mercoledì 7 settembre 2016

Ma questo bene non è fasullo. Io lo so che non è fasullo. Lo giuro


“cado sugli spini della vita, sanguino. E poi? Cado sugli spini della vita, sanguino. E dopo? Mi faccio portare a letto, mi prendo una breve vacanza, ma dopo pochissimo tempo ricado su quegli stessi spini, compiacendomi del dolore, o soffrendo di gioia - e vattelappesca qual è la combinazione di queste cose! Che cosa c'è di buono, che bene duraturo c'è in me? Non c'è dunque altro fra la nascita e la morte che quello che riesco a tirar fuori da questa perversità - solo un bilancio attivo di emozioni disordinate? Niente libertà? Solamente impulsi? E allora, tutto il bene che ho nel cuore - non significa niente, dunque? È solo una presa in giro? Una falsa speranza che fa provare a un uomo l'illusione del valore? Così lui va avanti e continua a battersi. Ma questo bene non è fasullo. Io lo so che non è fasullo. Lo giuro."

[Saul Bellow: "Herzog"]

mercoledì 17 agosto 2016

Mircea Cărtărescu – Abbacinante . L’ala destra


Volere volare

Ho trovato il libro che chiude la trilogia di Abbacinante a un livello qualitativamente leggermente inferiore rispetto ai due volumi che lo precedono. D’altra parte, se ne L’ala sinistra e – soprattutto – ne Il corpo, Cărtărescu aveva potuto spingere la fantasia in tutte le direzioni senza preoccuparsi troppo del fatto che la trama risultasse diluita in mille rivoli, ne L’ala destra è chiamato a percorrere una strada obbligata: andare cioè a chiudere tutte le parentesi rimaste aperte nei volumi precedenti e a riprendere i mille fili del discorso per ricondurli a una conclusione unitaria. Compito non da poco, che Cărtărescu riesce comunque a portare a termine senza forzature evidenti.
Detto questo, è giusto aggiungere che Abbacinante rappresenta un unicum nel panorama della letteratura mondiale contemporanea e che con L’ala destra l’autore aggiunge un altro tassello alla sua costruzione fantastica, costruzione che – al solito – tende a sfuggire all’analisi perché risulta sempre in movimento, espandendosi in tutte le direzioni: verso l’alto come verso il basso, in profondità come nello spazio e anche nel tempo. Cărtărescu prende le rette lungo le quali scorrono queste dimensioni e letteralmente le curva, portandole fuori strada, verso un altrove sconosciuto, aggiungendo cioè dimensioni all’universo (Si potrebbero vedere in successione mondi che si sviluppano e muoiono e, così come è possibile guardare nel forziere disegnato su carta di un mondo a due dimensioni, mentre le creature di quel mondo fissano il loro sguardo sulle loro pareti fatte di una sola linea, dalla fine illimitata del mondo con una dimensione in più possiamo guardare (e penetrare) in case inchiavardate, in crani, in vagine, nella struttura raffinata dello spazio di Planck. Leggeremmo tutti i pensieri e non ci resterebbe nulla segreto. Saremmo allo stesso tempo fra i discepoli istupiditi, moriremmo a un tratto dentro prigioni rinserrate con spranghe e grosse catene).
Cărtărescu è simile al falco che osserva dall’alto il mondo sotto di lui: a volte vola altissimo oltre le nuvole, rendendosi invisibile al nostro occhio, a volte plana in picchiata velocissimo, verso un punto infinitesimale là in fondo, raggiungendolo in un attimo per poi, sorprendentemente, penetrare al suo interno, passando dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo in un attimo, lasciando il lettore con un misto di vertigine e appagamento che è la cifra di questa prosa.
Non si può usare altro termine che vertigine per una storia che a differenza di tutte quelle nelle quali mi è capitato di imbattermi nel corso delle mie letture, risulta “viva”, clamorosamente viva. Non appena le parole si posano sul foglio, ecco che iniziano a muoversi, a stabilire connessioni nuove, evidenti o sotterranee, diventando altro da sé; che senso ha, allora, cercare di dare un’interpretazione univoca a un’opera come questa? Inutile, impossibile. Molto meglio lasciar perdere e seguire Mircea lungo le pagine, lasciandoci portare dal suo vaneggiamento come fossimo viaggiatori su un treno che attraversa paesaggi sconosciuti e meravigliosi: mettiamo da parte le domande, non chiediamo dove siamo e dove stiamo andando, ma guardiamo fuori dal finestrino e lasciamoci travolgere da tanta bellezza, sapendo che quello che stiamo osservando è diverso per ognuno di noi, perché ognuno di noi vede con la sua sensibilità, con la sua fantasia, perché in realtà stiamo sognando.

