domenica 22 marzo 2020

Zoo o lettere non d'amore – Viktor Borisovič Šklovskij


"Un tentativo di uscire dagli ambiti del romanzo tradizionale."

"Mio caro, mio amato. Non scrivermi d'amore. Non devi. […] Io non ti amo e non ti amerò."
Così si rivolge Alja a Viktor Šklovskij nella Lettera terza di questo libro e lo scrittore russo emigrato a Berlino la prende in parola costruendo con Zoo (il riferimento è a quartiere della capitale tedesca dove vivevano gli espatriati russi) uno strano gioco letterario in cui si impegna a scrivere di tutto tranne che d'amore, se non fosse che in realtà ogni argomento trattato sottende in maniera più o meno esplicita il sentimento che l'autore prova per la donna.
Un non-romanzo ricco di metafore, uno zibaldone di pensieri in forma di lettere all'amata. Šklovskij veste con l'ironia il dolore dal quale nasce la sua ispirazione, con un procedimento simile a quello che Cervantes ha riservato a Don Chisciotte utilizzando l'eroe parodistico "non solo per il compimento di imprese caricaturali, ma anche per pronunciare discorsi saggi". E come se non bastasse ad ingarbugliare una matassa già sufficientemente intricata, proprio nell'ultima delle Lettere che compongono il libro l'autore compie un'imprevista giravolta dichiarando che in realtà il tema dell'amore è solo una metafora perché Zoo è "un libro sull'incomprensione, su persone estranee, su una terra straniera. Voglio tornare in Russia."
In realtà che l'amore per Alja sia il fuoco che incendia quest'opera è evidente, così come è evidente che un altro amore, quello di Šklovskij per la Letteratura, sia la seconda fiamma che alimenta il braciere della sua ispirazione.
Da questo punto di vista, emblematica è la Lettera quarta, nella quale l'autore dichiara di voler palare del tempo e poi, passando dal suo amore per Chlebnikov arriva a parlare dell'"amaro calice dell'amore che è come i chiodi con i quali ci crocifiggono".
Amore e Letteratura riuniti quindi in un abbraccio nel quale finiscono per confondersi, e non poteva essere altrimenti, considerando che "tutta la letteratura russa è consacrata agli insuccessi amorosi" (Lettera quattordicesima dell'edizione del 1924).
Belyj, Pasternak, Chagall, Il'ja Erenburg… diversi ed interessanti sono i bozzetti di grandi artisti che ritroviamo tra le pagine di Zoo, così come le riflessioni sul ruolo dello scrittore, sulla "necessità della forma letteraria", sul bisogno dell'artista di essere libero e di realizzare qualcosa di nuovo.
"Il caso più interessante" – scrive nella Lettera ventiduesima – " è costituito dal libro che sto scrivendo ora. Si chiama Zoo, lettere non d'amore o La Terza Eloisa; qui i singoli momenti sono uniti; infatti tutto è collegato dalla storia d'amore di un uomo per una donna. Questo libro è un tentativo di uscire dagli ambiti del romanzo tradizionale."

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https://www.enotes.com/topics/zoo-viktor-shklovsky

