sabato 15 agosto 2015

Per Olov Enquist – Il libro delle parabole


Difficile appiccicare un'etichetta a questo libro: non è un romanzo, non sono racconti e nemmeno apologhi, forse pensieri sparsi, frammenti. Parabole. 
Parabole per orientarsi nella nebbia della vita, per provare a capire perché si è vissuto, cercando di mettere un po' d'ordine in quello che è successo pur sapendo che è impossibile ricostruire quello che manca. In questo senso i nove fogli strappati al taccuino del padre rappresentano il punto d'inizio di una ricerca che appare da subito difficile per non dire impossibile: il senso della vita è nel taccuino? Oppure la soluzione consiste nel cercare, consapevoli che non si arriverà mai a comprendere il mistero? E le nove parabole, rappresentano il tentativo dell'autore di riscrivere le nove pagine mancanti al taccuino del padre? 
Il libro delle parabole è un libro, soprattutto, sull'Amore, al posto di quel romanzo sull'amore che Enquist confessa di non esser mai riuscito a scrivere. Amore e memoria, dunque, con i ricordi che si confondono, si mescolano alle fantasie e diventano altro.
Un'infanzia permeata dalla cupa cupa visione della fede inculcatagli dalla madre porterà Enquist a identificare l'amore (ma anche la poesia, la fantasia e i sogni) con il peccato, visione dalla quale faticherà ad affrancarsi continuando per un bel pezzo a identificarlo con l'idea di proibito, di possesso, di una specie di apostasia. La conversione della zia all'amore terreno, contrapposto a quello celeste, farà nascere in Enquist i primi dubbi che esploderanno poi nell'episodio della donna sul pavimento senza nodi, la parabola che rappresenta il centro nevralgico dell'intero libro. 
La scoperta del sesso, l'amore contrapposto alla fede, l'amore ineluttabile, che può far paura al punto da spingere alla fuga ma dal quale non ci si può liberare, l'amore come illuminazione, scoperta di un'intimità condivisa che permette di lasciar cadere le difese e di abbandonarsi all'altro, l'amore come luogo intimo da difendere e ricordare, la cui forza non si può comprendere fino in fondo eppure si deve provare a farlo. L'amore che illumina le nebbie della vita, amore totale, incondizionato, che non lega ma anzi lascia liberi, talmente grande e sacro da poter dire che forse Dio e Amore sono la stessa cosa.

sabato 8 agosto 2015

Ian McEwan – Espiazione



It's not my cup of tea

L’alta ombra fresca del bosco le fu di sollievo, l’intrico scultoreo dei tronchi le parve incantevole. Superato il cancelletto di ferro, e la siepe di rododendri, attraversò il prato aperto - venduto a un allevatore locale come terra da pascolo - per risalire alle spalle della fontana con il suo muro di sostegno e la riproduzione in scala del Tritone del Bernini il cui originale era a Roma in piazza Barberini. La figura muscolosa, accomodata sulla conchiglia, riusciva a schizzare un getto alto pochi centimetri appena, la pressione era troppo bassa, e l’acqua ricadeva sulla testa della statua, colando sulla chioma di pietra e lungo il solco della possente spina dorsale su cui lasciava una lucida chiazza verde scuro. In questo ostile clima settentrionale, il Tritone era molto lontano da Roma, ma rimaneva bellissimo nella luce chiara del mattino, come del resto erano belli i quattro delfini che sostenevano la conca lambita dai flutti su cui riposava. Cecilia osservò le improbabili scaglie sul dorso dei delfini e sulle cosce del Tritone, prima di volgersi verso la casa.”

