mercoledì 6 aprile 2016
domenica 3 aprile 2016
César Aira – Come imbalsamare animaletti mutanti
Lo scrittore è un falsificatore
Libretto
curioso. A metà tra il divertissement e il progetto eversivo.
La storia di Varamo,
uno scrivano di terza categoria (una
specie di Bernardo Soares pessoano) e di come una disavventura rappresentata
dal pagamento con due banconote false entri nella sua vita per stravolgerla al
punto da farlo diventare l’autore dell’ “osannato
capolavoro della moderna poesia contemporanea, il canto del bambino vergine”
(e va da sé come solo un autore sudamericano – César Aira è argentino – potesse
partorire una trama del genere).
Come imbalsamare animaletti mutanti è un romanzo
breve, raccontato con stile “colloquiale” che almeno nella prima parte ricorda
Saramago per l’attenzione al lettore, il
renderlo partecipe di quello che succede al protagonista, di cosa egli pensa,
di come analizza le cose nei particolari per immaginare i possibili scenari che
ogni sua mossa potrebbe innescare.
Varamo è un
abitudinario, consapevole del fatto che tutto quello che esce dalla routine rischia
di disintegrare le fragili certezze sulle quali ha costruito la sua esistenza;
la novità rappresentata dalle due banconote false è un pericolo, una porta sull’ignoto
che lo costringe a confrontarsi con pensieri mai considerati fino a quel
momento, a fare i conti con le sue insicurezze, ad improvvisare. In quest’ottica,
anche l’hobby del protagonista (la sua
via di fuga da un’esistenza in genere malinconica e insoddisfacente), imbalsamare
piccoli animali, in realtà è meno stravagante di quanto possa sembrare: in
fondo Varamo cercava solo di fermare l’attimo, “cristallizzare” il momento. Un
po’ quello che stava facendo della sua vita.
Dalla metà in
poi il racconto subisce un’accelerazione improvvisa. Da quando il protagonista
della storia esce di casa per recarsi al caffè è tutta un’esplosione di fuochi
d’artificio che si succedono senza continuità, alla quale si fatica a star dietro:
le Voci che risuonano nella testa di Varamo quando passa in un punto preciso
del percorso, un incidente stradale che coinvolge l’auto che trasporta il
Ministro dell’Economia, la scoperta delle gare “di regolarità”, la casa delle Góngora,
due sorelle creole che contrabbandano mazze da golf, la comparsa di Caricias, “l’ultima
donna”, il quaderno con i codici cifrati per comunicare con le navi che
trasportano la merce da contrabbandare ( o che vengono da Haiti per invadere
Panama), l’identità tra denaro e discorso indiretto libero…
E poi l’incontro
nel caffè con tre editori alla ricerca di qualcosa di originale da pubblicare.
E cosa c’è di più originale dell’hobby di Varamo, di come imbalsamare animaletti
mutanti? Poco importa la trama, quello che conta è il titolo, per riempire il
libro saranno sufficienti annotazioni trascritte una di seguito all’altra,
senza bisogno di elaborarle troppo.
Come imbalsamare animaletti mutanti è un libretto
che prende in giro gli strumenti letterari: è metanarrativa, critica del discorso
indiretto libero, messa in discussione dei meccanismi causa-effetto…
Interessante e convincente è il modo di procedere di Aira nella sua analisi, la
capacità di coniugare complessità e leggerezza, dando l’impressione di non prendersi
mai troppo sul serio. Procede portando il ragionamento all’estremo, ad
avvitarsi su se stesso fino a creare un vortice, un mulinello che rischia di
inghiottire al suo interno personaggi della trama, autore e lettore… ma poi si
ferma. Arriva sul bordo del precipizio ma si blocca un attimo prima di
piombarci dentro, gioca con la vertigine, senza “intellettualismo”, saccenza o
pedanteria ma casomai con curiosità.
Aira è un
autore indubbiamente originale, che esplora il mondo mescolando verità e
fantasia, applicando le leggi della logica all’immaginazione, per vedere l’effetto
che fa, perché “lo scrittore è un falsificatore
malgré lui che lasciava le sue tracce cifrate”.
mercoledì 30 marzo 2016
sabato 26 marzo 2016
Saul Bellow – Herzog
Sono contento di essere, di essere proprio come si
vuole che sia, e per tutto il tempo che potrò restarne l'inquilino.”