sabato 14 marzo 2020

Il burrone – Ivan Aleksandrovič Gončarov




Pubblicato nel 1869, Obryv, Il burrone, risulta il terzo degli "Ob" per data di pubblicazione (Obyknovennaja istorija, Una storia comune, è del 1847 e Oblomov  del 1859) e, nell'opinione comune, anche il terzo per importanza.
Si potrebbe dire che anche un Gončarov minore è pure sempre un Gončarov e quindi vale la pena di una lettura, ma il punto è che non sono così sicuro che quest'opera possa essere rubricata con tanta semplicità come "minore", anche se a tratti può risultare eccessivamente manierata e disomogenea nella struttura.
Il burrone, infatti, riveste un ruolo notevole nella bibliografia gončaroviana perché chiude un'ideale ambiziosa trilogia che descrive la faticosa transizione della società russa da un feudalesimo di stampo medievale ad un Mondo Nuovo  ancora tutto da disegnare.
Il filone al quale appartiene questo romanzo è è quello del realismo psicologico e la storia è quella di Boris Pavlovich Raysky, un nobile annoiato, un artista "oblomoviano" che vive tra scrittura, pittura e scultura senza mai applicarsi veramente ad alcuna di queste arti. Un amante del bello, un uomo volubile guidato dall'istinto e che rifugge le responsabilità. Il pretesto di controllare certi suoi possedimenti lo porta dalla grande città alla campagna,  dove si innamora, non ricambiato, di Vera, una cugina di secondo grado, a sua volta invaghita di Mark Volokhov, un giovane rivoluzionario nichilista e iconoclasta che è sotto la sorveglianza della polizia.
La storia d'amore sul triangolo Raysky-Vera-Volokhov è solo un pretesto, non solo e non tanto per parlare d'amore (tema che comunque l'autore declina in diverse sfumature e secondo il sentire di ognuno dei personaggi, confermando la sua assoluta capacità nella descrizione dei caratteri) ma per portare in scena il conflitto sociale di cui si diceva.
Il passaggio da una società patriarcale ad un mondo nuovo è rappresentato da Gončarov da un lato attraverso il tentativo de protagonisti di affermare la propria personalità anche andando in rotta di collisione con gli stereotipi dell'epoca e con la morale comune, dall'altro mostrando le incertezze ed i limiti di ognuno di loro. È la perfetta immagine di quello che rappresenta ogni cambiamento: si identificano difetti e limiti del sistema corrente e poi ci si divide su come modificarlo, c'è univocità sulla diagnosi e confusione sulla terapia.
Le idee nuove sono, appunto, idee. Opinioni da verificare alla prova dei fatti e soprattutto numerose e contraddittorie almeno quante sono le teste che le esprimono. Per questo Gončarov sembra voler fare un passo indietro preferendo tornare al porto sicuro della tradizione piuttosto che affidare la barca alle insidie di una navigazione verso l'ignoto, con il rischio di precipitare da quel burrone richiamato nel titolo e sul filo del quale si articola la trama del libro.
Raysky diventa così nel corso della storia una figura positiva, un uomo con limiti evidenti ma anche un portatore di idee democratiche che non arriva all'integralismo ed agli eccessi di un Volokhov. Il Nuovo sembra essere per Gončarov una via mediana tra Rivoluzione e Restaurazione: apertura alla democrazia e al liberalismo ed ai bisogni del singolo ma nel solco della storia e della cultura russa.

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sabato 7 marzo 2020

La parte inventata – Rodrigo Fresán



Il romanzo ai tempi di Internet

L'Epoca del Grande Disordine (sociale, politico, individuale) ha finalmente trovato il suo degno cantore, o se non altro una delle voci in grado di rappresentarla.
La parte inventata è un libro sorprendente, che incarna alla perfezione la confusione dei nostri tempi e Rodrigo Fresán è un moderno epigono di Macedonio Fernández, nonostante il suo riferimento letterario sia soprattutto nordamericano (e da questo punto di vista l'influenza di John Barth sembra quella preponderante).
La parte inventata è un libro che rappresenta l'evoluzione del romanzo ai tempi di Internet, nonostante l'autore non faccia altro che denigrare e-reader e cultura prêt-à-porter e l'umanità del ventesimo secolo in genere e la scrittura di Fresán ricorda la navigazione in rete, quello che succede quando cercando una notizia si finisce per googlare da un argomento ad un altro. C'è un tema di fondo sul quale si innestano un sacco di divagazioni, ognuna delle quali è il potenziale germe da cui potrebbero nascere altre mille storie.
In una sorta di delirio allucinatorio ci si muove tra meta-letterario (molto, molto meta…) ed ipertestuale, con un alternarsi di cultura pop ed "alta" tra richiami musicali (Bob Dylan, Pink Floyd, i Kinks), filmografici (2001, Odissea nello spazio) e letterari (Burroughs, Updike e soprattutto F.S. Fitzgerald); un delirio dove tutto è metafora e una narrazione nella quale si intersecano digressioni continue e generi letterari diversi, biji, ricordi, interviste, wikipedia...
Impossibile riuscire a seguire tutte le linee della storia: c'è, come detto, la critica ad una società egocentrica, autoreferenziale e superficiale che va di corsa e non sembra più aver tempo per l'approfondimento e la riflessione, c'è una riflessione sui legami e sulla loro rottura, ma soprattutto sulla scrittura, sul ruolo dello scrittore e della letteratura che dovrebbero privilegiare la parte inventata su quella reale.
"La parte inventata che non è, mai, la parte disonesta, anzi, è la parte che trasforma davvero qualcosa che è semplicemente accaduto in qualcosa così come doveva accadere. Qualcosa (tutto quel che verrà, il resto della sua vita, sorgerà da lì e da allora, proprio da questo esatto momento) di molto più autentico e pregiato e puro della semplice e volgare e spesso così poco spiritosa e approssimativa verità."

