domenica 21 ottobre 2018

Roberto Arlt – I lanciafiamme





“Vorrei sapere se lei è un commediante, un cinico o un avventuriero”.
“Tutti e tre i concetti esprimono la medesima cosa”.

Questo il dialogo tra l’avvocato amico di Haffner e l’Astrologo, questa più o meno la definizione di Arlt data da Onetti (“non so se sia stato un angelo, un figlio di puttana o un commediante, o forse tutte e tre le cose insieme”). Arlt, il più “irregolare” dei grandi scrittori argentini del Novecento, che con I lanciafiamme firma un grande romanzo, che non perde un’oncia del peso specifico de I sette pazzi, opera della quale rappresenta il seguito.
Un romanzo dalla struttura quasi frammentaria, privo di un centro forte intorno al quale ruoti la trama e costituito da tanti nuclei che portano acqua alla storia. Un romanzo di personaggi, l’identità dei quali viene fuori da quello che dicono e fanno ma anche da come appaiono nel racconto degli altri. I protagonisti sembrano porsi le domande giuste (il senso della vita, il loro ruolo nel mondo…), ma poi non hanno strumenti sufficienti a costruire le risposte adeguate: vanno per approssimazione, per convenienza, per sopravvivenza. Sono uomini e donne che sembrano appartenere al sottosuolo dostoevskijano, e in effetti si sarebbe tentati  di leggere questo libro come un Delitto e castigo porteño se non fosse che il delitto di Erdosain non è tanto quello (mancato) di Barsuit o quello della Guercia, quanto quello che la società ha commesso nei suoi confronti e che lui tenta in qualche modo di espiare, con il risultato sorprendente di condurre la storia dalle parti del dramma esistenziale (e con un certo anticipo sui tempi).
Erdosain e l’Astrologo sono le figure che dominano la trama, accomunati dall’idea di distruggere lo status quo attraverso una rivoluzione sociale che prevede uno sterminio di massa preludio di una ricostruzione che spetterà ad altri, ma profondamente diversi nei loro caratteri. L’Astrologo è un cattivo maestro, un teorico che ammalia con il fascino dei suoi discorsi e ha facile presa sulle personalità più influenzabili, una mente lucida e folle al tempo stesso che, come tutti i cattivi maestri, manda gli altri a morire in nome delle sue idee. Erdosain è un solitario, un uomo privo di speranze ma anche di illusioni, uno che odia la società per quello che è diventata, che ama la vita ma odia quello che le hanno fatto gli uomini, uno che soffre davvero e da così tanto tempo da essere stato profondamente cambiato dal dolore fino a diventare una miscela esplosiva di sadismo, sensi di colpa, odio, frustrazioni, cattiveria, debolezze e fanatismo, un individuo amorale che vive con l’unica certezza che la liberazione alle sue sofferenze arriverà con il suicidio.

I mostri avrebbe dovuto essere in origine il titolo di questo libro, poi modificato in I lanciafiamme, probabilmente perché più “letterario”, meno disturbante. In realtà I mostri sarebbe stato più indicato perché mostri sono per un motivo o per l’altro tutti i personaggi che incontriamo durante la storia: gente disposta a vendere la figlia minorenne, gente che uccide o lascia morire gli altri senza manifestare compassione o altri sentimenti. Mostri ma con una vita interiore, abitati da angosce profonde e legati mani e piedi da nodi che non riescono a sciogliere.
A ben pensarci però, se i personaggi creati di Arlt dimostrano di essere così contraddittori è giusto che anche l’autore, almeno nel titolo del libro, si ponga al loro stesso livello.

Aggiungo che nell’albero genealogico di Roberto Bolaño, da qualche parte deve esserci un antenato di nome Roberto Arlt.

sabato 13 ottobre 2018

Olga Tokarczuk – Casa di giorno, casa di notte




L’unica cosa che posso dire di me stessa è che mi lascio vivere, scorro attraverso un luogo nello spazio e nel tempo e sono la somma delle proprietà di questo luogo e di questo tempo, niente di più.

