale si confronterà.
La presenza di questo “altro” non si materializza da subito, ma aleggia nei monologhi del protagonista (in realtà dialoghi di Goljadkin con se stesso) e solo successivamente sfocia nella nascita del sosia, del secondo Jakov Petrovič. Dostoevskij è così concentrato sul viaggio interiore del suo personaggio, da lasciare volutamente sullo sfondo le vicende del racconto. Utilizza la trama più che altro come “quinta”, utile a delimitare lo spazio scenico o poco più, perché quello a cui siamo chiamati ad assistere è uno “one man show” e tutto il resto potrebbe creare solo disturbo.
Quando compare sulla scena il sosia, i suoi primi passi ci mostrano un personaggio piuttosto impacciato, una creatura in difficoltà, una copia insicura che sembra affidarsi ai consigli dell'”originale”. Impressione fallace, perché rapidamente la copia finirà per affrancarsi dal suo creatore, a differenza del quale dimostrerà di sapersi muovere più che bene nel contesto rappresentato dagli altri, con la logica conseguenza di finire in piena rotta di collisione con Goljadkin. Situazione che destabilizzerà definitivamente il povero protagonista.
Da demiurgo a comprimario, da primo attore a comparsa, senza neppure comprendere quello che sta succedendo.
Ai moti di scherno ed ai gesti di ribellione del sosia, Jakov Petrovič reagirà sulle prime con irritazione, ma poi cercherà sempre di ricomporre lo strappo, quasi intuendo che se non riuscirà a ricucire la frattura ciò sarà foriero di sventure più grandi. E questo è esattamente quello che succederà perché l'impossibilità di governare la sua creatura non farà altro che far crescere a dismisura il dispiacere di Goljadkin fino a sfociare nel dramma: una moltiplicazione incontrollata di sosia, come se la coscienza del protagonista alzasse bandiera bianca prima di esplodere frammentandosi in milioni di pezzi.