sabato 17 luglio 2021

Kornél Esti – Dezső Kosztolányi


«Tra la vita e la letteratura Esti sceglie sempre la letteratura, poiché quella è la vita.»


Diciotto capitoli che sono altrettanti racconti singoli che nel loro complesso vanno a costruire il romanzo della vita di Kornél Esti, alter ego o meglio "doppio" dell'autore.
Un tipo frivolo, snob, che vive al di fuori degli schemi della società del tempo, quello che oggi definiremo un "non omologato".
«Mio fratello e mio opposto.» lo definisce l'autore «Uguale in tutto e diverso in tutto. Io ho raccolto, tu hai sparpagliato, io mi sono sposato, tu sei rimasto celibe, io adoro la mia gente, la mia lingua, respiro e vivo solamente in patria, ma tu, giramondo, voli sopra le nazioni, libero e garrisci l'eterna rivoluzione. Ho bisogno di te. Senza di te sono vuoto e mi annoio. Aiutami, altrimenti perisco.»
Due facce della stessa medaglia: uno sa solo vivere e l'altro solo scrivere, da qui la decisione di diventare coautori. Kornél Esti racconterà le sue avventure e l'autore le scriverà. Un romanzo? Un diario di viaggio? Una biografia romanzata? Tutti e tre insieme.
Frammenti, episodi di vita, le mirabolanti avventure di Kornél Esti, un "marziano" a spasso per l'Europa del primo Novecento.
Episodi che già dal titolo dei capitoli riecheggiano quelli del Don Chisciotte. Come l'eroe dalla trista figura, Kornél Esti si scontra infatti con un mondo del quale fatica a prendere le misure, risultando spesso fuori luogo.
«Esti non capiva la vita; non aveva idea perché fosse nato in questo mondo. Pensava solo che chi era capitato in quest'avventura dallo scopo ignoto, che termina con l'annullamento, fosse sollevato da qualsiasi responsabilità e avesse il diritto di fare ciò che voleva: per esempio sdraiarsi in mezzo alla strada e iniziare a lamentarsi senza ragione e senza meritarsi alcuna disapprovazione. Ma proprio perché considerava la vita nel suo insieme priva di senso, ne capiva ogni piccola parte presa una a una, ogni persona senza eccezione, ogni punto di vista nobile e infame che fosse, ogni teoria, e l adottava immediatamente.»
«Vivere così, nell'insensatezza massima sguazzando tra le insensatezze minime, secondo lui non era stupido, anzi era forse il odo di vivere più giusto e più sensato.»
I miti della società non fanno presa sulla personalità di Kornél Esti, anche l'improvvisa ricchezza diventa per lui una scocciatura, così che decide di distribuire il denaro ereditato ma non destinandolo ad opere bene, bensì distribuendolo a casaccio, proprio come l'aveva ricevuto.
«Io non sono nato per salvare questa umanità che, quando non è colpita da incendi, alluvioni e pestilenze, mette in piedi le guerre e provoca artificialmente incendi, alluvioni e pestilenze. Ho abbandonato a se stessa, già da tempo, la cosiddetta società e non mi sento neppure tutt'uno con essa. Mia parente è la natura: folle, indomita e viva.»
Kornél Esti è un'anima pura, che guarda al caos della vita con gli occhi del bambino, affascinato dalla possibilità di intrattenere una conversazione con un bulgaro senza conoscere la lingua, ma solo con sguardi ed espressioni del viso.
Si prende gioco della ragione, la sfida e la mette in dubbio ad ogni passo e nel suo gioco iconoclasta non dimentica le élite culturali del tempo, soprattutto i poeti con la loro «visione del mondo pomposa e sentimentale» e i legislatori, gli organizzatori della cosa pubblica:
«Io ho sperimentato che si possono mantenere concordia e pace nella vita pubblica solamente se lasciamo che ogni cosa vada per la sua strada, se non ci intromettiamo nelle leggi eterne della vita; che non dipendono dalla nostra volontà, e pertanto difficilmente possiamo cambiarne qualcosa.»

