domenica 22 aprile 2018

Gajto Gazdanov – Strade di notte




Memorie del sottosuolo.

Il “sottosuolo” di Gazdanov è il “demi-monde” della Parigi degli anni ’30, sullo sfondo del quale si muove il protagonista del romanzo, un tassista notturno senza nome dietro al quale si nasconde l’autore. Un sfilza di incontri con una serie infinita di personaggi, ognuno dei quali meriterebbe un libro a parte: Platone, la Raldi, monsieur Martini, Suzanne, madame Duval, Alice, Vasil’ev, Fedorcenko, vite in bilico tra essere e non-essere personaggi dal sapore onettiano (ma la similitudine finisce qui), che scivolano più o meno velocemente verso l’autodistruzione. Sono personaggi che vanno a fondo aggrappati a sogni impossibili, ai quali si sforzano di credere perché sono l’unica cosa in grado di tenerli ancora un po’ a galla, oppure che cavalcano gloriosamente la loro sconfitta, schiavi consapevoli di un destino che li obbliga a vivere una vita da formiche per poi dilapidare ogni avere nell’euforia dell’attimo.
Capire le vite degli altri, questo è il motivo che spinge il protagonista ad avvicinare queste persone. Una curiosità destinata ad essere frustrata dalla sua incapacità a “comprendere passioni e pulsioni che sentivo estranee”, un’empatia quindi cercata ma non trovata perché il nostro è un personaggio in bilico tra disprezzo e pietà nei confronti dei suoi interlocutori, consapevole di vivere lui stesso sulla soglia di quella bassezza che vede intorno a se e di non poter aspirare a nulla di meglio.
Il disprezzo di Gazdanov è quello dell’esule, condannato ad abitare in un mondo che non è il suo e nel quale non si ritrova, un sottobosco nel quale si muove anche un’articolata fauna di emigrati russi: truffatori, trafficanti, gente che vive di ricordi e gente che vuole dimenticare, tutti accomunati dall’essere in caduta libera verso il fondo dell’abisso. Eppure è la pietas la nota prevalente nell’animo del protagonista, motivata dal fatto che gli uomini che incontra sono tutti disprezzabili, tutti sullo stesso piano, tutti prigionieri dei loro limiti e condannati al fallimento perché privi di pensiero astratto, appiattiti sulla ricerca di un buon senso di maniera che rappresenta un modo di evitare i dubbi e le novità. Solo Fedorcenko proverà a rompere gli schemi cercando di abbandonare la superficie rassicurante della logica per avventurarsi nei territori dell’irrazionalità, pagando con la vita (novello Icaro) il tentativo di trascendere la propria natura.

sabato 14 aprile 2018

Alice Munro - Chi ti credi di essere?



Alice è un ragno,
e i suoi racconti una tela che l’autrice dipana con la sicurezza di chi è padrona di una tecnica sopraffina. Non una parola fuori posto, si usa dire in certi casi, e i racconti di Chi ti credi di essere? sono proprio uno di questi casi.
Questo libro è un romanzo sotto forma di racconti, ognuno dei quali tratteggia un episodio della vita di Rose. Sono storie in bilico, “a metà tra la sfortuna e la colpa, sempre sull’orlo sdrucciolevole del fallimento”, con il rischio che la situazione precipiti da un momento all’altro.
Munro analizza le sfumature dei sentimenti, come si trasformano e con che velocità, indaga la volubilità dell’animo umano, la difficoltà dei protagonisti di chiarire (prima di tutto a se stessi) cosa vogliono davvero. Rose è l’emblema di una serie di personaggi che aspirano alla normalità ma vivono nell’indeterminatezza, nella provvisorietà emotiva, che cercano di corrispondere all’immagine che hanno di sé o a quella che vogliono dare agli altri. L’autrice scivola con mano sicura dalla superficie alla profondità delle cose e la messa a fuoco risulta sempre imperfetta, perché le cose possono essere diverse da come appaiono, i comportamenti possono essere interpretati e spesso anche i protagonisti non sono certi del significato delle loro azioni.
Chi ti credi di essere? è un viaggio tra le pieghe dell’anima: le contraddizioni, i dubbi e come questi condizionano l’agire delle persone, sono il materiale del quale si nutre la ricerca dell’autrice, materiale dal quale tira fuori un libro di grande qualità.

sabato 7 aprile 2018

Cesare De Marchi – La furia del mondo



La Grande Letteratura.