Semplicemente
uno dei capolavori del Novecento.
La storia di Moses
Herzog, professore universitario che colto
dal secondo divorzio proprio mentre si trova nel mezzo del cammin di nostra
vita, vede andare in frantumi gli equilibri sui quali credeva fosse basata la
sua esistenza e si trova a riflettere su cosa è successo e perché. Herzog è simile
a un naufrago che si risveglia su un’isola sperduta e vaga spaesato sulla
spiaggia, alla ricerca di oggetti, frammenti e ricordi che possano aiutarlo a ricostruire
quello che è successo e a pianificare un futuro che appare quanto mai incerto. Noi
siamo quel naufrago, noi siamo Herzog, e il fatto che dalla pubblicazione di
questo libro siano trascorsi cinquant’anni non sembra aver diradato le nebbie
nelle quali ci dibattiamo, ma sembra anzi aver ingarbugliato ancor di più la
matassa, conferendo – se possibile – più forza e attualità all’opera di Bellow.
Molto
interessante (dostoevskijano, quasi) è l’approfondimento psicologico della
figura del protagonista, che l’autore tratteggia non mancando di sottolinearne anche
le contraddizioni:
“Che tipo era? Be', per dirla con una definizione
moderna, era un narcisista; un masochista; e anacronistico. Il suo era il
quadro clinico del depressivo - non grave.”
Herzog
si definisce un invidioso, un uomo non eccessivamente competitivo, generoso e
un po’ immaturo, ambizioso ma cosciente di avere poco senso pratico (e, con
buona pace di quanto afferma Bellow, per niente anacronistico). Il nostro eroe (o
anti-eroe) è un soldato che va alla guerra consapevole che l’armamentario di cui
dispone e le istruzioni che ha ricevuto sono del tutto inadeguati, eppure non
può sottrarsi al combattimento.
L’obiettivo
che Herzog/Bellow/l’intellettuale moderno si pone è decisamente alto:
“dare una nuova visione della condizione dell'uomo
moderno, dimostrare come la vita possa essere vissuta rinnovando continuamente
il sistema di rapporti universale; abbattere l'ultimo degli errori dei
romantici sull'unicità dell'Io; correggere la vecchia ideologia faustiana
dell'Occidente e indagare sul significato sociale del Nulla.”
Per
esplicitarlo l’autore sviluppa un “romanzo di idee”: il rischio dietro l’angolo
è quello del patchwork, dell’inserimento cioè nella narrazione di una serie di riflessioni
sugli argomenti più disparati che rischiano di compromettere la coesione dell’opera.
La struttura epistolare è l’espediente escogitato da Bellow per superare brillantemente
il problema.
Cosa
rappresentano le lettere che il protagonista scrive e poi non spedisce a
personaggi di ogni genere ed epoca a proposito di filosofia, psicologia,
matrimonio, politica, etica, costume… a proposito della vita? Sicuramente un
modo di affermare delle tesi, di esporre un punto di vista. Perché non vengono
spedite? Probabilmente perché sono cose che Herzog ha bisogno di dire a se
stesso: è lui il destinatario di queste missive, è lui quello che deve
convincersi di quanto afferma. Le lettere di Herzog rappresentano un bisogno di
fare ordine, di chiarirsi almeno in parte le idee, e nel momento in cui le
scrive acquistano verità.
È
anche grazie alle lettere che Herzog riuscirà faticosamente a costruirsi una specie di equilibrio, un ordine parziale, personale
e probabilmente anche provvisorio, ma
pur sempre un ordine, che consiste in una sostanziale constatazione e
accettazione dell’ambiguità del mondo, una stabilità forse apparente ma che gli
permetterà di guardare alle cose con maggiore indulgenza:
“In tutti i modi, posso pretendere di avere una gran
scelta? Mi guardo e vedo torace, cosce, piedi - una testa. Questa strana
organizzazione, io lo so che morirà. E dentro - qualche cosa, qualche cosa,
felicità... «Tu mi muovi.» Che scelta ti lascia? Nessuna. Qualcosa produce
l'intensità, un sentimento sacro, così come gli aranci producono l'arancione,
l'erba il verde, gli uccelli calore. Certi cuori sgorgano più amore, altri,
pare, di meno. Significa qualche cosa? Ci sono quelli che dicono che questo
prodotto dei cuori è conoscenza. «Je sens mon coeur et je connais les hommes.»