«Finora tutto il disordine sulla Terra è stato generato dal fatto che alcuni hanno voluto fare ordine, tutto lo sporco si è creato perché alcuni si sono messi a spazzare. Cercate di capire, la vera maledizione a questo mondo è l'organizzazione, e la vera felicità invece sono la disorganizzazione, il caso, il capriccio.»
Kornél Esti è homo aestheticus, un folletto dei boschi che si diverte a osservare con sguardo beffardo e bonario i suoi simili e i loro sforzi per guadagnarsi un posto comodo nella vita, così simili al personaggio dell'ultimo capitolo che dopo aver sgomitato tanto per ottenere un posto a sedere sul tram, non riesce a godersi il piccolo trionfo appena conseguito perché la vettura è appena giunta al capolinea.

sabato 26 giugno 2021

L'occasione – Juan José Saer



Classico romanzo saeriano tra filosofico e psicologico giocato sul sottile confine che separa commedia e tragedia.
Bianco è un "mentalista" che dopo una brutta esperienza in pubblico a Parigi lascia l'Europa per coltivare la rivincita dello spirito sul materialismo nella solitudine della sterminata pampa argentina. Qui troverà una giovane moglie, Gina, e un medico amico, Garay López, finendo però vittima di quei dubbi che credeva di poter sconfiggere con il potere della mente.
L'occasione è un ottimo romanzo sul dualismo spirito/materia ma soprattutto sul tema dell'ambiguità. Ambigua è l'identità del protagonista, ambiguo è il rapporto tra Gina e Garay López che darà il via al processo che lo condurrà all'autodistruzione, ambiguo è il rapporto di Blanco con la realtà perché in Argentina dimostra di sapersi districare molto meglio nel campo del materialismo rispetto a quello dello spirito, che mostra più incognite di quanto egli creda. In questo senso il personaggio di Gina rappresenta l'inconoscibile, l'elemento che sfugge al controllo del protagonista, il granello di sabbia che finisce nell'ingranaggio e provoca la rottura dell'intera macchina.
L'uomo di Saer è un uomo che ha smarrito le certezze, un uomo alla ricerca della luce e che non accettando gli angoli bui dell'esistenza, le zone oscure, le sfumature, l'inconoscibile, finisce per ritirarsi nella propria fortezza spirituale, dentro la sua pazzia.

Link
http://www.altrianimali.it/2021/05/17/loccasione-saer-lirrisolvibile-dualismo/






domenica 20 giugno 2021

Memoria della memoria – Marjia Stepanova

 


«il libro sulla mia famiglia alla fine non è affatto sulla famiglia, ma su qualcos'altro. In realtà è sul meccanismo della memoria e su ciò che vuole da me.»

Memoria della memoria è un'opera sorprendente tra saggio e romanzo in cui, in una sovrapposizione di piani narrativi, letterario e meta-letterario finiscono per trarre linfa uno dall'altro. Stepanova riprende i fili di un tema che attraversa la letteratura europea e russa dal dopoguerra ad oggi, che sviluppa in maniera personale corredando i suoi pensieri con un intertesto ricchissimo.
I ricordi personali, quelli della scrittrice e della sua famiglia, diventano il pretesto per sviluppare una riflessione ad ampio raggio che parte dai materiali della memoria (oggetti, fotografie, lettere…) per affrontare il canone della memoria in senso lato. Stepanova individua i trabocchetti di cui è costellato il percorso, dai falsi ricordi ai rischi della post-memoria e si confronta con punti di vista diversi: quello di Mandel'štam di "seppellire il tempo passato in una bara di pino", quello di Charlotte Salomon di affrancarsi dal passato descrivendolo, quello di Joseph Cornell di salvare attraverso le sue scatole la memoria del passato e quello di Sebald – il più vicino alla scrittrice russa – che intende il tempo "come una caverna porosa, simile a certi monasteri scavati nella roccia, nelle cui celle ciascuno svolge il proprio lavoro parallelo".

In questo libro l'autrice lavora su due livelli, familiare e nazionale. Su quello familiare si propone di mettere ordine nei propri ricordi nonostante la consapevolezza che si tratta di un ordine illusorio. L'impresa merita comunque di essere intrapresa perché ha il potere taumaturgico di "farla stare meglio" e anche perché raccontare il mondo dei ricordi le consente di strapparlo per un attimo dall'oblio.
Sul piano nazionale invece, prova ad affrontare e superare la fissazione del mondo letterario russo per il passato, specchio di una crisi ideologica caratterizzata dal rifiuto di confrontarsi con il presente e di pianificare una prospettiva per il domani.
Memoria della memoria è un grande libro sul bisogno e insieme sull'impossibilità della memoria.