Abbacinante è il viaggio di un visionario verso la Bellezza assoluta, una cavalcata folle e solitaria alla ricerca di una porta che ci permetta di uscire dalla vita a due dimensioni, una porta che permetta di dare realtà ai nostri sogni. 
Abbacinante è un viaggio impossibile e Cărtărescu un epigono di Prometeo o di Icaro, un visionario che pur sapendo di essere destinato al fallimento non può fare a meno di sforzarsi di trascendere questa realtà: volando alto, volando oltre, volando verso un mondo di sogno nel quale  gli opposti andranno ad armonizzarsi e a costituire la forma perfetta, dalla quale ripartire poi verso uno stato successivo.

sabato 13 agosto 2016

Witold Gombrowicz – Trans-Atlantico




Trans-Atlantico è un libro originale, contraddittorio e provocatorio. Almeno quanto il suo autore.

Solo un provocatore come Gombrowicz poteva pensare di scrivere nel dopoguerra un libro che mettesse alla berlina la Polonia e i polacchi, per di più dopo essere praticamente scappato da quella guerra, e ancora di più facendolo passare per un libro che doveva fungere da pungolo, per stimolare la Polonia e i polacchi ad uscire da quegli stereotipi dei quali erano vittime più o meno volontarie!

Eppure, se proviamo a seguire l'autore e a passare dalla storia alla fantasia, dalla realtà alla letteratura, ecco che le cose cambiano. Nella retta ideale che collega i tre grandi romanzi di Gombrowicz, Trans-Atlantico si colloca dopo Ferdydurke e prima di Pornografia e di Cosmo. Rispetto al primo risulta in continuità per quanto riguarda lo stile parodistico e la lingua, che a tratti sembra un abito troppo stretto che fatica a contenere l'irruenza dell'autore e che finisce per frantumarsi in neologismi e costruzioni ardite, pile di parole che nello sforzo di arrampicarsi verso il concetto che vogliono rappresentare finiscono per crollare miseramente a terra. Degli altri due invece, Trans-Atlantico anticipa parecchie e importanti tematiche, basti pensare al dualismo Vecchio/Giovane che deflagrerà poi in Pornografia e all'impossibilità di individuare una realtà condivisa che sarà alla base di Cosmo.

Probabile che al successo di  Trans-Atlantico abbiano nuociuto le polemiche su Gombrowicz come anti-polacco, peccato perché si tratta di un libro meritevole, che offre più di uno spunto di riflessione. Già il tema al centro del romanzo, il figlio conteso tra un padre apprensivo e un pederasta innamorato, con il diritto del ragazzo di affrancarsi dal giogo del primo e il rischio di finire tra le grinfie del secondo,  sarebbe argomento da tragedia greca che l'autore decide invece di risolvere in farsa, come se le scelte di vita fossero alla fine poco importanti. Ma ci sono anche sono mille  altri aspetti che catturano l'attenzione nella lettura di questo romanzo: c'è (secondo me) la metafora della Polonia stessa, divisa tra nazismo e stalinismo e che come il ragazzo è preda contesa da entrambi, c'è il Vuoto (esistenziale?) che ricorre di frequente tra le pagine, e accanto ad esso il “camminare” del protagonista (Gombrowicz stesso), un camminare senza senso, una ricerca del significato nell'azione (quell'azione che ritornerà in Cosmo), c'è (addirittura) una trama che a tratti sembra ripercorrere, mutatis mutandis, la passione di Cristo. C'è, soprattutto, l'assurdo, una presenza soverchiante che incombe su tutto, rendendo vano ogni comportamento: assurde sono le conversazioni tra i personaggi, assurdi i loro comportamenti, i loro tentativi di soverchiarsi l'un l'altro, le sofferenze che si infliggono.

