sabato 9 maggio 2015

La parola ponte


Il ponte

Tra adesso e adesso,
tra io sono e tu sei,
la parola ponte.
Entri in te stessa
quando entri in lei:
il mondo si chiude
come un anello.
Da una sponda all'altra
sempre si stende un corpo,
un arcobaleno.

Sotto i suoi archi dormirò

[Octavio Paz]

venerdì 1 maggio 2015

Ben Lerner – Nel mondo a venire


Guarda, mamma: senza mani!

Romanzo complicato Nel mondo a venire, che parla di costruzione, decostruzione e ricostruzione della realtà, con il protagonista costantemente impegnato a verificare la sua capacità propriocettiva alla prova dei mutamenti del tempo. Tanta roba.
E complicata pure la trama. Forzando un po' (tanto) le cose, potrei riassumerla dicendo che Lerner ha scritto un libro che parla di uno scrittore che sta scrivendo un libro che parla di uno scrittore che sta scrivendo... Un gioco di specchi decisamente pericoloso (e Borges, si sa, diffidava degli specchi).
Anche per quanto riguarda la scrittura le cose sembrerebbero tutt'altro che semplici: Nel mondo a venire è un romanzo, o meglio un metaromanzo postmoderno, che contiene anche un poemetto whitmaniano, un racconto per il New Yorker, alcune illustrazioni e una specie di novella sui dinosauri scritta per e con un bambino.
Ispirazioni? Abbastanza numerose. A occhio direi tutto quello che c'è in mezzo tra John Barth e David Foster Wallace, compresi Delillo, Eggers, Lethem e chissà quanti altri. Leggendo in rete vedo che qualcuno aggiunge alla serie anche Roth, l'immancabile Proust e il tanto alla moda Knausgaard e se non bastassero questi nomi, è lo stesso Lerner che si preoccupa di rimpolpare la compagnia delle sue fonti di ispirazioni inserendo anche Thomas Bernhard e Winfred Sebald, con il risultato che alla fine non capisco più chi sia questo Zelig-Lerner, se abbia una personalità propria o se la sua cifra sia la somma di altri autori.
In perfetta linea con tanta complessità è anche il contenuto del libro, che definirei "eccentrico" (non nel senso di stravagante, ma perché scappa in tutte le direzioni): dentro Nel mondo a venire c'è di tutto, dalle riflessioni sull'arte contemporanea ai party con droga, paura della malattia, consumismo, volontariato, politica, cinema, minoranze etniche, psicosi, installazioni artistiche... con un'alternarsi di riflessioni colte e cultura pop (highbrow/lowbrow, per quelli che se la tirano...) che sa molto di artificioso.
Il fatto è che tutta questa complessità non è disturbante di per sé, anzi, potrebbe essere anche stimolante se fosse asservita a un'idea forte che purtroppo (per me) non vedo. "Nell'altro mondo [...] tutto sarà com'è ora, solo un po' diverso", recita l'epigrafe del libro, concetto che Lerner ripete più volte come un mantra per tutto il romanzo. Sinceramente mi sembra un po' poco per giustificare il patchwork che l'autore ci ha costruito intorno, senza contare che già qualche annetto prima Eraclito diceva qualcosa di simile ("non si può discendere due volte nello stesso fiume...").
In conclusione: un libro ben scritto all'interno del quale c'è tutto e tutto è tanto. Forse troppo.

Esagero? Può darsi, ma ha cominciato lui.

sabato 18 aprile 2015

Marco Missiroli – Atti osceni in luogo privato


Innocenti evasioni 

Un "libretto" senza infamia e senza lode. Una lettura veloce, da sala d'aspetto o da viaggio in treno, una storiella "carina" in bello stile che scivola via leggera, senza nemmeno provare a scalfire la superficie. 
"Romanzetto" di formazione che vede il protagonista passare attraverso complicate dinamiche familiari, separazione dei genitori, morte del padre e altre piccolezze senza neppure spettinarsi l'anima, con l'attenzione rivolta solo al suo ombelico (o, per meglio dire, un palmo più in basso). 
Un sacco di citazioni di film e canzoni per contestualizzare gli avvenimenti, ma soprattutto di libri e scrittori. Da Camus a Hemingway, da Carver alla Duras, passando per Maugham, Kundera, Faulkner, un cameo di Sartre e qualche altro migliaio di altri autori: tutti "giusti" e accumulati uno sull'altro senza uno scopo particolare se non quello di far procedere la trama. 
Un ritmo monocorde scandisce i pochi accadimenti senza intaccare mai l'imperturbabilità dei personaggi che si prendono e si mollano senza che ciò provochi conflitti, discussioni o turbamenti di sorta. Unici ingredienti: un po' di sesso, per tenere sveglio il lettore e un uso bilanciato di zucchero e stronzaggine, abbondando poi di miele e sentimentalismo grossolano man mano che il "libretto" volge verso la fine. 

Inutile tirarla per le lunghe. Per riassumere il tutto in una battuta, la metterei così: se in un libro non cercate niente di particolare, ecco, state certi che tra queste pagine lo troverete.

domenica 12 aprile 2015

David Foster Wallace – Tennis, Tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più.