Ma la sua mente si distaccò ora anche dal suo francese. Non lo potrei dire, con
sicurezza. Il mio viso troppo cieco, la mia mente troppo limitata, i miei
istinti troppo ristretti. Ma questa intensità, non significa niente? È una
gioia idiota che fa esclamare questo animale, l'animale più singolare di tutti,
che gli fa esclamare qualche cosa? E lui crede questa reazione un segno, una
prova, dell'eternità? E ce l'ha in petto? Ma non ho argomenti da contribuire a
questo proposito. «Tu mi muovi.» «Ma che cosa vuoi, Herzog?» «Ma è proprio
questo il punto - un bel niente. Sono contento di essere, di essere proprio
come si vuole che sia, e per tutto il tempo che potrò restarne l'inquilino.”
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letture
sabato 19 marzo 2016
Angelo Calvisi – Adieu mon coeur
l'amor che move
il sole e l’altre stelle
La cosa più difficile che ci sia al mondo è scrivere una prosa assolutamente onesta sugli esseri umani” (E. Hemingway).
“Sono contrario a tutti i trucchi che richiamano l’attenzione
su se stessi, mostrando lo sforzo dello scrittore di risultare ingegnoso, o
semplicemente poco diretto” (R. Carver).
Partiamo da qui,
e diciamo subito che Calvisi è un autore che soddisfa entrambi i criteri esposti.
Certo, stiamo parlando di uno scrittore di nicchia (in questo momento su anobii
Adieu mon coeur conta otto lettori e
diciotto sono quelli di Un mucchio di
giorni così), che non infarcisce le storie di colori e aggettivi alla maniera
sudamericana, che non frequenta i territori del minimalismo estremo o del
postmodernismo spinto (per non dire del meta-letterario così di moda) di certa
narrativa statunitense e che,
soprattutto, è immune dal narcisismo di tanti librivendoli italiani (di quelli,
per intenderci, che ammiccano compiaciuti dalle quarte di copertina).
Calvisi è un
artigiano, uno che costruisce storie per passione, senza seguire modelli
stereotipati, senza la ricerca dei colpi a effetto o del lieto fine per forza,
e Adieu mon coeur è una di queste
storie. La storia di Paolo: bambino, adolescente e poi musicista di successo,
eppure mai felice, mai realizzato veramente. La storia di una famiglia che va
in frantumi, di amicizie che cambiano nel corso degli anni, di un amore (quello
per Michela) vagheggiato, svanito, rincorso, sfiorato e poi perso
definitivamente. Una storia che si dipana sul filo della nostalgia, con il
rischio di cadere nei luoghi comuni che è sempre dietro l’angolo e che l’autore
riesce a scansare mantenendosi nel territorio di una narrazione onesta,
evitando facili strizzate d’occhio al lettore.
Adieu mon coeur è un romanzo che ci parla della
vita, di come vorremmo che andassero le cose e di come vanno nella realtà, di
quello che riusciamo a raggiungere e di quello che invece ci sfugge, di quello
che aspiriamo ad essere e di quello che siamo, di quello che passa e non può
tornare. Ci parla, soprattutto, di amore, di quello vero, che quando arriva è
peggio di un terremoto che finisce per stravolgerci l’esistenza senza neppure
chiedere permesso, di quell’amore che è come una condanna, che ci sceglie e non
si fa scegliere e che non ha bisogno di realizzarsi per continuare a vivere.
“La parola chiave è armonia”, scrive ad un certo punto Calvisi. Già,
armonia intesa però non come conquista ma come una meta che rimane sempre un
po’ più in là, aspirazione, obiettivo da perseguire anche sapendo che non lo si
raggiungerà mai. Proprio come l’amore di Paolo per Michela.
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