Si, si può fare buona letteratura senza squilli di tromba o trovate sensazionalistiche e questo libro ne è la limpida dimostrazione. Con Casa di giorno, casa di notte, Olga Tokarczuk confeziona un ottimo piatto fatto con ingredienti poveri. Poveri ma genuini, veri, non sofisticati.
L’autrice ci porta a spasso per le strade di Nowa Ruda, una cittadina al confine tra Polonia, Germania e Repubblica Ceca e ci presenta le storie sgangherate di un’umanità variegata, composta da personaggi di paese, uomini e donne che sembrano trascinare a spasso le loro esistenze senza vedere oltre il proprio naso. Attenzione però a non trarre conclusioni affrettate, perché questa è solo l’apparenza. Come avverte la voce narrante all’inizio del libro: “l’immobilità di quanto vedo è apparente. Basta che lo voglia e posso penetrare l’apparenza”.
Pensieri, parole ed opere di una piccola comunità persa nella campagna polacca dunque, per un progetto narrativo che, mutatis mutandis, sembra avere parecchie analogie con quello di Jón Kalman Stefánsson: scrivere per non dimenticare, raccontare per continuare a far vivere un mondo che altrimenti sarebbe destinato all’oblio (che poi è la conclusione alla quale giunge anche Paschalis, l’incaricato di scrivere la vita della santa: “lo scopo della sua opera era conciliare tutti i tempi possibili, tutti i luoghi e i paesaggi in un’unica immagine, che sarebbe stata immobile e non sarebbe mai invecchiata né cambiata”).
Impossibile dar conto dei mille personaggi che incontreremo lungo il corso di questo viaggio stralunato: c’è Marta, la vecchia fabbricante di parrucche, convinta che i capelli crescendo assorbano i pensieri degli uomini, che parla solo degli altri e mai di se stessa e che immagina gli animali che Dio si è dimenticato di inventare. C’è Tal dei Tali, che “raccontava l’inverno” e che riusciva a vedere gli spiriti e c’è Marek Marek, un tipo la cui “sofferenza non veniva dall’esterno ma dall’interno” e che “nasceva per la stessa ragione per cui la mattina sorgeva il sole e la notte le stelle”, un’anima in pena che a causa del dolore che portava dentro di sé “non poteva portare a conclusione nessun pensiero, doveva cancellarli e scacciarli, così che smettessero di significare qualcosa”. Ci sono, intrecciate, la storie di Kummernis di Schonau, la santa barbuta e quella di Paschalis, che ne scrisse la biografia. Seguendo la voce narrante capiterà di imbatterci in ricette culinarie a base di funghi velenosi e turisti tedeschi che fotografano spazi vuoti e tra questi turisti Peter Dieter, venuto per rivedere il villaggio nel quale aveva vissuto e destinato a morire proprio sulla metà del confine. Incontreremo Agnieszka con le sue profezie e Franz Frost che vive di certezze, convinto che tutto ciò che è stato e che sarà esiste già ma che sarà messo in crisi dalla scoperta di un nuovo pianeta, al punto da diventare pazzo. Se riusciremo ad entrare in sintonia con la trama, non ci stupiranno certo la comparsa di un mostro nello stagno e neppure le profezie di Lew il veggente. Sarà bello lasciarsi affascinare dalle storie dell’uomo di seconda mano (convinto di essere la copia di qualcun altro), da quelle di Ergo Sum (anche nella sua seconda vita come Bronek), dei Von Goetzen e dei Coltellinai, senza trascurare quelle dell’uomo con la sega, di Gertrude Nietsche, di Lui e Lei e anche quella del misterioso R….
Insomma: storie, tante storie  cui star dietro, tante vite da rincorrere con il rischio di perdere l’orientamento. Sarebbe un peccato però, perché questo libro ha un’architettura che poggia su architravi solide: una sono i sogni, quei sogni che ricorrono costantemente e che secondo la voce narrante costituirebbero la parte più vera della vita, l’unica davvero autentica mentre la nostra realtà di esseri umani sarebbe una specie di stato di sospensione dal nostro vero ruolo. L’altro pilastro è la ricerca di un punto di equilibrio perfetto, aspirazione che sembra rintracciabile all’interno di molti degli episodi narrati, una specie di armonia superiore, uno stato quasi di immobilità, fuori dal tempo e dalle passioni, un distacco quasi atarassico dalle cose del mondo.
Casa di giorno, casa di notte è un libro che consiglio, soprattutto a quei lettori che non si sono ancora stancati di cercare storie curiose.

