domenica 10 luglio 2016
Anche la vita è autentica quanto i sogni?
E noi, persone senza importanza, simili alle formiche sopra i tronchi d'albero, cieche a tutto ciò che è a più di due centimetri dai nostri corpi sodi e bruni. La nostra vita con due centimetri di spessore. Allora mi è accaduto qualcosa: guardavo come la mamma fluttuava in cucina, immersa fino al petto, insieme col mulino e con l'inverno e con i colombi, nelle acque dense del manoscritto, e a un tratto mi sono chiesto se in qualche modo anche il mondo è una forma di realtà, magari consistente quanto la funzione, se in qualche modo anche la vita è autentica quanto i sogni...
[Mircea Cărtărescu. "Abbacinante. L'ala destra]
domenica 19 giugno 2016
Samuel Beckett - Murphy
Corpo
vs spirito
Murphy
è uno dei grandi personaggi letterari con i quali Beckett ha marchiato a fuoco
il secolo appena trascorso. Fin dalle prime righe ci viene svelato nella sua
essenza, come se l’autore avesse urgenza di presentarci la sua invenzione: un
protagonista tanto diverso da quelli che animavano i romanzi dell’epoca. Ed è una
presentazione quanto mai sorprendente, visto che lo troviamo nudo e legato alla
sua sedia dondolo:
“Stava seduto così perché gli faceva piacere star
seduto così. Prima di tutto piacere del corpo, appagamento fisico. Poi piacere
dello spirito, allargamento nel suo mondo spirituale. Soltanto dopo aver
appagato il corpo, poteva cominciare a vivere nello spirito. E il suo modo di
vivere nello spirito gli dava un enorme piacere, quasi un’assenza di dolore.”
Gesti
stereotipati, un dondolio via via più lento, un movimento ipnotico che sembra
il viatico al raggiungimento di uno stato di trance. Da subito il dualismo corpo/spirito,
la necessità di placare i bisogni del primo per avere accesso al mondo del
secondo, quello che Murphy riconosce come il suo vero mondo, quello dal quale
gli altri cercano di strapparlo via e quello nel quale lui cerca costantemente rifugio
perché non è interessato a ciò che accade fuori da sé: la realtà è
irredimibile, e da questo punto di vista l’incipit così noto del romanzo (il sole splendeva, senza possibilità di
alternative, sul niente di nuovo) è una vera e propria dichiarazione di
intenti.
Murphy
aspira all’atarassia e il primum movens su questo cammino è il tentativo di annullare
o ridurre il potere della volontà, intesa come molla che muove le nostre
passioni. Quando prova a sprofondare nel suo spirito, lo fa per abbandonarsi al torpore, non per seguire
pensieri o speculazioni. Quella che detta il tempo è la musica del suo Io, non
quella suonata dal pensiero cosciente.
Il
problema del protagonista del romanzo consiste nel non riuscire a conciliare i
contrari nel suo cuore perché il suo spirito è una grande sfera cava, ermeticamente chiusa all’universo esterno.
Succede così che esperienza mentale ed esperienza fisica parlino in Murphy
linguaggi diversi, di qui la frattura, l’impossibilità di armonizzare le due
parti della sua persona che per questo risulta divisa. Per questo gli unici
individui per i quali prova empatia sono i pazienti della clinica psichiatrica
nella quale si trova a lavorare; loro non vogliono nulla da lui (a differenza
da tutti gli altri con i quali entra in contatto e che per un motivo o per l’altro
pretendono di cambiarlo), loro sono indifferenti al mondo circostante, anche
loro – come Murphy – hanno qualcosa di rotto dentro.
Il
dramma di Murphy deflagra nel momento in cui, invece di accettare la situazione
di incomunicabilità alla quale si è condannato, prova a stabilire un contatto
con il signor Endon, un paziente schizofrenico. La partita a scacchi tra i due rappresenta
il climax del romanzo e uno dei vertici della poetica beckettiana: Murphy prova
a gettare un ponte tra lui e un individuo che giudica simile a sé e per farlo utilizza
le mosse del gioco come fossero lettere di un alfabeto diverso da quello
consueto, un linguaggio nuovo per tentare una comunicazione altrimenti
impossibile. È una partita nella quale si gioca tutto: dapprima cerca di
ripetere sulla scacchiera i movimenti del suo avversario per dimostrargli che è
come lui, poi prova a farlo uscire dal guscio, invitandolo a mangiare dei pezzi
per accorciare le distanze e così attirarlo nel suo territorio. Tutto inutile,
il signor Endon non gioca contro Murphy ma gioca da solo, e dopo aver abbozzato
qualche movimento ripiega progressivamente verso le posizioni che occupava all’inizio
del gioco, indifferente al suo avversario: Murphy per lui non esiste, è uguale
a tutti gli altri. Di qui la sconfitta, non tanto nella partita a scacchi quanto
nel progetto del protagonista, condannato a una solitudine senza speranza: Murphy
non chiedeva di cambiare il suo destino di essere diviso, ma almeno di condividere
con qualcuno la separazione tra corpo e spirito che vive dolorosamente sulla
sua pelle.