Libro alto. Quasi di altri tempi. Una scrittura rotonda, controllata, lenta e che a tratti appare anche un po’ impolverata, perché questo è un libro pubblicato nel 2006 ma che potrebbe tranquillamente essere stato scritto cento anni prima. 
La furia del mondo è un grande romanzo italiano, uno di quelli dei quali andar fieri e che contiene un sacco di cose: trama e ordito, scrittura e intreccio e poi arte, storia, filosofia, musica… Da Tasso a Giordano Bruno, dalla Divina Commedia a Shakespeare a Lutero, al padre di Bach, e tutto tenuto insieme meravigliosamente bene.
Un libro sull’inesplicabilità della vita, sulla ricerca vana di Rupprecht Radebach di trovare ad essa un senso. Un libro sulla “volontà intorpidita” di Abel (nomen omen), uccello troppo fragile per resistere alla furia del mondo. Ma anche un libro sulla vita di Uli e di Annette e di Christa e della malmaritata e di mille altre figure che faticano, che si adattano o provano a farlo, cercando un equilibrio che è fatto anche di rinunce o rimpianti e che si porta dietro il dolore e la fatica di una vita che rimane sempre troppo lontana da quella che avrebbero voluto. 
Con La furia del mondo De Marchi sceglie la strada della continuità, con una prosa che rinuncia al mito del post-qualcosa e del meta-qualcos’altro per inserirsi nella scia della tradizione e sfoderare un romanzo di grande spessore, uno dei grandi romanzi italiani del nuovo millennio.

sabato 31 marzo 2018

Alla fine il conto è zero


Viviamo senza capirne niente
fingendo, alcuni, di capirne tutto
dei giorni nostri in fila tra trascorsi nel trastullo
con i nostri hobby horse da strapazzo:
liti manie credenze
ruote da pavoncelli sediziosi
riti d’elevazione o d’abiezione
scongiuri voci impositive
oltraggi all’umiltà.
A poco servono teologi da festival
che ne sanno ancor meno
delle beghine di paese
bistrattate da poeti tracotanti;
e augusti filosofi verbigeranti
sotto il segno del mito o della moda;
e iene maculate dai denti gialli
che ringhiano, a loro tornaconto,
spirito di servizio o senso d’appartenenza.
Se ne può, di tutti – state certi –
fare anche senza.
Alla fine, il conto è zero:
la nostra sola scienza.

[Enrico Testa: “Cairn”]

sabato 17 marzo 2018

Kazimierz Brandys - Lettere alla signora Z.



I “tre pazzi” per la narrativa e un’altra triade (Herbert, Miłosz e Zagajewski) per la poesia: così si potrebbe riassumere la grande letteratura polacca del Novecento.
In realtà si tratta è una semplificazione eccessiva e Konwicki, Andrzejewski e Szymborska sono i primi nomi che mi verrebbero in mente per rimpolpare la lista.
E Kazimers Brandys, aggiungo ora.
Lettere alla signora Z. è un originale zibaldone di pensieri di un grande polemista, uno strano Grand Tour nel quale il Bel Paese è utilizzato come pretesto per riflettere sull’identità dei polacchi ma anche su molto altro. La forma è quella dell’epistolario, una serie di lettere indirizzate appunto alla signora Z., una conoscente dell’autore; i temi trattati sono la vita, i cliché, il tema dell’identità polacca, ma si tratta di riflessioni di ampio respiro e che possono essere facilmente allargate all’uomo in generale.
La seconda parte del libro è relativa a lettere che l’autore indirizza all’amica dalla Polonia e risulta, a mio avviso, più debole, incentrata prevalentemente su considerazioni relative a costumi, abitudini e comportamenti della società del tempo.

“Cara Signora, sono profondamente convinto che non sia possibili descrivere ciò che si è visto. Si possono registrare dei dettagli, si può fare un inventario, stabilire i fatti e basta. Ma per ricreare la realtà, per darle lo stesso valore nella descrizione c’è solo un mezzo: inventare. In effetti vale la pena di ricordare certe cose, anzi, qualche volta è indispensabile per legittimare la finzione (ci vuole un chiodo su cui appendere il quadro); ma i veri bugiardi, i bugiardi per pura passione, si servono della verità come di un male indispensabile. Circondato da fatti, oggetti e persone, lo scrittore deve essere un fanfarone, altrimenti è perduto. Deve badare ai suoi fatti interni, la sua verità è sempre una verità su se stesso. La letteratura impegnata, della quale sono un sostenitore, consiste nell’includere se stessi nelle questioni del nostro tempo. Dicendo “se stessi” intendo l’individualità, le esperienze private, la difesa del proprio io da tutto quel che lo annienta. La letteratura è fatta di questioni centrali dello scrittore tra le quali a volte si trovano anche questioni centrali dell’umanità.”