sabato 27 luglio 2024

Miguel Ángel Asturias – Uomini di mais


Miguel Ángel Asturias – Uomini di mais
(trad. Cesco Vian)
Rizzoli editore, 1967, I ed. 1949


La Commedia Umana.
 
Il mais è centro e perimetro di questo grande romanzo, pietra miliare della letteratura sudamericana. Quel mais con cui è stato creato l'uomo secondo le antiche leggende guatemalteche, e quel mais del quale l'uomo ha fatto commercio infrangendo così le leggi religiose, corrompendo la sua natura, alterando l'ambiente con le coltivazioni intensive e innescando un meccanismo perverso che sostituendo il divino con il denaro ha finito per portarlo alla rovina.
Il tema è il conflitto tra gli indigeni e i "ladinos", i "maceiros" (appunto, uomini del mais), lo scontro tra tradizione e cambiamento, forza del mito e nichilismo dei nuovi arrivati. Va da sé che le simpatie di Asturias vanno tutte al mondo indigeno, capace di opporre alla fredda realtà bidimensionale dei ladinos la superiorità di un universo che non ha limiti di spazio e tempo, nel quale i protagonisti sono qui e anche altrove, capaci di cambiare forma e tramutarsi in animali. Un universo che offre alla scrittore, oltre all'orgoglio dell'appartenenza, infinite possibilità di forma e contenuto, e che l'autore riesce a cogliere anche grazie alle sue frequentazioni con il surrealismo europeo, che declina in chiave personale aprendo la strada a quello che sarà poi il realismo magico.
Uomini di mais, è un libro che, pur risentendo del peso degli anni con parti della trama che risultano un po' "di maniera", compensa queste piccole sbavature grazie ad una scrittura lussureggiante, capace di regalarci anche un finale incredibile, una specie di Divina Commedia concentrata in poche pagine, con una discesa agli Inferi e poi un'ascesa sublime verso un Paradiso indio che da sole valgono la lettura di quest'opera.

sabato 13 luglio 2024

Augusto Roa Bastos – Io il supremo

 


Augusto Roa Bastos – Io il supremo
(trad. Stefano Bossi)
Feltrinelli editore, 1978, I ed. 1988

Scrivere false verità.

La narrativa sudamericana è spesso un terreno ambiguo: facile e difficile, dice e non dice. Dice e mentre dice, dice qualcos'altro, o forse non dice niente e si diverte a prenderti in giro. Ti sfida a seguirla per sentieri impervi e dopo due passi ti accorgi che sei già sprofondato nel fitto di una giungla, privo di qualsiasi punto di riferimento. Con la narrativa sudamericana a poco servono le unità aristoteliche che costituiscono il canone o le altre categorie che siamo soliti applicare al romanzo classico, quello che serve è disponibilità a lasciarsi stupire, a immergersi in tanta confusione e bellezza senza cercare il bandolo della matassa, il filo logico che ci porti fuori dal labirinto, quello che serve è la capacità di volare sopra le pagine per riuscire ad ammirare, se non comprendere integralmente, la costruzione letteraria che si estende sotto i nostri occhi.
Io il supremo è una cattedrale uscita dal genio di un architetto visionario: Io il supremo è la Sagrada Familia e Roa Bastos il Gaudì (uno dei Gaudì) della narrativa sudamericana, che sceglie di romanzare la storia di José Gaspar Rodríguez de Francia, dittatore del Paraguay dal 1816 al 1840, come mai nessuno aveva fatto prima.
Un libro caratterizzato da una prosa torrenziale, barocchissima fumosa, ricca di digressioni, allitterazioni e giochi di parole. Stili e punti di vista diversi si accavallano senza dar tregua al lettore: conversazioni in prima persona del Presidente con il suo segretario, parti del "quaderno privato" del Supremo, flussi di coscienza, dialoghi con se stesso, memoriali, considerazioni di un punto di vista esterno e, alla fine, anche pareri di storici sulla figura di Gaspar Rodríguez… il tutto sviluppato su più piano temporali che si intersecano confondendosi e abbracciano l'intero corso della vita del dittatore ma si estendono anche per molti anni dopo la sua morte.
Difficile tener dietro a un garbuglio simile, eppure la scelta dell'autore risulta perfettamente in linea con l'immagine del personaggio che vuole tratteggiare: il Supremo è un uomo solo, un autarchico, nazionalista, illuminista e gattopardesco, ma soprattutto una personalità complessa e contraddittoria che aspira ad andare oltre i limiti della sua identità per riuscire ad abbracciare il Tutto. Un cinico disilluso convinto di essere un passo avanti agli altri e al contempo di non essere niente, che crede di essere superiore ma questo non basta a soddisfarlo. Una personalità ricca di sfaccettature e della quale è quasi impossibile venire a capo, un Don Chisciotte ottocentesco, forse pazzo e forse statista, o probabilmente entrambi, un grande personaggio che grazie alla prosa di Roa Bastos riesce a trascendere la dimensione storica per assurgere a un livello quasi di leggenda.
In fondo, è proprio il racconto in chiave farsesca dello scrittore paraguayano che smitizza la storia, mostrando come gli uomini che la fanno siano molto al di sotto delle loro ambizioni e come sia inutile tentare un resoconto dei fatti per provare a darne una spiegazione. "Le parole rimangono per dare un significato all'impossibile. Nessuna storia può essere raccontata. Il vero linguaggio non è ancora nato."
Scrivere diventa l'unico modo di sentirsi vivo, perché "si scrive quando non si può agire. Scrivere false verità."