domenica 7 ottobre 2018

Lezioni di letteratura argentina: Sabato su Borges



 Borges ha una sola fede e una sola coerenza: lo stile.
Mica cerca la Verità! Percorre l’universo del pensiero come un collezionista alle prime armi la galleria di un antiquario, e le sue stanze letterarie sono arredate con il gusto squisito e l’insensato disordine con cui è arredata la casa di quel dilettante.
Borges lo sa benissimo, anzi ce lo suggerisce. Ma il lettore che, con timore reverenziale, si genuflette appena legge la parola aporia, prende per profonda inquietudine quel che è solo un sofisticato passatempo. E invece di tenersi caro il Borges veramente valido corre dietro all’autore di quei giochetti.
Borges ha paura della dura realtà dell’esistenza e produce due atteggiamenti simultanei e complementari: inventa un mondo per gioco e fa suo il platonismo, teoria intellettuale per antonomasia. L’intelletto (puro, trasparente, schivo) lo affascina. E siccome vuol continuare a giocare, ha un motivo in più per non partecipare all’incessante e duro processo della verità. Prende dall’intelletto quel che avrebbe preso un sofista. Non cerca la verità, il suo godimento sta nel dialogo per il dialogo e, soprattutto, dialoga con le parole sulle parole. Lo attira l’intelligenza vacua, bipolare, scacchistica, disimpegnata, giocherellona, non comune, sofisticata, lo soggioga l’ipotesi che tutti possono aver ragione e, quindi, che nessuno ce l‘ha.
[…] Tlön, Uqbar, Orbis Tertius rappresentano al meglio il suo ecclettismo: desideri, errori stanno tutto lì, e ci costruisce un universo acutissimo. Né lui né noi crediamo in quel che afferma, ma ci incanta la possibilità metafisica che esprimono. E così in tutta la sua opera: il mondo è un sogno reversibile, è sempre possibile un ritorno, e anche raggiungere l’immortalità nella memoria degli altri perché l’immortalità non esista nell’eternità. Tutto vale e niente vale.
[…] Eppure c’è una costante che sempre si ripete, forse per paura della dura realtà: l’ipotesi che questa realtà sia solo un sogno. E l’ipotesi che il razionalismo ha sempre difeso, l’autentico patrono di Borges è Parmenide. […] Ecco perché, per Borges, è la ragione che governa il mondo, e persino i suoi sogni ed incantesimi devono essere armoniosi e intelligibili, e i suoi enigmi, come nei romanzi polizieschi, hanno alla fine una chiave.
[…] Potremmo quasi affermare che Borges è il simbolo letterario dell’illustre problema della razionalità del reale e della sua (temibile) conseguenza: la paralisi.

[…]L’arte – come il sogno – è quasi sempre un atto antagonista della vita diurna. La crudeltà del mondo che ci circonda affascina Borges, e insieme lo spaventa. E si rintana nella sua torre d’avorio sotto a spinta di quella stessa potenza che lo affascina. Il mondo platonico è il suo bellissimo e inattaccabile rifugio: lì può abbandonarsi; è pulito il suo rifugio, e lui odia la sporcizia della realtà; è senza sentimenti, e lui non sopporta coinvolgimenti sentimentali; è eterno, e lui è afflitto dalla fugacità del tempo. Per timore, disprezzo, pudore e per malinconia, diventa platonico.
Chiuso nella sua torre, dunque, architetta i suoi giochi. Ma il lontano rumore della realtà lo raggiunge: filtra dalle finestre e sale dalle profondità del suo essere. Dopotutto egli non è una figura ideale del museo di Meinong, ma un uomo in carne ed ossa che – nonostante i suoi tentativi di sfuggire – vive in questo mondo. Non c’è solo il mondo fuori, nella strada: quel mondo ce l’ha dentro, nel suo cuore. E come si fa a liberarsi del proprio cuore?
[…] E l’uomo, dal suo amato esilio, ricompare forse indistinto, fugace, equivoco, con tanto di passioni e sentimenti.
E il Borges nascosto, quello che come tutti ha le sue passioni e meschinità, ce lo immaginiamo dietro le sue astrazioni: contraddittorio e colpevole.
[…] Il gioco lenisce ma non annulla le su angosce, la sua nostalgia, la sua tristezza più profonda, i suoi risentimenti più umani. Gli incantevoli inganni teologici e la magia puramente verbale, in definitiva, non lo appagano. E così le sue più profonde angosce e passioni ricompaiono in una poesia o in un frammento di prosa in cui davvero si manifestano quei sentimenti troppo umani.

Ma quello di Borges è un ritorno alla realtà sempre ambiguo, parziale: basta una frase o una variante a smentirlo. Forse è vittima della sua passione verbale, del suo ingegno retorico.

