sabato 25 luglio 2015

William H. Gass – Prigionieri del paradiso



Potere alla parola (estetica postmoderna vs etica realista)

Libro importante, complesso, affrontabile da mille punti di vista diversi, con un sacco di spunti e riferimenti che a seguirli tutti non si finirebbe più. In una parola: libro stimolante alla massima potenza.
Protagonista del romanzo è Brackett Omensetter, un rude sellaio che arriva con moglie e figli a Gilean, cittadina di fantasia sulle rive dell'Ohio. O meglio: protagonista del libro non è il signor Omensetter, ma la sua “fortuna”, Gass non è tanto interessato a quello che Omensetter fa o dice ma alle reazioni che provoca nella comunità, a quello che scaturisce dalla sua presenza, a cosa fanno o dicono o pensano gli altri a causa sua. Direi qualcosa di molto simile a una rivoluzione copernicana applicata al romanzo, visto che Prigionieri del paradiso è del 1966.
L'opera è costituita da tre parti, in ognuna delle quali un personaggio racconta le cose dal suo punto di vista, la sua personale esperienza di Omensetter. Nel primo capitolo la narrazione è affidata a Israbestis Tott, impegnato in una vendita all'asta. Gass non è interessato a presentare l'ambiente e preparare la scena ma ci proietta subito in medias res, a noi il compito (non facile) di orientarci in mezzo a un racconto che spazia dalla prima alla terza persona, dal presente all'imperfetto, dal dialogo al soliloquio. Descrizioni quasi cinematografiche, con primi piani alternati a campi lunghi, zoom che si apre e poi si chiude, immagini che scorrono veloci come se fossero riprese da una telecamera in volo, si alternano senza soluzione di continuità a pensieri, al racconto di quello che passa per la testa dei personaggi e che a volte sembra seguire la linea di un ragionamento coerente e poi d'improvviso si impenna e scappa in un'altra direzione, inizia a correre invece di scorrere tranquillo, a farsi incoerente, frammentario, procedendo per associazioni di idee tenute insieme da un filo sottilissimo. Difficile entrare in sintonia con la storia, ma – come detto – Gass non se ne cura: capire è affar nostro, non suo, lui è già troppo impegnato a star dietro al racconto, a non lasciarsi scappare neppure una parola. Non gli interessa rispettare i canoni classici della narrazione, la trama del romanzo è quello che rimane del campo di battaglia dopo che si è consumato l'incontro/scontro di fatti, storie, pensieri, sogni, ricordi, Quello che resta è la vita, l'insieme di tutte queste cose e altre ancora. Se vogliamo seguire Gass dobbiamo rassegnarci a non capire tutto (almeno, io l'ho fatto), ad entrare nel fiume di questo libro e lasciarci trasportare dalla corrente, che a voler tenere il timone della barca dritto a tutti i costi a volte si fa una fatica tremenda e spesso si perde il piacere della navigazione.
Torniamo alla trama e all'affiorare 'improvviso, in mezzo a questo accavallarsi di pensieri e descrizioni, del ricordo di Omensetter: “Era un uomo grosso e felice. Incontestabile.” Tre aggettivi per definirlo e che accostati uno all'altro sembrano pietra focaia messa a contatto di polvere da sparo, tre aggettivi che marcano da subito uno scarto, una differenza tra Omensetter e gli altri. Qualche altra battuta e poi di nuovo il pensiero di Israbestis Tott torna a Omensetter. “Ecco la fortuna di Omensetter. Probabilmente. Perdere la pesantezza della vita.” Di nuovo si riaccende la curiosità su questo personaggio di cui non sappiamo ancora nulla, un uomo grosso che passa leggero, contrapposto alla fatica, al sudore, allo sforzo delle vite degli altri. Contrapposto a Israbestis Tott che usa la fantasia per sfuggire al dolore della vita, fissando il muro e immaginando mondi, quel muro che non riesce a lasciare neppure quando si sente meglio e pronto ad affrontare la quotidianità, anche quando è più sicuro ha bisogno di partire dal muro, di andare nel mondo tenendo un piede nel regno della fantasia.
