domenica 12 aprile 2020

Alla speranza - John Keats


Alla Speranza

Quando solo siedo al mio focolare,
E odiosi pensieri mi vestono di tristezza,
Quand'anche i sogni vengon a meno all'occhio della mente,
E non ci son fiori per la nuda brughiera della vita,
Tu, dolce Speranza, profumami di magia:
Sì, portami via sulle tue ali d'argento.

Se, colto dalla notte dove i rami intrecciati
Escludono il raggio lucente della luna,
il tetro Sconforto impaurisse i miei pensieri,
E, accigliato, fuggisse la dolce Allegria,
Ti prego, un raggio affaccia di luce per lo sconnesso
Tetto di paglia, scaccia lo Sconforto Maledetto.

E se la Delusione, madre dell'Angoscia,
La figlia spingesse a predare il mio cuore sbadato,
Quando, come una nube, sull'aria assisa
S'appresta a colpire la vittima ammaliata,
Tu cacciala via, dolce Speranza, col tuo viso di luce
Spaventala, come la mattina quando terrorizza la notte.

Quando il destino racconta, di quelli che più amo,
Storie di dolore al mio cuore spaventato,
Tu, Speranza, occhi di luce, la mia fantasia
Morbosa rallegra, dammi dolce conforto:
Illuminami di cielo, danza
Sul mio capo con le tue ali d'argento.

E se di genitori crudeli o d'amante spietata
Dovesse mai squarciarmi il petto un amore infelice,
Non lasciare che io possa credere sprecata
La mia poesia, singhiozzata nell'aria notturna.
Tu, dolce Speranza, profumami di magia:
Sì, portami via sulle tue ali d'argento.

E quando guardo la teoria degli anni futuri,
Fa ch'io non veda l'onore del mio paese svanire:
Conservi l'anima la nostra terra, e la libertà,
L'orgoglio: non voglio, Speranza, fantasmi.
Dai tuoi occhi di luce riversa insolita radianza
E poi coprimi, con le tue ali d'argento.

Stupenda Libertà, grandezza in veste dimessa!
Ch'io non scorga mai quest'alta eredità
Dalla vile porpora della legge oppressa,
La testa chinata, pronta a morire:
Affacciata dal cielo, splendente,
Te, Speranza, con ali d'argento, voglio vedere apparire.

Come quando con regalità lucente una stella
Indora la cima chiara d'una nuvola scura
Accendendo il mezzo volto velato del cielo,
Così, se pensieri di tenebra il mio spirito presago
Avvolgono in un sudario, tu, dolce Speranza,
Con ali d'argento sul mio capo, spargimi d'azzurro.