Murphy è un gran libro, un libro denso, angosciante e ironico, una prateria che si estende in ogni direzione, anche (soprattutto) in profondità. Ovunque ci soffermiamo, se iniziamo a scavare troviamo materiale, spunti per nuove riflessioni. Murphy è una specie di Moloch al cospetto del quale si può ragionare solo per approssimazione; è difficile procedere con equilibrio e misura, molto più facile provare un senso di disorientamento, l’impressione di trovarsi a navigare nel caos accontentandosi di seguire alcune linee di pensiero con la consapevolezza che ce ne sono molte di più che finiranno per essere trascurate o, peggio, non comprese compiutamente.
Murphy è un gran libro, un libro denso, angosciante e ironico, una prateria che si estende in ogni direzione, anche (soprattutto) in profondità. Ovunque ci soffermiamo, se iniziamo a scavare troviamo materiale, spunti per nuove riflessioni. Murphy è una specie di Moloch al cospetto del quale si può ragionare solo per approssimazione; è difficile procedere con equilibrio e misura, molto più facile provare un senso di disorientamento, l’impressione di trovarsi a navigare nel caos accontentandosi di seguire alcune linee di pensiero con la consapevolezza che ce ne sono molte di più che finiranno per essere trascurate o, peggio, non comprese compiutamente.
mercoledì 15 giugno 2016
Sprazzi di luce (armonia e bellezza al più alto grado)
"Pensò tra l'altro che nel suo stato
epilettico c'era una fase, proprio prima dell'attacco (sempre che l'attacco
venisse mentre era sveglio), quando improvvisamente, in mezzo alla tristezza,
alle tenebre dell'anima, all'oppressione, il suo cervello pareva accendersi, e
tutte le sue forze vitali si tendevano di colpo con uno slancio inusitato. Il
senso della vita e la coscienza di sé si decuplicavano quasi in quegli istanti
che duravano il tempo di un lampo. La mente, il cuore gli si illuminavano di
una luce straordinaria. Tutte le sue emozioni, i suoi dubbi, sembravano
placarsi di colpo, si risolvevano in una calma suprema, piena di gioia serena,
di armonia e di speranza, piena di intelligenza e di causa ultima. Ma quei
momenti, quegli sprazzi di luce, erano soltanto il preludio di quel secondo
definitivo (mai più di un secondo) con cui aveva inizio l'attacco vero e
proprio. Quel secondo era certamente insopportabile. Riflettendo in seguito su
quell'istante, quando ormai si trovava in condizioni normali, spesso diceva a
se stesso che tutti quei lampi e quei bagliori di altissima sensazione e
coscienza di sé, e quindi anche di "vita superiore" non erano altro
che malattia, alterazione dello stato normale, e se era così, quella non era
affatto un'esistenza superiore, ma, al contrario, doveva essere annoverata fra
le più basse. E tuttavia arrivò infine ad una conclusione straordinaria e
paradossale: "Che importa se è una malattia?" concluse infine,
"che importanza ha che sia una tensione anormale, se il risultato, se quel
minuto di sensazioni rievocato e analizzato poi in condizioni normali si rivela
armonia e bellezza al più alto grado, e dà un senso fino allora insospettato e
inaudito di pienezza, di misura, di acquietamento e di trepida fusione di
preghiera con la suprema sintesi della vita?"
[Fëdor
Michajlovič Dostoevskij: "L'idiota"]
domenica 12 giugno 2016
Angelo Calvisi – Clandestini
Angelo
Calvisi, direttore della fotografia.
Clandestini
è una raccolta di racconti eterogenea per forma e contenuti. Storie scritte
nell’arco di anni e spesso legate a un vincolo tematico richiesto dal blog o
dalla rivista che poi le hanno pubblicate.
Storie
diverse anche per il valore letterario (alcune più riuscite ed altre
probabilmente meno), che pure ci permettono uno sguardo anche sul Calvisi
scrittore di racconti.