Sapevo che il vero aleph di questa narrazione l’avevo già in tasca. Era una statuina minuta, circa tre centimetri di lunghezza, di porcellana bianca e fattura piuttosto convenzionale, un putto nudo e riccioluto che sarebbe potuto passare per un cupido, se non fosse stato per i calzini. L’ho comprato su una bancarella di antiquariato a Mosca, dove si sono resi conto tardi che gli oggetti del passato sono costosi. Ma non mancavano quisquilie da due soldi, e infatti in una vaschetta colma di ogni genere di bigiotteria intravidi una scatola che conteneva un mucchietto di cosini bianchi. Stupiva che non ce ne fosse almeno uno tutt’intero, bene o male ostentavano tutti qualche mutilazione: chi niente braccia, chi niente testa, e tutti quanti senza eccezione scheggiati e ammaccati. Li rigirai a lungo tra le dita in cerca di uno un po’ più grazioso, finché non trovai il più bello. Era quasi intero ed emanava un luccichio da regalo. Ricci e fossette al loro posto, e anche i calzini lavorati a maglia, e né la macchia scura sulla schiena né l’assenza delle braccia impedivano di deliziarsene. Naturalmente chiesi alla signora della bancarella se per caso ne avesse uno ancora più integro, e in risposta mi raccontò la storia che decisi di approfondire. Queste statuine da due soldi sono state prodotte in una città tedesca per mezzo secolo, mi disse la signora, dalla fine degli anni ottanta del XIX secolo. Le vendevano un po’ dappertutto, nelle drogherie e nei negozi di casalinghi, ma la loro funzione principale era un’altra: semplici ed economiche, venivano usate nel trasporto delle merci come paracolpi friabili, affinché le cose pesanti non si sbeccassero urtandosi nel buio. In pratica queste statuine venivano prodotte apposta per essere mutilate; ma poi, prima della guerra, la fabbrica chiuse. I magazzini, pieni di queste piccole porcellane, rimasero dismessi finché non finirono sotto un bombardamento, e parecchio tempo dopo, quando le casse vennero aperte, dentro non rimanevano che pezzi monchi. Così comprai il mio putto senza prendere nota del nome della fabbrica o del telefono della signora della bancarella, sapendo però che probabilmente mi portavo in tasca il finale del mio libro: la soluzione del problema che si ha l’abitudine di cercare nelle ultime pagine. Diceva già tutto. E che non esiste storia che arrivi integra fino a noi, senza piedi malconci e teste penzoloni. E che lacune e strappi sono l’immancabile compagno di viaggio dello stare al mondo, il motore recondito, il meccanismo della futura accelerazione. E che solo il trauma ci trasforma da prodotti di massa in un noi inequivocabile, un noi al dettaglio. E che naturalmente anch’io sono una di quelle statuine, un oggetto di larga produzione, frutto della catastrofe collettiva del secolo andato, suo survivor e involontario beneficiario, al mondo per miracolo e tra i vivi.
[…]
Una sera piovosa la statuina mi cadde di tasca e si ruppe sul pavimento di piastrelle della vecchia casa, come l’uovo d’oro nella favola della gallina pezzata. Si ruppe in tre pezzi, la gamba nella calzina volò sotto la pancia della vasca da bagno, il corpo da una parte, la testa dall’altra. Ciò che illustrava alla meno peggio l’integrità della storia propria e famigliare d’un tratto divenne allegoria: dell’impossibilità di raccontarla e dell’impossibilità di conservare almeno qualcosa, e della mia totale incapacità di rimettere insieme me stessa dai frantumi di un passato altrui o almeno appropriarmene in modo convincente.

domenica 13 giugno 2021

Il serpente – Stig Dagerman



«non poté evitare di vedere in quegli occhi la ragione per cui aveva vomitato. Non era stato il vino o qualcosa di unto che aveva mangiato. Era il disgusto per il mondo ripugnante degli adulti, per la doppiezza delle loro azioni, per la vigliaccheria, vale a dire per la paura di avere paura. Aveva vomitato per Sörenson, che aveva creduto possibile sfuggire all’angoscia di quello che capita agli altri come si sfugge al conto di una trattoria.»