[…] E Borges, il corporale Borges, il sentimentale Borges, ha cercato l’ordine nel caos, la calma nell’inquietudine, la pace nella tragedia, cerca dalla mano di Platone la via per accedere all’universo incorruttibile. […] Sembra che per lui l’unica cosa degna di una grande letteratura sia il regno dello spirito puro. Mentre la cosa degna di una grande letteratura è lo spirito impuro: cioè l’uomo; l’uomo in questo confuso universo eracliteo, non il fantasma, il cielo platonico.
[…] Dio non scrive romanzi.
Quella specie di oppio platonico non ci serve. Anzi finisce per farci apparire tutto un gioco, un simulacro, un’infantile evasione. E anche se quel mondo fosse vero, confermato dalla filosofia e dalla scienza, questo mondo è per noi l’unico vero, l’unico che ci provoca dolore, ma pienezza: questa realtà di sangue e di fuoco, di amore e di morte in cui vive quotidianamente la nostra carne e l’unico spirito che veramente possediamo: lo spirito incarnato.

[…] Il Borges che vogliamo riscattare e che è davvero riscattabile è il poeta che qualche volta ha cantato cose umili e fugaci, ma semplicemente umane: un tramonto di Buenos Aires, un cortile dell’infanzia, una strada di periferia. Questo è (oso profetizzare) il Borges che resterà. Il Borges che dopo il suo frivolo periplo per i territori della filosofia e della teologia, in cui non crede, torna in questo mondo meno affascinante ma in cui crede; in cui nasciamo, soffriamo, amiamo e moriamo.

[Ernesto Sabato: “Lo scrittore e i suoi fantasmi”]

sabato 6 ottobre 2018

Dag Solstad – La notte del professor Andersen



 Erano ancora contro il potere, intimamente opposizionali, anche se ormai di fatto erano i pilastri della società.

Con questo libro Dag Solstad prosegue il cammino ideale iniziato con Timidezza e dignità, vale a dire una riflessione sul ruolo dell’intellettuale nella società norvegese contemporanea. Un ruolo che sembra aver perso le solide basi su cui fondava, di qui la sensazione di spaesamento, il sentirsi fuori posto, isolato e privo di prospettive del protagonista ( e anche dell’autore).
In quest’opera Solstad disegna una specie di dramma psicologico. È la vigilia di Natale quando il professor Andersen si trova ad assistere per caso ad un omicidio e la storia, nel senso di azione, è tutta qui, perché il resto del libro è dedicato a ragionare sul motivo per cui non sporge denuncia: una lunga serie di congetture che lo porterà molto lontano con le sue speculazioni ma che al tempo stesso non lo condurrà da nessuna parte.
Sa perfettamente che è suo dovere telefonare alla polizia, eppure non riesce a farlo. Perché il delitto ormai è avvenuto – si dice – e non può più essere impedito e lui non si sente di far arrestare un uomo (“Mi ripugnava essere quello che interviene perché giustizia sia fatta, lo immaginavo già tanto inorridito della propria azione che non volevo aggravare le sue sofferenze”). Eppure sa che il suo comportamento è sbagliato (“Il suo peccato d’omissione era indifendibile. Tutte le civiltà si fondano sul fatto che un simile atto sia indifendibile. È un principio assoluto, valido in ogni circostanza. Non rispettarlo faceva di lui un reietto, insieme all’assassino”) e nel suo immergersi nelle pieghe del ragionamento arriva – lui che non è assolutamente religioso - a tirar fuori Dio come arbitro della situazione.
Dalla riflessione sulla scelta di non denunciare l’omicidio, il professor Andersen passa a riflettere su se stesso e sui motivi per i quali avrebbe voluto legare il suo destino a quello dell’assassino: un goffo tentativo di essere ancora “alternativo”, diverso, non omologato? Probabilmente, ma al tempo stesso un pensiero quanto mai contraddittorio, considerato il ruolo centrale che riveste in quella società che pure critica.
Cosa è successo? Quand’è che le cose hanno cominciato a prendere questa direzione e lui a finire invischiato nei meccanismi di una macchina che voleva distruggere? Questo è a mio avviso il punto nodale intorno al quale si snoda il libro e a questo proposito molto interessanti sono le riflessioni di Solstad su come la modernità ha cancellato la coscienza storica riducendoci a vivere di presente o poco più e su come la letteratura moderna abbia perso la capacità di dialogare con quella del passato (“Negli Spettri come nelle tragedie greche. Il turbamento che può dare la creazione poetica. Era il turbamento che i borghesi di Kristiania avevano provato nella platea di un teatro, durante la prima rappresentazione di Spettri, lo stesso turbamento. […] Ma allora, perché noi quel turbamento l'abbiamo perduto?" […] "È molto peggio di quanto credessi", pensò. "Solo cent'anni ci separano da quel turbamento, che per tutta la storia dell'umanità è stato una condizione essenziale per una vita ricca di significato, e non siamo più capaci di afferrarlo. Così vicini, e tuttavia esclusi. È finita. Siamo esclusi da una delle possibilità più originali, più sostanziali della natura umana, documentata almeno per duemilacinquecento anni? Se questo è vero, vuol dire che sta nascendo una nuova tipologia umana e io, che lo voglia o no, ne sono un rappresentante, e anche i miei studenti, che nemmeno lo sanno", pensò il professor Andersen. "Poveri studenti miei", pensò, "che non lo sanno.").