Ecco cosa intendo. Una scrittura lenta, ampollosa, pesante e manierata. Periodi lunghi, descrizioni particolareggiate ed eccessive che per quanto possano essere eleganti e raffinate non mi invogliano nemmeno un po'. Esagero? Vedete un po' voi:

Entrò, attraversò di fretta l’ingresso a piastrelle bianche e nere - com’era familiare il suono dei suoi passi, com'era irritante - e fece una sosta per prendere fiato sulla soglia del salone. Gocciolandole acqua fredda sui piedi calzati di sandali, il mazzo sparso di epilobi e iris le restituì uno stato d’animo un poco più allegro. Il vaso che stava cercando era su un tavolo in ciliegio accanto alla porta finestra socchiusa. A causa dell’esposizione a sud-est della stanza, alcuni parallelogrammi dorati di luce mattutina avanzavano sul tappeto blu polvere. Il respiro di Cecilia si fece più calmo mentre aumentava il suo desiderio di una sigaretta. Esitò un istante sulla porta, momentaneamente immobilizzata dalla perfezione della scena, e restò lì, accanto ai tre divani sbiaditi disposti intorno al camino gotico quasi nuovo con la sua riserva di falaschi invernali, vicino al clavicembalo stonato che nessuno suonava e agli inutili leggii in palissandro, ai tendoni in velluto, morbidamente raccolti da un cordone intrecciato arancio e blu, a incorniciare un cielo vuoto di nuvole e la terrazza a chiazze gialle e grigie tra le cui lastre di pietra crescevano camomilla e partenio.”

Ok, la smetto. È che tutto questo grondare di aggettivi, l'attenzione maniacale ai dettagli unita a un evidente sfoggio di erudizione, sanno un po' troppo di narcisismo, di auto-compiacimento. Ed è un peccato.
Perché il mestiere c'è e si vede tutto: i personaggi sono tratteggiati attraverso i loro comportamenti, ognuno è ben caratterizzato sin da subito. È interessante, ad esempio, come la piccola Briony osservi quello che succede intorno a lei e lo interpreti (fraintendendo spesso) attraverso le lenti del suo ricchissimo mondo interiore, preparando il terreno per quello che sarà il dramma successivo. Purtroppo l'eccessivo controllo dell'azione e il continuo lavoro di cesello dell'autore saranno magari utili a produrre pagine godibili di bello stile, ma tolgono – a mio avviso – emotività al racconto, che finisce per essere molto “cerebrale”, frenato, povero di passione, per cui fatico a provare empatia per i protagonisti della storia.
Mi sembra di notare anche una certa discontinuità nel ritmo della narrazione: ad una prima parte che si presenta – come detto – lenta e descrittiva, ne segue una seconda sorprendentemente scorrevole e avvincente (quella che racconta le vicende di guerra), ad essa però ne segue una terza che inizia con una stucchevole descrizione della vita di Briony come infermiera e poi si riaccende improvvisamente con un finale che chiude (anche troppo rapidamente) tutte le parentesi che erano rimaste aperte.
Peccato, perché anche la conclusione presenta un mescolarsi di narrazione e metanarrazione che è idea attuale e indubbiamente interessante ma purtroppo è al servizio di una trama che non mi ha convinto più di tanto.
Peccato, perché il tema dei rischi del "narrativismo" (se questa era l'intenzione dell'autore) è attualissimo e stimolante e probabilmente avrebbe meritato uno sviluppo più articolato.