Diciamo
subito che, ad oggi, ho apprezzato maggiormente le sue qualità come autore di
romanzi brevi sia in Un mucchio di giorni così che in Adieu mon coeur, ma anche
alla prova di una forma narrativa diversa dimostra di cavarsela bene e
soprattutto di saperne risolvere i problemi tecnici connessi con apparente semplicità.
Le storie
di Clandestini sono tutte narrate con stile diretto in prima persona presente
(mi sembra che solo in un racconto l’autore usi l’imperfetto) e caratterizzate
da un incipit in grado di attirare da subito l’attenzione del lettore
(caratteristica fondamentale nelle short stories), un buono sviluppo della vicenda
e un climax che per il mio gusto a volte è un po’ troppo vicino alla
conclusione. Ma al di là di certi formalismi è “la misura” quello che mi sembra
uno dei tratti salienti di questi racconti, l’equilibrio tra la scorrevolezza
di una scrittura che procede sicura, senza sbavature e una narrazione che
alterna accadimenti, dialoghi, osservazioni e divagazioni senza perdere il filo
di una trama che alla fine si risolve
con naturalezza, senza forzature.
Angelo
Calvisi, direttore della fotografia, si diceva nel titolo. Già, più direttore
della fotografia che regista, perché le storie che racconta sembrano avere vita
propria, svilupparsi autonomamente come un film che scorre sotto i nostri
occhi. Calvisi fotografa le scene e poi traduce in parole i fotogrammi: impresa
tutt’altro che banale, soprattutto perché riesce a rendere con poche pennellate
impressioni, attimi, momenti di vita che trasforma in suggestioni cariche di
possibilità (L’acqua è scura, calma, ci sono dei barconi che trasportano
tronchi e sulla riva soffia un’aria fresca. È una scena che trasmette un’idea
di inevitabilità, e non sono in grado di descriverla meglio, scrive in Missione
a Berlino di un redattore suicida).
Calvisi
scrive quello che vede (parafrasando il protagonista del primo racconto della
raccolta, che, in un incipit che ricorda Il Grande Freddo, tira fuori il
bloc-notes nel bel mezzo di un funerale e scrive: il mio stato d’animo sono le
cose che vedo) ed è un vedere senza pre-concetti, finalizzato non tanto a
formarsi opinioni quanto a provare a capire. La curiosità è il primum movens
dell’autore, curiosità che trasforma la routine di un cooperatore sociale o di
un commesso di un negozio di dischi in qualcosa di diverso: dietro ogni persona
c’è un personaggio, e Calvisi ce lo
restituisce nella sua “unicità”.
È la curiosità che porta i personaggi di
Clandestini a interrogarsi su ogni cosa,
anche sul significato delle parole (come fa il protagonista di Giornata
tipo di uno strenuo cooperatore sociale che tornando a casa si chiede se quelli dell’autobus fossero proprio
vagoni e Come si chiamava il nastro di spessa gomma nera che separava le due
ante delle porte? E le porte dell’autobus si chiamavano veramente porte?), la
stessa curiosità che abbiamo quando da bambini andiamo alla scoperta del mondo
e che poi perdiamo (o nascondiamo) crescendo,
perché la consideriamo un sinonimo di immaturità, un segno di debolezza.
C’è
un’ultima osservazione che voglio fare su questo brevissimo libro (si legge,
cronometrato, in un’ora) ed è relativa all’ultimo racconto, Missione a Berlino
di un redattore suicida, che mi ha colpito particolarmente: una trama
originale, straniante e surreale, con il protagonista che alla fine finisce per
svanire all’interno della storia che ha raccontato. Un racconto diverso da
tutti gli altri, ma perfettamente riuscito, a dimostrazione delle capacità
dell’autore di esprimersi al meglio anche con registri narrativi differenti.
martedì 7 giugno 2016
Who am I?
"Allora, dunque, chi sono io? Quello dei test della personalità? Ma questi non fanno altro che ritagliarmi in sbiadite diapositìve. In momenti diversi, in base a essi, ho personalità differenti. La nostra interiorità non è però un album di fotografie. Noi non siamo oggetti, ma processi. Io sono, in fin dei conti, la mia ricerca di me. Esisto perché cerco il mio me stesso. Non al fine di ritrovarmi: il fatto che cerchi me stesso è il segno che mi sono già trovato."
[Mircea Cărtărescu, : "Perché amiamo le donne"]
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