Difficile dire dove finisca il Supremo e dove inizi Roa Bastos, nel furioso corpo a corpo del protagonista con la scrittura, che aspira a raggiungere una dimensione "totale", in grado di dire l'indicibile ma che a tempo stesso mostra la sua limitatezza e, in ultima analisi, l'inutilità ("alla scrittura poco importa se viene usata per la verità o la menzogna"). La scrittura quindi come strumento ambiguo ma straordinario, in grado di reinventare la realtà, e basterebbe questa considerazione che scaturisce dalla lettura di questo libro per proiettarlo nell'Olimpo letterario.

domenica 7 luglio 2024

Orhan Pamuk – Il mio nome è rosso

 


Orhan Pamuk – Il mio nome è rosso
( Şemsa Gezgin, Marta Bertolini)
Einaudi editore, 2005, I ed. 1998

È del grande scrittore la capacità di interrogarsi su temi diversi e rappresentare punti di vista anche divergenti riuscendo a seguire tutti i fili della trama senza seguire la scorciatoia di semplificazioni forzate. In questo romanzo Pamuk lo fa fondendo l'aspetto classico dei temi trattati con un racconto polifonico, moderno (postmoderno) nello stile, una scrittura che si rivolge direttamente al lettore chiamandolo ad entrare nella storia.
Al centro della narrazione ci sono un omicidio e una storia d'amore, ma questo è solo il livello più superficiale del testo, perché quello che l'autore vuole proporci è una riflessione sull'arte, il suo scopo, i modi di concepirla e il ruolo dell'artista. Da qui, arrivare al dualismo Oriente/Occidente, tradizione/innovazione, il passo è breve e Pamuk sembra suggerire, pur senza dirlo apertamente, un futuro dove i due mondi possano comunicare e "contaminare" i rispettivi punti di vista per creare qualcosa di nuovo.

sabato 8 giugno 2024

Saša Sokolov – Trittico

 


Saša Sokolov – Trittico
(trad. Martina Napolitano)
Miraggi Edizioni, 2024

Sperimentale.

Già da tempo erano evidenti i segnali di un cambio di rotta nel percorso letterario di Sokolov e Palissandreide in questo senso risulta paradigmatico, con il tentativo di contenere tutto: prosa alta e bassa, citazionismo, utilizzo di registri diversi, salti temporali… il passo successivo era nell'aria e ora possiamo dire che la bolla, dopo essersi tanto gonfiata, è scoppiata.
Dall'esplosione è saltato fuori Trittico, un esperimento di "proezia", insieme di prosa e poesia che sembra essere la nuova isola verso la quale lo scrittore russo ha puntato le vele. Si tratta di tre testi non strettamente legati tra loro se non sul piano ideale, che vanno letti senza cercare di seguire una trama che non c'è ma concentrandosi sulla forma più che sul contenuto, sulla scrittura che cerca di avvicinarsi alla musica. Testi che semplificando possiamo riassumere a riflessioni sul Bello, sull'Arte come unico strumento in grado di elevare l'uomo portandolo verso una dimensione superiore.
Dispiace che Sokolov abbia deciso di interrompere la sua esperienza nel campo della narrativa dopo solo tre romanzi, soprattutto perché dava l'impressione di avere ancora tanto da dire, e nutro un po' di apprensioni per quello che ci riserverà in futuro perché il rischio che si avventuri in uno sperimentale troppo "spinto", ai limiti dell'illeggibile (almeno per me), sembra reale.

Link
https://www.esamizdat.it/ojs/index.php/eS/article/view/23/15

domenica 2 giugno 2024

David Markson – L'amante di Wittgenstein

 


David Markson – L'amante di Wittgenstein
(trad. Sara Reggiani)
Edizioni Clichy, 2016 – I ed. 1988

La storia di Kate, la protagonista di questo libro, è fatta di un prima, nel quale era moglie e madre, e di un dopo, nel quale vaga sulla terra come ultimo sopravvissuto della specie umana e scrive di sé mescolando ricordi, pensieri e fantasie, forse veri e forse falsi.
Detta così sembrerebbe la trama di un romanzo come tanti del genere fantastico-apocalittico con un piede nello sperimentale, se non fosse che le intenzioni dell'autore guardano in una direzione diversa e molto più ambiziosa: dare una trasposizione letteraria alle proposizioni filosofiche del Tractatus di Wittgenstein, impresa spregiudicata e affascinante che Markson affronta con una scrittura fatta di frasi brevi e ricche di ripetizioni e correzioni, di digressioni, avvenimenti e persone ricordati male o fuori contesto. È un punto di vista parziale, imperfetto, fallace, che non descrive la realtà ma l'idea di Kate/Wittgenstein del mondo che si rivela essere un mondo invivibile: un deserto di solitudine, una cella nella quale ruminare pensieri che si avvitano tragicamente su se stessi con la protagonista intenta a costruire mondi che poi distrugge come una novella Penelope.
In ultima analisi, L'amante di Wittgenstein è anche una riflessione sui limiti del linguaggio come strumento di comunicazione, perché tutte le riflessioni di Kate rimangono chiuse nella sua testa e quindi condannate alla sterilità.