sabato 1 agosto 2015

Tommy Wieringa – Joe Speedboat


In mezzo a fenomeni che costruiscono e decostruiscono il romanzo, post-moderni e realisti, minimalisti e realvisceralisti, strutturalisti e stilnovisti... ogni tanto c'è bisogno di una pausa: ogni tanto c'è bisogno anche dei Tommy Wieringa.
Una prosa “scoppiettante”, una penna che corre veloce, leggera, senza orpelli (sembra quasi di trovarsi in un romanzo nordamericano), Wieringa parla la lingua semplice e diretta degli adolescenti, secondo la lezione di Salinger declinata in una delle mille variazioni.
Un romanzo di formazione che racconta il mondo, la vita vista attraverso gli occhi di un ragazzino, la carica di energia e di idee di un adolescente costretto su una sedia a rotelle da uno spaventoso incidente, fatto che rende più forte, più carico di tensione, il suo tentativo di spiccare il volo.
Un romanzo “a colori”, la storia di una scombinata combriccola di ragazzini raccolti attorno a Joe Speedboat, il protagonista che vive nel presente e in eterno movimento, sempre alla ricerca di un altrove, di un'identità, della libertà
...niente mi sembrava più impossibile al cospetto di quella grande anima serena, […] Intendo dire, aveva solo quindici anni, allora, e davanti a sé un intero mondo di idee potenzialmente dirompenti, da realizzare con l'imperturbabilità di un riparatore di biciclette.
Non era tanto un ragazzo fuori dal comune, era una forza che si liberava. Sentivi il brivido dell'avventura, intorno a lui – c'era energia che prendeva forma nelle sue mani. […] Non avevo mai conosciuto nessuno per cui il passaggio dall'idea alla realizzazione fosse così ovvio, nessuno così poco condizionato dalla paura e dalle convenzioni. Osava pensare l'impossibile, senza accorgersi del rifiuto che non mancava di provocare alle sue spalle. Perché a molti Joe non piaceva, c'erano troppe cose incomprensibili in lui. La maggior parte elle persone è mediocre, in alcuni casi addirittura meschina, ma sono tutte molto sensibili alla più alta concentrazione di energia e di talento che si riscontra in chi è superiore alla media. Se non possono avere ciò che ti illumina, non puoi averlo neanche tu. Non hanno nessun talento per l'ammirazione, solo per la sudditanza e l'invidia. Sono ladri di luce.”
Una compagnia di giro fatta di figure indimenticabili: Fransje Hermans, Frans “il braccio”, il ragazzino paraplegico di cui abbiamo già detto, voce narrante e campione di braccio di ferro, Christof Maandag, l'ansioso e indeciso rampollo di una ricca famiglia del posto proprietaria dell'Asfalti Betlemme, Engel Eleved, angelo di nome e di fatto, PJ Eilander, “la puttana del secolo”, esotica afrikaaner completamente priva di coscienza. E poi ancora: la taccola Mercoledì, Regina e India Ratzinger, rispettivamente mamma e sorella di Joe, e l'egiziano, secondo marito di Regina e poi mille altri ancora.
Un caleidoscopio che ruota vorticosamente, un circo di personaggi che nella cittadina di Lomark da luogo a una serie di strampalate avventure, dalla costruzione da parte dei ragazzi di un aereo alla fuga in barca dell'egiziano, dalla carriera di campione di braccio di ferro di Fran alla Parigi-Dakar in escavatore di Joe. L'aereo, la barca l'escavatore...simboli, tanti simboli che incarnano la speranza associata alla volontà, il tentativo adolescenziale di dare realtà al sogno.
Se posso evidenziare un paio di pecche nel romanzo, direi che la prima è che con il progredire della trama Wieringa da l'impressione di faticare un po' a seguire tutti i protagonisti, per cui sceglie di concentrare l'attenzione solo sui principali per recuperare gli altri nel corso della storia, mentre la seconda è relativa al fatto che il passaggio generazionale dei ragazzi non mi sembra particolarmente approfondito come forse avrebbe meritato: Joe, soprattutto, è un personaggio che non “evolve”, probabilmente è una scelta voluta (“come avrebbe potuto diventare qualcosa, lui che era già qualcosa: era Joe, un prodotto finito, perfetto, della sua stessa immaginazione”), ma l'impressione che ho avuto è stata quella di uno sviluppo della trama non perfettamente omogeneo.


sabato 25 luglio 2015

William H. Gass – Prigionieri del paradiso



Potere alla parola (estetica postmoderna vs etica realista)

