Potere alla
parola (estetica postmoderna vs etica realista)
Libro
importante, complesso, affrontabile da mille punti di vista diversi,
con un sacco di spunti e riferimenti che a seguirli tutti non si
finirebbe più. In una parola: libro stimolante alla massima potenza.
Protagonista del
romanzo è Brackett Omensetter, un rude sellaio che arriva con moglie
e figli a Gilean, cittadina di fantasia sulle rive dell'Ohio. O
meglio: protagonista del libro non è il signor Omensetter, ma la sua
“fortuna”, Gass non è tanto interessato a quello che Omensetter
fa o dice ma alle reazioni che provoca nella comunità, a quello che
scaturisce dalla sua presenza, a cosa fanno o dicono o pensano gli
altri a causa sua. Direi qualcosa di molto simile a una rivoluzione
copernicana applicata al romanzo, visto che Prigionieri
del paradiso è del
1966.
L'opera è
costituita da tre parti, in ognuna delle quali un personaggio
racconta le cose dal suo punto di vista, la sua personale esperienza
di Omensetter. Nel primo capitolo la narrazione è affidata a
Israbestis Tott, impegnato in una vendita all'asta. Gass non è
interessato a presentare l'ambiente e preparare la scena ma ci
proietta subito in medias res, a noi il compito (non facile) di
orientarci in mezzo a un racconto che spazia dalla prima alla terza
persona, dal presente all'imperfetto, dal dialogo al soliloquio.
Descrizioni quasi cinematografiche, con primi piani alternati a campi
lunghi, zoom che si apre e poi si chiude, immagini che scorrono
veloci come se fossero riprese da una telecamera in volo, si
alternano senza soluzione di continuità a pensieri, al racconto di
quello che passa per la testa dei personaggi e che a volte sembra
seguire la linea di un ragionamento coerente e poi d'improvviso si
impenna e scappa in un'altra direzione, inizia a correre invece di
scorrere tranquillo, a farsi incoerente, frammentario, procedendo per
associazioni di idee tenute insieme da un filo sottilissimo.
Difficile entrare in sintonia con la storia, ma – come detto –
Gass non se ne cura: capire è affar nostro, non suo, lui è già
troppo impegnato a star dietro al racconto, a non lasciarsi scappare
neppure una parola. Non gli interessa rispettare i canoni classici
della narrazione, la trama del romanzo è quello che rimane del campo
di battaglia dopo che si è consumato l'incontro/scontro di fatti,
storie, pensieri, sogni, ricordi, Quello che resta è la vita,
l'insieme di tutte queste cose e altre ancora. Se vogliamo seguire
Gass dobbiamo rassegnarci a non capire tutto (almeno, io l'ho fatto),
ad entrare nel fiume di questo libro e lasciarci trasportare dalla
corrente, che a voler tenere il timone della barca dritto a tutti i
costi a volte si fa una fatica tremenda e spesso si perde il piacere
della navigazione.
Torniamo alla
trama e all'affiorare 'improvviso, in mezzo a questo accavallarsi di
pensieri e descrizioni, del ricordo di Omensetter: “Era
un uomo grosso e felice. Incontestabile.”
Tre aggettivi per definirlo e che accostati uno all'altro sembrano
pietra focaia messa a contatto di polvere da sparo, tre aggettivi che
marcano da subito uno scarto, una differenza tra Omensetter e gli
altri. Qualche altra battuta e poi di nuovo il pensiero di Israbestis
Tott torna a Omensetter. “Ecco
la fortuna di Omensetter. Probabilmente. Perdere la pesantezza della
vita.” Di nuovo si
riaccende la curiosità su questo personaggio di cui non sappiamo
ancora nulla, un uomo grosso che passa leggero, contrapposto alla
fatica, al sudore, allo sforzo delle vite degli altri. Contrapposto a
Israbestis Tott che usa la fantasia per sfuggire al dolore della
vita, fissando il muro e immaginando mondi, quel muro che non riesce
a lasciare neppure quando si sente meglio e pronto ad affrontare la
quotidianità, anche quando è più sicuro ha bisogno di partire dal
muro, di andare nel mondo tenendo un piede nel regno della
fantasia.