sabato 4 aprile 2020

Quando ormai nulla più importa – Juan Carlos Onetti



Quando ormai nulla più importa è l'ultimo romanzo di Onetti e quello che chiude la saga di Santa María (che qui diventa, curiosamente, Santamaría). Un mondo che collassa su se stesso, un'implosione destinata a lasciare sul campo solo polvere e ricordi.
Protagonista è Carr, un uomo, forse scrittore, che vive o meglio sopravvive a Monte (Montevideo?) Ridotto alla fame e abbandonato dalla moglie decide di rispondere all'annuncio di una misteriosa agenzia che si occupa di traffici poco puliti e con un falso titolo di ingegnere si ritrova a Santamaría per sovraintendere al completamento dei lavori di una diga. Impiego di copertura perché il suo vero ruolo sarà poi quello di vigilare sul fiorente mercato di contrabbando della città.
L'incontro con il dottor Díaz Gray, personaggio chiave della mitologia onettiana, è il momento in cui il lettore capisce esattamente dove si trova: siamo nel sogno di Brausen, il personaggio inventato da Onetti e che a sua volta ha inventato  Santa María ("Signor Brausen/" – è l'inno intonato dalla folla salmodiante di una processione – "per amor tuo/ dacci la pioggia/ e liberaci dal sole."), siamo in un gorgo che trascina sempre più a fondo le figure che lo abitano. Doña Eufrasia ed Elvirita, il turco Abu e il poliziotto Autoridá, le puttane del Chamamé e Angélica Inés, moglie ninfomane e drogata del dottor Díaz Gray… siamo a Santamaría, in un "deserto monotono interrotto a volte da presenze che non arrivano a essere tali, prive com'erano di qualunque significato".
Già, il significato. Più entriamo nelle pagine del romanzo e più il significato delle azioni degli uomini, il senso delle loro vite, inizia a sgretolarsi. Anche l'andamento del diario che Carr sta tenendo lo testimonia: le date si fanno sempre più lontane fino a che si perde la sequenza cronologica, come a dire che anche il tempo oltre a tutto il resto ha perso importanza.
È uno sfaldamento che travolge tutto e tutti, cancellandone a poco a poco anche l'identità: "E all'improvviso cominciò." – scrive Carr un 11 luglio – "Come sempre, atroce e indimenticabile. Al principio, pensavo il mio nome completo e lo ripetevo senza parlare, migliaia di volte, finché cessava di essere il mio nome, non significava più nulla. Ma siccome io continuavo a essere io, dovevo fatalmente domandarmi chi fossi". E ancora, un 22 febbraio: "Cominciai a chiedermi chi sono, e perché io e non un'altra persona; me ne stetti a ripetere mentalmente un numero spropositato di volte il mio vero nome, fino a che questo non perse ogni senso e non venne rimpiazzato da un grande spazio bianco nel quale mi rifugiai senza violenza, ed era l'essere e il non essere."
Polvere e ricordi, si diceva all'inizio, questo alla fine del libro è ciò che resta della saga di Santa María. I personaggi che vissero un tempo sono ora fantasmi spazzati dal vento che vagano tra le macerie sotto forma di ricordi ai quali è inutile cercare di dare un senso.

Con questo libro ho terminato la lettura delle opere di Onetti e quello che resta da fare dopo aver letto tutto Onetti è solo ricominciare da capo.

sabato 28 marzo 2020

Sudeste – Haroldo Conti


L'uomo e il fiume

Sudeste è la storia del Boga, tagliatore di giunchi sul delta del Paranà che alla morte del vecchio che lavorava con lui decide di abbandonare la capanna nella quale vive ed inizia a vagabondare sul grande fiume, mosso dall'"ansia che spinge l'uomo verso l'orizzonte".
Un viaggio senza uno scopo preciso, per sopravvivere ma soprattutto perché il legame con quel corso d'acqua è una catena che il Boga non sa e non vuole sciogliere. Un viaggio che non prevede nessun punto di arrivo perché alla foce del Paranà "le distanze si dilatano e il traguardo si allontana insieme a te".
Come un Suttree ante litteram, l'uomo scivola lentamente dentro al suo destino. Quello del Boga è un modo consapevole di andare alla deriva, sentendosi parte del fiume e indifferente a tutto il resto. "Il fiume è splendido e l'uomo se ne sente misteriosamente attratto. Questo è tutto ciò che può dire". Un girovagare da un posto all'altro con la prua diretta verso nord, lottando con il vento di Sudeste che sferza il corpo ed i pensieri. Vivere nella pancia del fiume come unica aspirazione, sentirsi accolto da quella Natura, farne parte lasciando che le cose vadano come devono andare.
In Sudeste ci sono Boga, il fiume e il vento. E poi ci sono gli altri: figure di contorno, abbozzi di un'umanità che Conti tratteggia con contorni volutamente sfumati, persone senza passato e dal futuro quantomeno incerto. Il Bastos, Il Colorado Chico, il Lungo… ma soprattutto un omino "che sembra il Cabecita" con il suo cane Capi e un paio di brutti ceffi, uno senza nome e l'altro chiamato "Chino" ma conosciuto anche come "la Bionda", due delinquenti che con le loro malefatte cambieranno il corso della vita del Boga che si lascerà cadere dentro alla situazione senza far nulla per tirarsene fuori.
"Era come uno spettatore. Vedeva trafficare se stesso e gli altri come da una distanza incredibile e affaticante. L'aveva trascinato il fiume. L'estate. Un giorno o l'altro sarebbe finito tutto. Con un piccolo sforzo avrebbe potuto tirarsene fuori. Ma non era capace di fare uno sforzo, piccolo o grande. In qualche modo le cose si erano ingarbugliate e lui era rimasto lì."