Libro importante, complesso, affrontabile da mille punti di vista diversi, con un sacco di spunti e riferimenti che a seguirli tutti non si finirebbe più. In una parola: libro stimolante alla massima potenza.
Protagonista del romanzo è Brackett Omensetter, un rude sellaio che arriva con moglie e figli a Gilean, cittadina di fantasia sulle rive dell'Ohio. O meglio: protagonista del libro non è il signor Omensetter, ma la sua “fortuna”, Gass non è tanto interessato a quello che Omensetter fa o dice ma alle reazioni che provoca nella comunità, a quello che scaturisce dalla sua presenza, a cosa fanno o dicono o pensano gli altri a causa sua. Direi qualcosa di molto simile a una rivoluzione copernicana applicata al romanzo, visto che Prigionieri del paradiso è del 1966.
L'opera è costituita da tre parti, in ognuna delle quali un personaggio racconta le cose dal suo punto di vista, la sua personale esperienza di Omensetter. Nel primo capitolo la narrazione è affidata a Israbestis Tott, impegnato in una vendita all'asta. Gass non è interessato a presentare l'ambiente e preparare la scena ma ci proietta subito in medias res, a noi il compito (non facile) di orientarci in mezzo a un racconto che spazia dalla prima alla terza persona, dal presente all'imperfetto, dal dialogo al soliloquio. Descrizioni quasi cinematografiche, con primi piani alternati a campi lunghi, zoom che si apre e poi si chiude, immagini che scorrono veloci come se fossero riprese da una telecamera in volo, si alternano senza soluzione di continuità a pensieri, al racconto di quello che passa per la testa dei personaggi e che a volte sembra seguire la linea di un ragionamento coerente e poi d'improvviso si impenna e scappa in un'altra direzione, inizia a correre invece di scorrere tranquillo, a farsi incoerente, frammentario, procedendo per associazioni di idee tenute insieme da un filo sottilissimo. Difficile entrare in sintonia con la storia, ma – come detto – Gass non se ne cura: capire è affar nostro, non suo, lui è già troppo impegnato a star dietro al racconto, a non lasciarsi scappare neppure una parola. Non gli interessa rispettare i canoni classici della narrazione, la trama del romanzo è quello che rimane del campo di battaglia dopo che si è consumato l'incontro/scontro di fatti, storie, pensieri, sogni, ricordi, Quello che resta è la vita, l'insieme di tutte queste cose e altre ancora. Se vogliamo seguire Gass dobbiamo rassegnarci a non capire tutto (almeno, io l'ho fatto), ad entrare nel fiume di questo libro e lasciarci trasportare dalla corrente, che a voler tenere il timone della barca dritto a tutti i costi a volte si fa una fatica tremenda e spesso si perde il piacere della navigazione.
Torniamo alla trama e all'affiorare 'improvviso, in mezzo a questo accavallarsi di pensieri e descrizioni, del ricordo di Omensetter: “Era un uomo grosso e felice. Incontestabile.” Tre aggettivi per definirlo e che accostati uno all'altro sembrano pietra focaia messa a contatto di polvere da sparo, tre aggettivi che marcano da subito uno scarto, una differenza tra Omensetter e gli altri. Qualche altra battuta e poi di nuovo il pensiero di Israbestis Tott torna a Omensetter. “Ecco la fortuna di Omensetter. Probabilmente. Perdere la pesantezza della vita.” Di nuovo si riaccende la curiosità su questo personaggio di cui non sappiamo ancora nulla, un uomo grosso che passa leggero, contrapposto alla fatica, al sudore, allo sforzo delle vite degli altri. Contrapposto a Israbestis Tott che usa la fantasia per sfuggire al dolore della vita, fissando il muro e immaginando mondi, quel muro che non riesce a lasciare neppure quando si sente meglio e pronto ad affrontare la quotidianità, anche quando è più sicuro ha bisogno di partire dal muro, di andare nel mondo tenendo un piede nel regno della fantasia.
