sabato 12 novembre 2016
sabato 5 novembre 2016
Georgi Gospodinov – …e altre storie
Anche nei racconti
(che pure non mi sembrano la forma letteraria che più gli è congeniale)
Gospodinov si conferma una delle voci più interessanti nel panorama letterario
europeo contemporaneo.
“…e altre storie” è una
raccolta in bilico tra reale e surreale, nella quale ritroviamo di frequente episodi
dell’infanzia dell’autore che filtrati dalle esperienze successive finiscono
per diventare qualcosa di diverso. Infanzia come regno della fantasia che
genera possibilità infinite ed altrettanti mondi, ai quali si contrappone la
realtà monolitica delle età successive, per definizione unica e immodificabile.
La capacità di
inventare storie è la strada che Gospodinov ci indica per sfuggire al grigiore
di una vita altrimenti destinata a correre sui binari delle certezze, ma lo
scrittore non si ferma qui: l’ironia lieve che attraversa queste storie e che sembra
voler togliere peso alle situazioni narrate è una specie di cavallo di Troia
che nasconde al suo interno un disegno eversivo, visto che lo stesso autore non
manca di farci notare come ormai nessuna
storia può più essere inoffensiva (“La mosca nel pisciatoio”). Nella lotta
contro la realtà la fantasia diventa un’arma in grado di generare conseguenze imprevedibili: basta il
saluto di una sconosciuta ad innescarla, forse perché siamo in qualche modo “predisposti”,
in attesa dell’imprevisto, di qualcosa fuori dagli schemi in grado di
modificare la routine (“Cristina che saluta tutti dal treno”).
Ma la fantasia può
essere un’arma pericolosa anche per chi la usa, come in “Un regalo arrivato
tardi”, quando un poveraccio crede di essere inquadrato dalla televisione e si
sente costretto ad improvvisarsi intrattenitore per una notte intera, o come
nel bellissimo “Peonie e pansè” che ci mette in guardia sul rischio di rimanere
abbacinati dalla bellezza del sogno finendo per perdere di vista i tempi della
vita o magari per auto-suggestionarsi come il vecchio di “Anima viva” che parla
con i defunti del cimitero come se fossero vivi.
Storie per recuperare
la capacità di volare, storie per ingannare il tempo, storie per difendersi
dalla realtà… ne abbiamo bisogno, questo è il punto: sono belle di per sé, per
il solo fatto di esistere, e pazienza se ad ascoltarle è qualcuno che non
capisce la nostra lingua (come in “Una seconda storia”, uno dei racconti più
interessanti della raccolta).
domenica 30 ottobre 2016
del tentativo chagalliano di Cărtărescu di uscire da una vita bidimensionale
E noi, persone senza importanza, simili alle formiche sopra i tronchi d’albero,
cieche a tutto ciò che è a più di due centimetri dai nostri corpi sodi e bruni.
La nostra vita con due centimetri di spessore. Allora mi è accaduto qualcosa: guardavo
come la mamma fluttuava in cucina, immersa fino al petto, insieme col mulino e
con l’inverno e con i colombi, nelle acque dense del mio manoscritto, e a un
tratto mi sono chiesto se in qualche modo anche il mondo è un forma di realtà,
magari consistente quanto la finzione, se in qualche modo anche la vita è
autentica quanto i sogni.
[Mircea Cărtărescu:”Abbacinante-
L’ala destra”]
sabato 22 ottobre 2016
Tommi Wieringa – Questi sono i nomi
Homo hominis lupus/homo hominis deus
Un Wieringa sorprendente,
lontano anni luce dai fuochi d’artificio di Joe
Speedboat, confeziona qui un gran un romanzo partendo da un tema di triste
attualità, quello dei migranti. In Questi
sono i nomi due sono le storie che si alternano fino ad incontrarsi e poi
diventare una sola: le traversie di un gruppo di disperati che tentano
(credono) di fuggire da un non precisato paese dell’Asia seguendo il miraggio
di un vita migliore e la storia di Pontus Berg, commissario di polizia in un
posto di frontiera, anche lui alla ricerca di qualcosa: la sua identità, capire
chi è.
Interessante e
originale è il parallelismo tra le peripezie dei migranti e quelle degli ebrei
in fuga dall’Egitto, come a dirci che non c’è nulla di nuovo sotto il sole e
che i problemi dell’uomo che scappa dall’uomo continuano ad essere gli stessi.