Perché la realtà per Gombrowicz non esiste, è una specie di prisma attraverso il quale ognuno vede il (suo) mondo, e il nostro affannarci per cercare di dare unità, per creare una visione condivisa e condivisibile  è simile al tentativo del bambino di costruire un argine di sabbia sulla riva. È solo questione di tempo, perché prima o poi l'onda del mare spazzerà via il frutto di tanto impegno,  eppure noi siamo destinati a non capire la lezione e a rimetterci all'opera con paletta e secchiello  e immutato impegno, per ricostruire in piedi una nuova diga destinata anch'essa a crollare sotto i colpi del mare, come quella che l'ha preceduta e come quelle che la seguiranno. Dietro di noi, seduto su una sdraio sotto un ombrellone, ci sarà il vecchio Gombrowicz, impegnato a guardarci di nascosto da dietro il giornale compatendo con un sorriso l'inutilità dei nostri sforzi.

domenica 7 agosto 2016

David James Poissant - Il paradiso degli animali


carverismi

Ho difficoltà a esprimere un giudizio su questi racconti, complessivamente ben scritti eppure privi in parecchi casi di una loro identità.
Racconti che mettono al centro gente che non ce l’ha fatta: che ci ha provato e ha fallito, che ci ha provato per un po’ e poi si è accontentata o che non ha potuto nemmeno provarci. Sfortunati, falliti, vite in stand by, uomini rimasti ai margini di un mondo che procede dritto per la sua strada, rami secchi che il fiume ha spinto verso la riva destinati a non raggiungere mai il mare. Esistenze segnate da qualcosa che a un certo punto si è rotto e che ora faticano a costruirsi un presente, un rapporto con gli altri.
Storie che parlano di gente che per tutta la vita ha cercato di nascondere la polvere sotto il tappeto e che di colpo si trova a dover fare i conti con la realtà, e non si tratta di conti semplici. Storie di difficoltà a comunicare, di problemi di empatia, di incapacità a dare o ricevere affetto. Storie di persone disilluse, costrette dalla vita ad abbassare l’asticella delle loro aspettative e che adesso aspirano alla normalità più che ad una felicità che sembra ormai una chimera. Una normalità fatta di sentimenti condivisi, di calore umano, di quell’amore che sembra correre via come un treno in corsa sul quale è difficile salire, ma dal quale è facilissimo cadere.

Tutto bene? Mica tanto.
Per cominciare direi che se mi fossi fermato alla quarta di copertina non avrei mai letto questo libro: in solo sette righe ci sono tre mostri sacri come Flannery O’Connor, George Saunders e Raymond Carver tirati fuori completamente a sproposito  (almeno i primi due, perché il terzo merita un discorso a parte) e poi un invito alla lettura che secondo me non c’entra niente, ma proprio niente, con questi racconti: Questo libro è per chi sogna di viaggiare su un furgoncino Volkswagen in compagnia di un labrador nero, per chi ama i film di Wes Anderson e il deserto di Bagdad Café, e per chi a volte teme di essere un pazzo ma in realtà è caduto in un cerchio magico da cui riuscirà prima o poi a uscire.
A prescindere poi da come è presentato il libro, quello che ho trovato poco convincente è stato l’uso troppo “scoperto” di certi stereotipi: i riti di passaggio (Il ragazzo che sparisce), il genio bambino (La geometria della disperazione) usato prima da Salinger e poi diventato cliché, la persona priva di un arto (Il braccio) che ricorda un racconto di F. O’Connor, la perdita di un figlio…  A questo aggiungerei che alcuni racconti mi sono sembrati un po’ troppo “didascalici”, ma soprattutto che un po’ in tutta la raccolta (ad eccezioni di un paio di racconti attraversati da una vene surreale, come Il lupo e Il bambino che brilla, e che per questo sembrano un po’ dei corpi estranei) si nota un “carverismo” fin troppo di maniera, nel senso che Poissant riprende ambientazione e stile dell’originale senza però svilupparli in modo personale (come invece fa Kevin Canty, per fare un esempio). L’imitazione di Carver in certi racconti diventa “totale”: dalla costruzione della frase, ai dialoghi, all’alternarsi di descrizioni d’ambiente con improvvise focalizzazioni su dettagli minimi, al non detto, alle piccole incrinature nei rapporti tra i personaggi che lasciano intuire voragini… Carverismo ai massimi livelli, ma, appunto, -ismo.
Peccato perché quando l’autore lascia la strada maestra dimostra di saper camminare anche le proprie gambe. L’ultimo racconto, quello che da il titolo alla raccolta, è una specie di on the road in solitaria, la storia di un vinto che non può fare a meno di combattere, una corsa del protagonista contro il tempo sapendo già che il tempo non potrà essere sconfitto. Un racconto nel quale Poissant abbandona il carverismo di stretta osservanza per uno stile più lirico, più personale. Più vero.