Henry Pimber è il protagonista del secondo capitolo, per lui Omensetter è “robusto e felice. Conosceva la terra. E rideva”, un tipo che agisce senza troppi pensieri, che pianifica il trasferimento della famiglia senza starci a pensar su, affidandosi alla sorte. E gli va sempre bene (di nuovo la fortuna di Omensetter). Anche nel racconto di Henry Pimber, Omensetter ci appare diverso da tutti gli altri, come testimonia l'elenco delle cose che carica sul carro che lo porterà a Gilean: utili, meno utili e francamente inutili accatastate insieme, senza distinzione, come se gli oggetti avessero valore di per sé, indipendentemente dalla loro funzione. Omensetter, si diceva, è fiducioso che le cose vadano bene, vive senza farsi troppi pensieri, non si nasconde. Il suo sorriso e la sua franchezza colpiscono Henry Pimber, la sua assenza di filtri schermanti smonta la diffidenza degli altri e gli apre tutte le porte. Ha una disinvoltura che gli viene dall'inconsapevolezza, lui è quel che è, punto. Parla poco e vive nella natura, lasciando andare le cose, senza interferire sul loro corso, senza arrovellarsi pensando agli altri. Osservando l'indifferenza di Omensetter per ciò che lo circonda, Henry Pimber si rende conto di quanto invece lui sia “nel” mondo, calato dentro, di quanto si senta schiacciato dalla paura, dalla consapevolezza. Henry Pimber condivide la fatica di Adamo dopo che è stato cacciato dal Paradiso mentre Omensetter è “prima” del mondo, unico abitante di uno spazio edenico nel quale vive in perfetta sintonia con quello che ha intorno. Pensiero doloroso, destabilizzante e troppo duro da accettare per un animo sensibile.
Il terzo ed ultimo narratore è il reverendo Jethro Furber, predicatore di fede incerta e ossessionato dal sesso, perennemente impegnato a cercare di reprimere una rabbia che sente montare e che fatica a contenere. Il suo è un conflitto interiore che Gass (come del resto anche per gli altri personaggi della storia) sceglie di rappresentare attraverso il linguaggio, un pensiero contorto, che corre ovunque a mille all'ora, come magma in cerca di uno sbocco che non trova. Furber è un introverso, che fin da piccolo aveva avuto la sensazione di essere “un di più”, qualcosa che aveva alterato un status quo che sarebbe andato benissimo anche senza la sua presenza. Un introverso che non riesce ad esprimere le sue emozioni, che invece di aprirsi all'esterno finiscono per rimbalzare contro le pareti del suo cuore, un introverso che utilizza le parole come ancora di salvezza, le uniche a permettergli di dar voce a ciò che non sa esprimere in altra maniera. I sentimenti che Omensetter suscita in Furber sono paura e vergogna, forse perché incarna tutto ciò che lui vorrebbe essere. Ai suoi occhi Omensetter appare come una persona “risolta”, un uomo pesante che riusciva a rendere tutto leggero, una personalità magnetica dalla quale lui (anche lui) si sente soggiogato. Omensetter sembra un animo incorrotto, inattaccabile dalle passioni, così puro da non potersi dire neppure umano e il confronto con lui amplifica la consapevolezza di Furber di non riuscire a sublimare, di essere troppo attratto dalla materia, di non riuscire a tenere a bada le sue pulsioni. La parola è la risposta di Furber, il suo tentativo di raggiungere l'altra sponda, la possibilità di arrivare all'altro con qualcosa che non sia il comportamento, il gesto. La parola contrapposta all'azione, nel tentativo di costruire un universo con la stessa dignità di quello reale e nello stesso tempo in grado di contrapporsi a quello reale, in grado di tenergli testa, contrastarlo, piegarlo in qualche modo perché Furber si sente estraneo al mondo. Il suo dramma è che pur affidando ogni speranza alle parole è consapevole del fatto che esse sono menzognere.
Sherwood Anderson, Gaulkner, Joyce, Barth... i primi nomi che mi vengono in mente. Un romanzo sperimentale, originale, sostenuto da tesi che possono essere discutibili (Gardner le ha discusse), ma un grande romanzo.