Dagerman è un autore scomodo, che nei suoi scritti non indora la pillola e non fa sconti, soprattutto a se stesso. Un autore intransigente, mai disposto a mercanteggiare la sua integrità morale, che ha spinto le sue riflessioni sulla vita e sull'uomo così in profondità da condurle ad arrestarsi su un binario morto. È giovane, giovanissimo, quando scrive Il serpente, ma a ventidue anni ha già combattuto la sua battaglia e l'ha persa. L'anarchismo libertario in cui credeva è stato sconfitto. In Spagna dalle truppe franchiste e in Russia da un comunismo repressivo che si è rivelato la faccia cattiva del socialismo utopista nel quale lo scrittore aveva sperato.
Il serpente è il frutto della fine di queste speranze, una critica impietosa dell'organizzazione militare, della società svedese e del singolo. Il serpente, figura reale e simbolo ricorrente nelle pagine del romanzo, è la metafora della paura e dell'inquietudine che attanagliano i protagonisti; liberarsi della paura della paura è lo scopo che ognuno di loro dovrebbe perseguire.

Un libro sorprendente da molti punti di vista, ad iniziare dalla struttura composta da due parti, un romanzo breve e una serie di racconti collegati tra loro (definiti da qualcuno una specie di Decameron dell'angoscia) scritti da punti di vista diversi, con una padronanza della tecnica letteraria sorprendente e con un linguaggio che riflette il parlato, lontano dallo stile asciutto, essenziale, che ritroveremo nei suoi romanzi successivi. L'attenzione alla psicologia dei personaggi è massima, le figure non sono mai stereotipate ma sempre in evoluzione, Dagerman ci conduce per mano a guardare nelle pieghe dei loro caratteri, ne mostra dubbi e insicurezze, ne segue con attenzione le traiettorie fino a vederli precipitare dentro le loro vite, nel tentativo, vano, di ribellarsi al loro destino.
Il serpente è un libro il cui senso si lascia comprendere appieno solo alla fine, quando tutti i fili convergono e i collegamenti tra le storie diventano evidenti. Un ottimo punto di partenza per chi voglia fare conoscenza con questo grande scrittore.

«Che senso ha», si chiedeva adesso, «che senso ha rispettare l’ora, essere precisi, accurati, ordinati, coscienziosi, laboriosi, se tutto questo non ci può salvare? Perché non siamo dei meccanismi, visto che tanti vorrebbero esserlo? Perché nessuna assicurazione al mondo garantisce la libertà dalla paura? »
L’assicurazione contro la paura consisteva nell’essere come gli altri.
Ammetti a te stesso che chi si comporta in modo esemplare, chi rastrella i vialetti del suo giardino e spolvera la rilegatura dei suoi libri lo fa solo per viltà: sa che c’è altro da fare, ma si aggrappa a queste cose per non doversi avventurare in qualcosa di ignoto.
lo scrittore, a mio parere, dovrebbe essere un simbolo di tutte le persone del mondo che non si fanno trascinare dall’ambizione di soffocare la propria paura.

domenica 30 maggio 2021

Il pozzo – Regina Ezera



Una trama sottile, la storia di un amore irrealizzato, per un libro dove quello che conta non è tanto il racconto delle vite ordinaria dei protagonisti quanto le atmosfere, i dettagli, il non detto o meglio quello che è detto sotto metafora e attraverso descrizioni, grazie ad una prosa altamente evocativa con ogni parola che risulta magicamente al suo posto.
I personaggi sono perfettamente caratterizzati attraverso il linguaggio e i comportamenti, sia quando essi si aprono agli altri (notevole è la descrizioni dei bambini, del loro mondo e della loro innocenza), sia quando non riescono a farlo e tornano a chiudersi nel loro guscio. La storia, per come è congegnata, potrebbe scivolare facilmente lungo il piano inclinato del sentimentale ma Ezera la conduce con mano sicura fuori dalle secche del romanticismo virando verso il romanzo psicologico. Il pozzo è un libro sull'impossibilità dei personaggi di uscire dalla solitudine delle loro vite; l'incontro del protagonisti è avvenuto troppo tardi, il passato li imprigiona allungando la sua ombra sul presente condizionandolo e rendendo impossibile anche la sola idea di serenità. La felicità è una sirena che prova a chiamarli e a sedurli dall'altro lato della riva con il suo canto suadente ma la realtà è una catena troppo forte da spezzare.
"Nuotava senza vedere o sentire nulla, in un paesaggio fatato, irreale. Quel mondo lontano e misterioso, nascosto dalla nebbia, l’attirava con un’illusione d’infinito e lei vi nuotava incontro, nuotava e nuotava senza provare stanchezza, l’acqua compatta e pesante la sosteneva e scivolava sotto di lei come un tapis roulant. Ma girandosi indietro vide emergere di nuovo la riva scura, massiccia e familiare, che la teneva legata a sé come con un filo di seta grigia, e lei obbediente ritornò"