Complessivamente ho trovato Il paradiso degli animali un prodotto ben confezionato, il problema è che “prodotto” non è esattamente un termine a cui mi piace pensare quando parlo di libri.

mercoledì 3 agosto 2016

Watt: l'inganno delle parole


Watt si trovava ora in mezzo a cose che, se consentivano di essere nominate, lo facevano per così dire con riluttanza.
Guardando una pentola, per esempio, o pensando a una pentola, una delle pentole del signor Knott, a una delle pentole del signor Knott, invano Watt diceva, Pentola, pentola. Beh, forse non del tutto invano, ma quasi del tutto. Infatti non era una pentola, più guardava, più rifletteva, più si sentiva sicuro di ciò, che non era affatto una pentola. Assomigliava a una pentola, era quasi una pentola, ma non era una pentola di cui si potesse dire, Pentola, pentola, ed esserne sollevato. Invano adempiva, con impeccabile adeguatezza, a tutti gli scopi, e forniva tutte le prestazioni, di una pentola, non era una pentola. Ed era proprio tale impercettibile differenziarsi dalla natura di una vera pentola che tanto angustiava Watt. Perché se l'approssimazione fosse stata meno grande, allora Watt si sarebbe dato minor pena. Perché allora non avrebbe detto, Questa è una pentola, eppure non è una pentola, no, ma allora avrebbe detto, Questo è qualcosa di cui io non so il nome. E Watt preferiva, a conti fatti, aver a che fare con oggetti di cui non sapeva il nome, sebbene anche questo fosse penoso per Watt, piuttosto che aver a che fare con oggetti di cui il nome noto, il nome accettato, non era il nome, non lo era più, per lui. Perché poteva sempre sperare, di una cosa della quale non aveva mai saputo il nome, che ne avrebbe imparato il nome, un giorno o l'altro, e così essere tranquillizzato. Ma non poteva aspettarsi questo nel caso di un oggetto il cui vero nome aveva cessato, improvvisamente, o gradatamente, di essere il vero nome per Watt. Perché la pentola rimaneva una pentola, di questo Watt si sentiva sicuro, per tutti all'infuori di lui. Per Watt solo non era una pentola, non lo era più.

sebbene accadesse talvolta che un momento di riflessione fosse bastante a fissare il suo atteggiamento, una volta per tutte, verso le parole quando risonavano, di modo che gli piacevano, o gli dispiacevano, più o meno, più o meno, secondo un piacere o dispiacere inalterabile, pure questo non accadeva spesso, no, ma pensando ora così, ora colà, alla fine non sapeva che cosa pensare, delle parole che avevano risonato, anche quando erano piane e semplici come quelle sopra, dal significato così evidente, e dalla forma così inoffensiva, questo non aveva importanza, non sapeva che cosa pensarne, da un anno all'altro, se ritenerle prive di significato, o ricche, o indifferenti.