sabato 18 luglio 2015

Juan Carlos Onetti – La vita breve


Vita singolare e plurale di Juan María Brausen

Di tutti i topoi della letteratura latino-americana quello della finzione è probabilmente il più rappresentativo e anche quello che si potrebbe utilizzare come paradigma per misurare differenze (molte)e analogie (?) tra Borges e Onetti.
La finzione è il motore della storia, il centro intorno al quale ruota La vita breve, romanzo intenso e bellissimo, animato da personaggi che vivono contemporaneamente nel mondo e nel loro mondo, un loro mondo che può essere di volta in volta quello del ricordo, quello di un futuro sognato, quello della fantasia senza freni, quello della finzione consapevole (almeno fino ad un certo punto), quello dell'ebbrezza alcoolica... tanti mondi “altri”, una serie infinita, lunga almeno quanto la serie dei personaggi che Onetti porta in scena.
La vita breve inizia con l'attesa, un altro topos decisamente importante. Nel giorno di Santa Rosa, mentre tutti attendono l'arrivo del temporale che darà inizio alla primavera portando un po' di sollievo dal caldo, Brausen attende l'arrivo di Gertrudis appoggiato alla parete che divide il suo appartamento da quello della Queca, intento ad ascoltare i rumori che vengono da lì, a cercare di decifrarli per ricostruire cosa sta succedendo in quelle stanze. L'attesa, dunque: attesa di qualcosa che deve iniziare, qualcosa di diverso da quello che c'è ora, attesa di un cambiamento. L'attesa, il carburante migliore di cui si nutre l'immaginazione: fino a quando le cose devono ancora succedere tutto è possibile e nulla precluso, quando le cose sono successe si può solo prenderne atto e di tutte le possibilità che prima erano in gioco ne sopravvive solo una.
Sognare è bello, ma un sogno per sopravvivere ha bisogno di alimentarsi anche di possibilità, ha bisogno che si creda nella sua realizzazione, magari in un futuro lontano, magari come un'eventualità difficile, difficilissima se non remota, ma un sogno irrealizzabile è un sogno che nasce con le ali mozzate.
Si può vivere senza sogni? Può darsi, ma a questa domanda io non saprei rispondere, quello che posso dire è che io non ne sono capace. E neanche i personaggi de La vita breve, mossi da necessità, da una tensione che non sempre è chiara e che non si sa a che cosa può portare. Personaggi dalla psicologia decisamente complessa; Brausen, ad esempio, sembra avere qualcosa appiccicato addosso dal quale vuole liberarsi, qualcosa che non vede ma del quale sente il fastidio pur senza riuscire a definirlo e contemporaneamente si sente spinto verso qualcuno (la Queca, ha bisogno di desiderarla) senza comprenderne le ragioni. Personalità divise,quindi: in fuga da e in cerca di... già, il problema è che sanno quello che stanno facendo (fuggire e cercare) ma ne ignorano i motivi, agendo a livello più emotivo che razionale.
Stando così le cose il rischio è dietro l'angolo: un'atomizzazione del personaggio, una sua frammentazione orientata verso una deriva schizofrenica oppure una situazione di stallo, un'impossibilità di movimento perché tutto quello che gli ruota intorno sta franando. Morire di esplosione o implosione, non è che faccia poi tanta differenza... Onetti però scavalca l'ostacolo, sostituendo al sogno la finzione: Brausen non immagina mondi fantastici, non sogna per sognare, ma costruisce una finzione, decidendo di spostarsi e vivere in uno spazio diverso. C'è il mondo reale, quello dove vive tutti i giorni e il mondo di finzione, quello di Santa María, dove fa vivere i suoi personaggi e poi c'è anche una specie di “camera di compensazione”, la stanza della Queca, il luogo dove vita reale e vita immaginata si incontrano e si mescolano.
Funziona? Per un po', perché lasciare la realtà per spostarsi in un'altra dimensione non è solo un bisogno o un piacere della mente, ma anche un rischio. Si abbandonano le certezze e ci si avventura in territori inesplorati, nei quali non esistono regole e le cose che sembrano gestibili possono di colpo andare in direzioni inaspettate. Il gioco rischia di sfuggirci di mano e allora non si capisce più chi conduce le danze, chi è il creatore e chi il creato. Come succederà a Brausen, quando da demiurgo diventerà personaggio tra i personaggi, partecipe (e non più artefice) di un finale pirandelliano da Sei personaggi in cerca d'autore, e condannato come gli altri a vivere in maschera, travestito, a interpretare un ruolo senza sapere chi è veramente, se un essere reale che immagina una vita diversa o un essere immaginato da qualcun altro.