Henry Pimber è
il protagonista del secondo capitolo, per lui Omensetter è “robusto
e felice. Conosceva la terra. E rideva”,
un tipo che agisce senza troppi pensieri, che pianifica il
trasferimento della famiglia senza starci a pensar su, affidandosi
alla sorte. E gli va sempre bene (di nuovo la fortuna di Omensetter).
Anche nel racconto di Henry Pimber, Omensetter ci appare diverso da
tutti gli altri, come testimonia l'elenco delle cose che carica sul
carro che lo porterà a Gilean: utili, meno utili e francamente
inutili accatastate insieme, senza distinzione, come se gli oggetti
avessero valore di per sé, indipendentemente dalla loro funzione.
Omensetter, si diceva, è fiducioso che le cose vadano bene, vive
senza farsi troppi pensieri, non si nasconde. Il suo sorriso e la sua
franchezza colpiscono Henry Pimber, la sua assenza di filtri
schermanti smonta la diffidenza degli altri e gli apre tutte le
porte. Ha una disinvoltura che gli viene dall'inconsapevolezza, lui è
quel che è, punto. Parla poco e vive nella natura, lasciando andare
le cose, senza interferire sul loro corso, senza arrovellarsi
pensando agli altri. Osservando l'indifferenza di Omensetter per ciò
che lo circonda, Henry Pimber si rende conto di quanto invece lui sia
“nel” mondo, calato dentro, di quanto si senta schiacciato dalla
paura, dalla consapevolezza. Henry Pimber condivide la fatica di
Adamo dopo che è stato cacciato dal Paradiso mentre Omensetter è
“prima” del mondo, unico abitante di uno spazio edenico nel quale
vive in perfetta sintonia con quello che ha intorno. Pensiero
doloroso, destabilizzante e troppo duro da accettare per un animo
sensibile.
Il terzo ed
ultimo narratore è il reverendo Jethro Furber, predicatore di fede
incerta e ossessionato dal sesso, perennemente impegnato a cercare di
reprimere una rabbia che sente montare e che fatica a contenere. Il
suo è un conflitto interiore che Gass (come del resto anche per gli
altri personaggi della storia) sceglie di rappresentare attraverso il
linguaggio, un pensiero contorto, che corre ovunque a mille all'ora,
come magma in cerca di uno sbocco che non trova. Furber è un
introverso, che fin da piccolo aveva avuto la sensazione di essere
“un di più”, qualcosa che aveva alterato un status quo che
sarebbe andato benissimo anche senza la sua presenza. Un introverso
che non riesce ad esprimere le sue emozioni, che invece di aprirsi
all'esterno finiscono per rimbalzare contro le pareti del suo cuore,
un introverso che utilizza le parole come ancora di salvezza, le
uniche a permettergli di dar voce a ciò che non sa esprimere in
altra maniera. I sentimenti che Omensetter suscita in Furber sono
paura e vergogna, forse perché incarna tutto ciò che lui vorrebbe
essere. Ai suoi occhi Omensetter appare come una persona “risolta”,
un uomo pesante che riusciva a rendere tutto leggero, una personalità
magnetica dalla quale lui (anche lui) si sente soggiogato. Omensetter
sembra un animo incorrotto, inattaccabile dalle passioni, così puro
da non potersi dire neppure umano e il confronto con lui amplifica la
consapevolezza di Furber di non riuscire a sublimare, di essere
troppo attratto dalla materia, di non riuscire a tenere a bada le sue
pulsioni. La parola è la risposta di Furber, il suo tentativo di
raggiungere l'altra sponda, la possibilità di arrivare all'altro
con qualcosa che non sia il comportamento, il gesto. La parola
contrapposta all'azione, nel tentativo di costruire un universo con
la stessa dignità di quello reale e nello stesso tempo in grado di
contrapporsi a quello reale, in grado di tenergli testa,
contrastarlo, piegarlo in qualche modo perché Furber si sente
estraneo al mondo. Il suo dramma è che pur affidando ogni speranza
alle parole è consapevole del fatto che esse sono menzognere.
Sherwood
Anderson, Gaulkner, Joyce, Barth... i primi nomi che mi vengono in
mente. Un romanzo sperimentale, originale, sostenuto da tesi che
possono essere discutibili (Gardner le ha discusse), ma un grande
romanzo.