Interessante è anche come Wieringa concentri l’attenzione sul fatto che i vari
personaggi del racconto, al di là dei bisogni materiali, sentono forte la
necessità di credere in qualcosa, di affidare a qualcuno (che sia una divinità
o un portafortuna) il ruolo di guida per le loro vite. Interessanti sono poi le
riflessioni sulle dinamiche comportamentali del gruppo, su come le difficoltà e
l’influenza dell’ambiente ostile facciano regredire l’uomo a livelli subumani,
quasi a ricordarci che i comportamenti animali sono una parte di noi che non
vogliamo vedere e che fatichiamo a tenere a freno, le stesse dinamiche che,
mutatis mutandis, ritroviamo anche nella descrizione delle società delle
repubbliche asiatiche post-sovietiche, dove domina la legge del più forte ed
imperano ingiustizia e clientelismo.
Questi sono i nomi è un libro sull’uomo, sulle sue domande che non trovano risposte e
sulla partita a scacchi che gioca con la vita, scopo della quale, per dirla con
le parole del rabbino Eder, “ sarebbe
condurre l’avversario in una selva oscura, quella in cui due più due fa cinque,
e il sentiero per uscirne è abbastanza largo solo per uno dei due”.
domenica 9 ottobre 2016
Juan Carlos Onetti - Il cantiere
Triste, solitario y
final
Romanzo
imprescindibile nella bibliografia onettiana, nel quale ritroviamo Larsen - il
Raccattacadaveri protagonista della saga di Santa María - al passo d’addio.
L’autore ce lo
presenta nel momento in cui fa la sua comparsa nella cittadina. Ed è una
presentazione da par suo:
“Larsen scese dalla fermata delle corriere che arrivano da Colón, posò
un momento la valigia a terra per tirarsi verso le nocche i polsini di seta
della camicia e si avviò verso Santa María proprio quando aveva da poco smesso
di piovere, lento e dondolante, forse più grasso, più basso, anonimo e in
apparenza domo.”
In apparenza domo. Tre
parole, poste alla fine della prima pagina, pesanti come macigni, tre parole
con le quali Onetti traccia la strada, i binari sui quali correrà il romanzo. Si
tratta di binari privi di suspense perché le cose, come spesso succede nei
romanzi dello scrittore uruguayano, sono già scritte fin dall’inizio. Se e è
vero infatti che sono il caso e il destino a riportare Larsen a Santa María, “per concedergli l’ingenua rivincita di
imporre nuovamente la sua presenza alle strade e ai locali pubblici dell’odiata
città”, è anche vero che la rivincita che Raccattacadaveri vorrebbe
prendersi è, appunto, “ingenua”, destinata cioè a fallire in partenza.
Larsen è destinato
alla sconfitta. Il massimo a cui può aspirare è “continuare a perdersi senza doverlo accettare, senza che la sua rovina
diventasse lampante, pubblica, spassosa”, ha intuito di essere cascato
dentro una trappola, eppure decide di giocare una partita che non può vincere
piuttosto che provare a tirarsene fuori e lo fa “perché questa era la sua ultima possibilità di illudersi”.
Larsen è l’uomo che si
trova nel fondo del dirupo e decide di rimanervi, perché quella è la sua vita, e
al di fuori “non c’è altro che l’inverno,
la vecchiaia, il non sapere dove andare, persino la possibilità della morte”.
Ma Larsen è anche l’uomo che cerca di tirarsi fuori dal baratro nel quale è
sprofondato e e l’appiglio che trova è quanto di più pericoloso poteva
aspettarsi, vale a dire le braccia di Jeremías Petrus, un vecchio faccendiere
ed impostore che sta precipitando nel vuoto come lui, ma che a differenza di Larsen
non se ne cura. Sul fondo del pozzo a fare compagnia a Raccattacadaveri c’è la
lunga teoria dei vinti, degli sconfitti dalla vita: c’è chi, come Galvéz,
cercherà di ribellarsi al suo destino finendone schiacciato, chi, come Angelica
Inés, vive nella prigione dorata della sua pazzia, e poi gli altri, un’umanità
dolente che si trascina per le strade di Santa María indifferente a tutto
quello che succede, un po’ per abitudine, un po’ perché non sa, non può o non
vuole fare altrimenti.
Larsen si sente
diverso dagli altri e cerca di lottare per sfuggire alle sabbie mobili, senza
rendersi conto che più si muove e più rapidamente il fango lo risucchia al suo
interno.
Larsen gioca a carte
con la Vita, ad ogni giro crede di avere in mano le carte per conquistare la
posta e poi finisce per perdere la scommessa. Eppure non si rassegna e
rilancia, consapevole che quella che sta giocando è l’ultima partita, la sua
ultima possibilità di avere se non un futuro almeno un presente, e si ingegna a
trovare una via d’uscita dall’angolo nel quale la Vita lo ha schiacciato.
Rilancia al buio, bluffa, prova a confondere il suo avversario, tira fuori
tutto l’armamentario che ha accumulato in anni e anni di partite a carte pur di
rimanere a galla.
Tutto inutile, dall’altra
parte del tavolo siede la Vita, un avversario che nessuno ha mai sconfitto
perché sa sempre che carte abbiamo in mano.
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