domenica 30 settembre 2018

Jon Fosse – Melancholia




 “Penso che Lars è come il mare e il cielo, sempre cambia, dalla luce al buio, dal bianco al nero più nero.”

Melancholia è un dittico che ruota attorno alla figura di Lars Hertervig, paesaggista norvegese dell’Ottocento.
La prima parte del primo libro (quella principale) è focalizzata su un solo giorno nella vita del pittore, quello che rappresenta il punto di rottura, l’istante di non ritorno, il momento in cui la pazzia del protagonista si rende manifesta.
Una delusione amorosa è il primum movens della pazzia del protagonista (pazzia che, come scopriremo più avanti, era già in fieri ed aspettava solo di essere messa in moto), personaggio in bilico tra la convinzione di essere un grande pittore (“io so dipingere. Anche Gude sa dipingere. E pure Tidemann sa dipingere. Io so dipingere. Nessuno sa dipingere come me, solo Gude. E poi Tidemann.”) e la paura di sottoporsi al giudizio del suo maestro, che lo spinge a non presentarsi quella mattina all’Accademia delle Belle Arti per il timore che il suo quadro possa non piacere. Un personaggio senza equilibrio quindi, pericolosamente sospeso tra due assoluti (il cielo e la polvere), incapace di gestire i rapporti interpersonali, perché confonde i suoi pensieri con la realtà e non comprendendo ciò che lo circonda cerca rifugio nei ricordi e nelle allucinazioni condannandosi all’inazione.
Fosse dimostra di aver studiato a fondo la schizofrenia, perché nella figura di Hertervig che tratteggia ci sono tutte le caratteristiche della malattia: la vulnerabilità, la confusione spazio-temporale, la paranoia, le allucinazioni uditive e visive (“le vesti bianche e nere”), il rifugio in movimenti stereotipati auto-consolatori (“ E mi premo le mani contro la faccia, e comincio a dondolarmi con il busto, faccio dondolare il busto da un lato all’altro”)…
Originalissima la scelta dell’autore di raccontare Hertervig in prima persona e soprattutto di farlo dal punto di vista della malattia, la schizofrenia, che Fosse cerca di restituirci attraverso un corpo a corpo con la scrittura difficile da seguire, a tratti fastidioso, caratterizzato da frasi brevi e ripetizioni continue, pensieri e parole che il protagonista rimastica ossessivamente con l’intento di convincersi della veridicità dei suoi ragionamenti e finendo invece con il precipitarci dentro affondando sempre di più nella malattia. Sorprendentemente la scrittura con cui lo scrittore norvegese cerca di riprodurre la schizofrenia del protagonista, mostra anche parecchi tratti in comune con la pittura: le reiterazioni, i tentativi di definire, precisare, raccontare da capo quasi ininterrottamente, sembrano altrettante pennellate, strati su strati di colore, colate materiche versate sulla tela nel tentativo di riprodurre quella luce che in un gioco di rimandi sembra ossessionare tanto l’Hertervig del libro quanto l’Hertervig pittore, almeno a giudicare dai suoi quadri (Borgoya, uno dei principali, appare nella copertina del volume). La luce quindi come centro del libro proprio perché centro del dramma del protagonista, luce che vede provenire dagli occhi della sua amata e che lui sente essere la stessa luce verso la quale tendono i suoi dipinti e nella quale riesce ad entrare nei momenti, quasi mistici, di ispirazione.
“Io so dipingere, - dice ad un certo punto – perché infatti io so vedere, sì, io vedo tutto e vedo quello che altri non possono vedere e per questo so dipingere”. Ma più avanti aggiunge: “Vedo troppo. Vedo troppo per poter dipingere.”.

Una postilla, solo per aggiungere che purtroppo questo libro è costellato da un numero di refusi ed errori (soprattutto negli a capo) inusuale e piuttosto fastidioso.