Sudeste è un libro lento come il corso del fiume che descrive, un libro di silenzi, pensieri, descrizioni e pochi dialoghi. Un grande romanzo sul legame tra l'uomo e la natura, legame che Conti è ben attento a dipingere in maniera tutt'altro che idilliaca. Il Boga 'appartiene' alla natura, ed in nome di questa appartenenza accetta fatiche e sofferenze in cambio di quei pochi istanti di felicità che nascono dal sentirsi in armonia con il fiume ("A partire da quel momento, sulla spiaggia deserta, cucinando i pesci, poteva considerarsi un vagabondo. Non fu proprio questo ciò che pensò, ma improvvisamente si sentì invadere da una strana serenità, una placidità mai provata, e qualcosa di simile a una sorridente allegria. Finalmente si trovava nella situazione che aveva sempre desiderato."

Links

domenica 22 marzo 2020

Zoo o lettere non d'amore – Viktor Borisovič Šklovskij


"Un tentativo di uscire dagli ambiti del romanzo tradizionale."

"Mio caro, mio amato. Non scrivermi d'amore. Non devi. […] Io non ti amo e non ti amerò."
Così si rivolge Alja a Viktor Šklovskij nella Lettera terza di questo libro e lo scrittore russo emigrato a Berlino la prende in parola costruendo con Zoo (il riferimento è a quartiere della capitale tedesca dove vivevano gli espatriati russi) uno strano gioco letterario in cui si impegna a scrivere di tutto tranne che d'amore, se non fosse che in realtà ogni argomento trattato sottende in maniera più o meno esplicita il sentimento che l'autore prova per la donna.
Un non-romanzo ricco di metafore, uno zibaldone di pensieri in forma di lettere all'amata. Šklovskij veste con l'ironia il dolore dal quale nasce la sua ispirazione, con un procedimento simile a quello che Cervantes ha riservato a Don Chisciotte utilizzando l'eroe parodistico "non solo per il compimento di imprese caricaturali, ma anche per pronunciare discorsi saggi". E come se non bastasse ad ingarbugliare una matassa già sufficientemente intricata, proprio nell'ultima delle Lettere che compongono il libro l'autore compie un'imprevista giravolta dichiarando che in realtà il tema dell'amore è solo una metafora perché Zoo è "un libro sull'incomprensione, su persone estranee, su una terra straniera. Voglio tornare in Russia."
In realtà che l'amore per Alja sia il fuoco che incendia quest'opera è evidente, così come è evidente che un altro amore, quello di Šklovskij per la Letteratura, sia la seconda fiamma che alimenta il braciere della sua ispirazione.
Da questo punto di vista, emblematica è la Lettera quarta, nella quale l'autore dichiara di voler palare del tempo e poi, passando dal suo amore per Chlebnikov arriva a parlare dell'"amaro calice dell'amore che è come i chiodi con i quali ci crocifiggono".
Amore e Letteratura riuniti quindi in un abbraccio nel quale finiscono per confondersi, e non poteva essere altrimenti, considerando che "tutta la letteratura russa è consacrata agli insuccessi amorosi" (Lettera quattordicesima dell'edizione del 1924).
Belyj, Pasternak, Chagall, Il'ja Erenburg… diversi ed interessanti sono i bozzetti di grandi artisti che ritroviamo tra le pagine di Zoo, così come le riflessioni sul ruolo dello scrittore, sulla "necessità della forma letteraria", sul bisogno dell'artista di essere libero e di realizzare qualcosa di nuovo.
"Il caso più interessante" – scrive nella Lettera ventiduesima – " è costituito dal libro che sto scrivendo ora. Si chiama Zoo, lettere non d'amore o La Terza Eloisa; qui i singoli momenti sono uniti; infatti tutto è collegato dalla storia d'amore di un uomo per una donna. Questo libro è un tentativo di uscire dagli ambiti del romanzo tradizionale."