Non ci proverò nemmeno.
A mettermi qui a spiegare il perché e il percome considero DFW un genio e compagnia bella.
Il fatto è che sono di parte, credente e praticante, adepto ultra-ortodosso di rito davidfosterwallaciano. La fede trascende la ragione, è cosa nota, e questo mi impedisce di giudicare in maniera imparziale. Non ne sono capace e questo è tutto.
Mi abbevero alla fonte, ascolto la parola. A volte comprendo, altre, credo di comprendere, altre ancora fingo. Non è fondamentale, non sempre, non per me. Il fatto è che di questa parola io ne ho bisogno, sento che è importante (già, la dipendenza).
Ho bisogno del pensiero complesso (non contorto) di DFW, capace di posarsi su un oggetto qualsiasi e tirarne fuori un mondo, osservandolo attraverso la lente del microscopio, sezionandolo come un entomologo, portando alla luce connessioni di ogni sorta.
Ho bisogno della sua scrittura "pollockiana", che sembra sempre sul punto di tracimare, che invade la pagina procedendo per accumulazioni, strati di parole, sgocciolature, riuscendo però a mantenere un rigore formale, ordine nel disordine.
Ho bisogno dei suoi aggettivi precisi, delle sue definizioni folgoranti, del suo vocabolario sontuoso.
Ho bisogno della sua capacità di volare alto ma anche di aggirarsi senza paura tra le umane miserie e perversioni, di saper divertire ma anche commuovere e far riflettere.
Ho bisogno delle sue trame intricate, del piacere di misurarmi con le traiettorie dei suoi ragionamenti, di perdermi, ritrovarmi e poi perdermi di nuovo tra le sue pagine.
Ho bisogno della sua personalità strabordante, del suo sguardo curioso, della sua umiltà, della sua profondità di analisi, della sua onestà intellettuale, della sua pietas.

sabato 4 aprile 2015

Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio cose…


Le strade che percorrevano, i valori ai quali si aprivano, le loro prospettive, i loro desideri, le loro ambizioni, tutto ciò, è vero, procurava loro talvolta un disperante senso di vuoto. Non conoscevano nulla che non fosse fragile o confuso. Eppure era la loro vita, era la fonte di ignote esaltazioni, più che inebrianti, era qualcosa d’immensamente, d’intensamente aperto.
[...] Visitarono i grandi magazzini, per ore intere, meravigliati e già sgomenti, ma senza ancora osare confessarselo, senza ancora osare guardare in faccia quella specie di meschino accanimento che stava per diventare il loro destino, la loro ragion d’essere, la loro parola d’ordine, meravigliati e quasi sommersi già dalla vastità dei loro bisogni, dalle ricchezze esibite, dall'abbondanza offerta.
[...] Nel loro ambiente, era quasi una regola desiderare sempre più di quanto fosse consentito acquistare. Non erano stati loro a deciderlo: era una legge della civiltà, un dato di fatto del quale la pubblicità in generale, le riviste, l’arte delle vetrine, lo spettacolo della strada, e perfino, sotto un certo aspetto, il complesso della produzione comunemente denominata culturale, erano le espressioni più conformi.
[...] amavano tutto ciò che negava la cucina ed esaltava l’apparato. Prediligevano l’abbondanza e la ricchezza apparenti; rifiutavano la lenta elaborazione che trasforma in pietanze prodotti ingrati
[...] si sentivano i padroni del mondo. Provavano un’esaltazione sconosciuta, come se fossero stati detentori di favolosi segreti, di forze inesprimibili.
[...] Ma, in quei momenti in cui si lasciavano trasportare da un piatto sentimento di calma, di eternità, che nessuna tensione turbava, in cui tutto era in equilibrio, deliziosamente lento, la forza stessa di quelle gioie esaltava tutto quel che c’era in esse di effimero e di fragile. Non ci voleva granché perché tutto crollasse: la minima stonatura, un semplice momento di esitazione, un segno un po’ troppo grossolano, bastava a smembrare la loro felicità; essa ridiventava quel che non aveva mai cessato di essere: una specie di contratto, qualcosa che avevano acquistato, qualcosa di fragile e di patetico, un semplice istante di tregua che li rimandava con violenza a quanto c’era di più pericoloso, di più incerto nella loro esistenza e nella loro storia.
[...] L’impazienza, si dissero Jérome e Sylvie, è una virtù del ventesimo secolo. A vent'anni, quando ebbero visto, o creduto di vedere, quel che la vita poteva essere, la somma di felicità che celava, le infinite conquiste che permetteva, eccetera, seppero che non avrebbero avuto la forza di aspettare. Potevano, proprio come gli altri, arrivare; ma loro volevano soltanto essere già arrivati.
[...] Tutto infatti dava loro torto, e in primo luogo la vita stessa. Volevano godere la vita, ma, ovunque intorno ad essi, il godimento si confondeva con la proprietà. Volevano restare disponibili, e quasi innocenti, ma gli anni intanto passavano, e non ne ricevevano nulla.
[...] Gettavano sul mondo uno sguardo torbido, e la lucidità cui facevano appello si univa di frequente a incerte oscillazioni, ad accomodamenti ambigui e a svariate considerazioni, che temperavano, minimizzavano o addirittura svalutavano una buona volontà peraltro evidente. Pareva loro che questa fosse una strada, o un’assenza di strada che li definiva perfettamente, e non soltanto essi, ma tutti i loro coetanei. Precedenti generazioni, si dicevano a volte, avevano certo potuto raggiungere una più precisa consapevolezza di se stesse e del mondo che abitavano.

[Georges Perec: "Le cose"]