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sabato 29 febbraio 2020

Dall'ombra – Juan José Millás



Damián Lobo, licenziato dalla ditta in cui ha lavorato per venticinque anni, è un uomo solo che riempie gli spazi della sua solitudine immaginando assurde interviste televisive che lo vedono protagonista. In esse parla di sé, identificandosi con la murena perché "non è gregaria e si mimetizza con il paesaggio", "una murena nascosta tra le rocce di corallo, in agguato, a caccia di una preda, o per proteggersi da un predatore", parla anche del capitalismo senz'anima nel quale se l'è cavata "come il polpo che non ha bisogno di capire l'oceano per viverci dentro", dei rapporti sessuali con la sorella adottiva cinese e del fatto che lui legge solo manuali d'uso e libretti di istruzioni.
Una critica della società dei consumi e della TV spazzatura fatta dal di dentro, dal punto di vista di chi ha vissuto per un po' nel sistema e poi ne è stato sputato fuori, la lucida follia di chi dai margini della società cerca di tirare avanti in qualche modo per non impazzire e non si accorge di essere già sull'altro lato della strada.
Vivere un po' nella fantasia e un po' nella realtà è difficile, soprattutto quando la realtà è avara di stimoli. Succede che il mondo immaginato finisce per occupare sempre più spazio invadendo pericolosamente il territorio della vita vera.
In un centro commerciale Damián Lobo ruba un fermacravatta d'oro con incise le iniziali S.O., proprio quelle di Sergio O'Kane, il suo fantomatico intervistatore. Per evitare l'arresto si nasconde in un armadio in vendita in un mercatino d'antiquariato e mentre attende il momento propizio per darsi alla fuga si ritrova chiuso dentro e trasportato a casa di una famiglia che nel frattempo ha comprato il mobile.

Al lettore scoprire quel che succederà in seguito, all'estensore di queste brevi note il compito di dire che quello di Millás è un gioiellino raffinato, una critica sociale che travestendosi da racconto surreale evita triti luoghi comuni e toni accesi.
"- Lei è un tipo poco socievole?", chiede ad un certo punto O'Kane al protagonista.
"- Diciamo che sono strano.
- In che senso, strano
- Nel senso che sono una brava persona, io sono una brava persona, non ho mai fatto del male a nessuno, e questo mi ha allontanato dal mondo.
- La bontà allontana?
- Sì.
- Crede che il mondo sia cattivo?
- E anche pericoloso.
- E lei con questa avventura lo stava migliorando o lo stava rendendo un po' meno pericoloso?
- Chissà, sarà il tempo a deciderlo.
- Non sarebbe più giusto affermare che si stava vendicando?
- Del mondo? Non ci avevo pensato."
Damián Lobo per gli altri è uno schizofrenico e un dissociato, in realtà è solo un personaggio in cerca d'autore, un uomo sensibile che si è ritrovato in un mondo di lupi, un invisibile che ha rinunciato a lottare per conquistarsi un posto nel gruppo, uno sconfitto al quale è rimasta solo la possibilità di guardare gli altri dal di fuori.
Damián Lobo è il personaggio di una bellissima favola, un bambino che nell'armadio ha ritrovato l'utero materno e che ora si prepara a nascere.

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sabato 22 febbraio 2020

Traslochi – Hebe Uhart


La Dea delle piccole cose

Uhart è un altro dei segreti meglio custoditi della letteratura sudamericana.
Scrittrice poco nota all'estero ma il cui talento è ampiamente riconosciuto in patria (Fogwill la definì la miglior scrittrice argentina), la narratrice di Moreno si caratterizza in quest'opera per uno stile lineare, "pulito", che parte dalle piccole cose per scendere in profondità e mostrare le crepe nascoste nella quotidianità. Semplicità sembra essere la sua parola d'ordine, con la scelta di non drammatizza le situazioni per rappresentarle invece come sono, di privilegiare l'ordinario rispetto allo straordinario, guardando ed ascoltando cose e persone come farebbe un bambino ma riferendone con la capacità introspettiva di un adulto.
L'occhio è quello di un cronista che osserva e descrive la realtà senza lasciarsi andare ad un'eccessiva partecipazione emotiva, il gusto dell'oralità ricorda le Acqueforti di Roberto Arlt, con i personaggi che sono identificati non tanto dal loro aspetto quanto dai comportamenti e da come parlano. Al centro di Traslochi c'è la trasformazione della società argentina, il passaggio dalla campagna alla città, i contrasti generazionali, le tradizioni familiari e la voglia di novità, a cui si aggiunge un'acuta descrizione di caratteri (soprattutto femminili).
"Di semplicità in semplicità" – scrive Haroldo Conti a proposito di Uhart – "si penetra in profondità e labirinti dove si può avanzare solo se si partecipa della magia di questo nuovo mondo. (Uhart) non illumina né completa una realtà conosciuta. Rivela, o meglio, è lei stessa una realtà unica, diversa."

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