Henry Pimber è il protagonista del secondo capitolo, per lui Omensetter è “robusto e felice. Conosceva la terra. E rideva”, un tipo che agisce senza troppi pensieri, che pianifica il trasferimento della famiglia senza starci a pensar su, affidandosi alla sorte. E gli va sempre bene (di nuovo la fortuna di Omensetter). Anche nel racconto di Henry Pimber, Omensetter ci appare diverso da tutti gli altri, come testimonia l'elenco delle cose che carica sul carro che lo porterà a Gilean: utili, meno utili e francamente inutili accatastate insieme, senza distinzione, come se gli oggetti avessero valore di per sé, indipendentemente dalla loro funzione. Omensetter, si diceva, è fiducioso che le cose vadano bene, vive senza farsi troppi pensieri, non si nasconde. Il suo sorriso e la sua franchezza colpiscono Henry Pimber, la sua assenza di filtri schermanti smonta la diffidenza degli altri e gli apre tutte le porte. Ha una disinvoltura che gli viene dall'inconsapevolezza, lui è quel che è, punto. Parla poco e vive nella natura, lasciando andare le cose, senza interferire sul loro corso, senza arrovellarsi pensando agli altri. Osservando l'indifferenza di Omensetter per ciò che lo circonda, Henry Pimber si rende conto di quanto invece lui sia “nel” mondo, calato dentro, di quanto si senta schiacciato dalla paura, dalla consapevolezza. Henry Pimber condivide la fatica di Adamo dopo che è stato cacciato dal Paradiso mentre Omensetter è “prima” del mondo, unico abitante di uno spazio edenico nel quale vive in perfetta sintonia con quello che ha intorno. Pensiero doloroso, destabilizzante e troppo duro da accettare per un animo sensibile.
Il terzo ed ultimo narratore è il reverendo Jethro Furber, predicatore di fede incerta e ossessionato dal sesso, perennemente impegnato a cercare di reprimere una rabbia che sente montare e che fatica a contenere. Il suo è un conflitto interiore che Gass (come del resto anche per gli altri personaggi della storia) sceglie di rappresentare attraverso il linguaggio, un pensiero contorto, che corre ovunque a mille all'ora, come magma in cerca di uno sbocco che non trova. Furber è un introverso, che fin da piccolo aveva avuto la sensazione di essere “un di più”, qualcosa che aveva alterato un status quo che sarebbe andato benissimo anche senza la sua presenza. Un introverso che non riesce ad esprimere le sue emozioni, che invece di aprirsi all'esterno finiscono per rimbalzare contro le pareti del suo cuore, un introverso che utilizza le parole come ancora di salvezza, le uniche a permettergli di dar voce a ciò che non sa esprimere in altra maniera. I sentimenti che Omensetter suscita in Furber sono paura e vergogna, forse perché incarna tutto ciò che lui vorrebbe essere. Ai suoi occhi Omensetter appare come una persona “risolta”, un uomo pesante che riusciva a rendere tutto leggero, una personalità magnetica dalla quale lui (anche lui) si sente soggiogato. Omensetter sembra un animo incorrotto, inattaccabile dalle passioni, così puro da non potersi dire neppure umano e il confronto con lui amplifica la consapevolezza di Furber di non riuscire a sublimare, di essere troppo attratto dalla materia, di non riuscire a tenere a bada le sue pulsioni. La parola è la risposta di Furber, il suo tentativo di raggiungere l'altra sponda, la possibilità di arrivare all'altro con qualcosa che non sia il comportamento, il gesto. La parola contrapposta all'azione, nel tentativo di costruire un universo con la stessa dignità di quello reale e nello stesso tempo in grado di contrapporsi a quello reale, in grado di tenergli testa, contrastarlo, piegarlo in qualche modo perché Furber si sente estraneo al mondo. Il suo dramma è che pur affidando ogni speranza alle parole è consapevole del fatto che esse sono menzognere.
Sherwood Anderson, Gaulkner, Joyce, Barth... i primi nomi che mi vengono in mente. Un romanzo sperimentale, originale, sostenuto da tesi che possono essere discutibili (Gardner le ha discusse), ma un grande romanzo.



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