Links
https://www.enotes.com/topics/zoo-viktor-shklovsky

sabato 14 marzo 2020

Il burrone – Ivan Aleksandrovič Gončarov


Pubblicato nel 1869, Obryv, Il burrone, risulta il terzo degli "Ob" per data di pubblicazione (Obyknovennaja istorija, Una storia comune, è del 1847 e Oblomov  del 1859) e, nell'opinione comune, anche il terzo per importanza.
Si potrebbe dire che anche un Gončarov minore è pure sempre un Gončarov e quindi vale la pena di una lettura, ma il punto è che non sono così sicuro che quest'opera possa essere rubricata con tanta semplicità come "minore", anche se a tratti può risultare eccessivamente manierata e disomogenea nella struttura.
Il burrone, infatti, riveste un ruolo notevole nella bibliografia gončaroviana perché chiude un'ideale ambiziosa trilogia che descrive la faticosa transizione della società russa da un feudalesimo di stampo medievale ad un Mondo Nuovo  ancora tutto da disegnare.
Il filone al quale appartiene questo romanzo è è quello del realismo psicologico e la storia è quella di Boris Pavlovich Raysky, un nobile annoiato, un artista "oblomoviano" che vive tra scrittura, pittura e scultura senza mai applicarsi veramente ad alcuna di queste arti. Un amante del bello, un uomo volubile guidato dall'istinto e che rifugge le responsabilità. Il pretesto di controllare certi suoi possedimenti lo porta dalla grande città alla campagna,  dove si innamora, non ricambiato, di Vera, una cugina di secondo grado, a sua volta invaghita di Mark Volokhov, un giovane rivoluzionario nichilista e iconoclasta che è sotto la sorveglianza della polizia.
La storia d'amore sul triangolo Raysky-Vera-Volokhov è solo un pretesto, non solo e non tanto per parlare d'amore (tema che comunque l'autore declina in diverse sfumature e secondo il sentire di ognuno dei personaggi, confermando la sua assoluta capacità nella descrizione dei caratteri) ma per portare in scena il conflitto sociale di cui si diceva.
Il passaggio da una società patriarcale ad un mondo nuovo è rappresentato da Gončarov da un lato attraverso il tentativo de protagonisti di affermare la propria personalità anche andando in rotta di collisione con gli stereotipi dell'epoca e con la morale comune, dall'altro mostrando le incertezze ed i limiti di ognuno di loro. È la perfetta immagine di quello che rappresenta ogni cambiamento: si identificano difetti e limiti del sistema corrente e poi ci si divide su come modificarlo, c'è univocità sulla diagnosi e confusione sulla terapia.
Le idee nuove sono, appunto, idee. Opinioni da verificare alla prova dei fatti e soprattutto numerose e contraddittorie almeno quante sono le teste che le esprimono. Per questo Gončarov sembra voler fare un passo indietro preferendo tornare al porto sicuro della tradizione piuttosto che affidare la barca alle insidie di una navigazione verso l'ignoto, con il rischio di precipitare da quel burrone richiamato nel titolo e sul filo del quale si articola la trama del libro.
Raysky diventa così nel corso della storia una figura positiva, un uomo con limiti evidenti ma anche un portatore di idee democratiche che non arriva all'integralismo ed agli eccessi di un Volokhov. Il Nuovo sembra essere per Gončarov una via mediana tra Rivoluzione e Restaurazione: apertura alla democrazia e al liberalismo ed ai bisogni del singolo ma nel solco della storia e della cultura russa.

Links