sabato 12 settembre 2009

Una domenica d'estate (persone al sole)


Breve elenco delle cose che in estate mi danno fastidio:
la confusione
le spiagge senza sabbia
gli ombrelloni lontano dal mare
Sono le undici e trenta di domenica 6 Agosto. Fa caldo, la camicia mi si appiccica alla pelle, ho appena perso un passaggio in barca e la signora che affitta gli ombrelloni mi sta dicendo, con la voce melliflua di quella che tanto-se-non-lo-prendi-tu-io-l’ombrellone-lo piazzo-lo-stesso, che l’unico libero è in terz’ultima fila, sul cemento, lontano dal mare.
Che cosa faccio, lo prendo?
Traccheggio, mastico amaro, poi guardo speranzoso mia moglie, cercando neppure io so cosa.
- Che cosa facciamo, lo prendiamo? - mi chiede lei, bella come il sole.
Sento che sarà una giornata lunga.
Tante grazie, cara. - penso - Io volevo un aiuto, la domanda me l’ero già fatta da solo.
Trenta secondi per decidere, la signora che comincia già a starmi sui nervi ha fretta di una risposta.
- Allora, lo prendete? - mi incalza miss simpatia.
Odio le situazioni come questa.
Prendere o lasciare.
Bere o affogare.
O così o niente.
Allora?
Prendo.
Bevo.
Così.
Incasso la testa nelle spalle, mugugno qualcosa e poi mi avvio silenzioso con borse e giornali dietro al ragazzo dello stabilimento. Non mi sento tranquillo. C’è qualcosa che comincia ad agitarsi dentro di me, avverto distintamente che il malessere ha origine tra lo stomaco ed il duodeno, ma non si ferma lì. È una marea che risale lungo l’esofago e poi ancora più su, per andare a localizzarsi in punto esattamente a metà strada fra i due occhi, un centimetro e mezzo al di sopra del naso. Sono così carico che potrei incenerire qualcuno con un’occhiata. Mentre attraverso la spiaggia osservo con risentimento i privilegiati delle prime file che a loro volta sembrano restituirmi sguardi sprezzanti, tipo “se arrivavi un po' prima magari adesso eri al mio posto” e penso che forse sto diventando paranoico.
Controllo ancora l’orologio, tanto per fare qualcosa. Undici e trentasette.
Niente da dire: non è proprio il modo migliore di cominciare la domenica.
Arriviamo all’ombrellone e ci sistemiamo: a lei il lettino ed a me la sdraio, come sempre. Mi tolgo i vestiti, gli occhiali, le chiavi, il cellulare e faccio un rapido giro d’orizzonte prima di sedermi. C’è mia sorella, due ombrelloni più in là. La saluto. Ecco un’altra che non è arrivata tra i primi stamattina… Sistemo l’asciugamano sulla sdraio e mi accomodo a favore di sole. Okkei, ci siamo, - mi dico - becchiamoci anche questa domenica.
Primo pensiero: ci sono persone che sanno accontentarsi e che quando sono costrette a adattarsi ad una situazione si sforzano di vederne il lato positivo. Io non sono così: questo posto mi fa schifo, e se prima era solo una sensazione suggerita dal mio pessimismo cosmico, adesso ne sono più che mai convinto. Andare in spiaggia senza neppure riuscire a vedere il mare dall’ombrellone è pazzesco, ma andare in spiaggia e trovarsi sotto i piedi delle mattonelle di granito roventi al posto della sabbia è ancor peggio.
Seconda riflessione: avete presente quel quadro di Hopper dove è ritratto un gruppo di persone sedute a prendere il sole a fianco di un edificio anonimo? No? Non l'avete mai visto? Poco importa, è un problema vostro: in questo momento mi sento tanto come uno di loro. Sì lo so tra me e quegli individui c'è più di qualche differenza: loro sono vestiti di tutto punto ed io in costume da bagno, loro hanno davanti un gruppo di montagne ed io il mare (anche se la sua esistenza, al di là di quel muro di ombrelloni che mi si para davanti, più che una certezza è un atto di fede), loro hanno sotto i piedi un basamento di cemento mentre io invece… anche. Quello che voglio dire è che, a parte piccoli, irrilevanti, particolari, la situazione che sto vivendo è simile a quella dei personaggi di quel dipinto ed io mi sento un po’ come quel signore pelato, quello che siede in giacca e cravatta in prima fila e che sembra avere come unico pensiero quello di ricevere in faccia quanto più sole gli è possibile.
A proposito: se io sono il signore pelato, allora chi diavolo è la signora che siede alla mia sinistra in tailleur carta da zucchero con cappellino color crema ed una curiosa sciarpetta rossa?
Sveglia! - mi dico - Basta sognare! Tu non sei quello del quadro, tu sei quello che siede qui, su questa sdraio, adesso.
Andiamo avanti, - mento a me stesso cercando di darmi una convinzione che non c’è - questa sarà comunque una bella domenica.
Per prima cosa un’occhiatina in giro, tanto per capire come siamo sistemati. L’occhio si muove sugli ombrelloni vicini simulando una nonchalance che in realtà nasconde curiosità mista ad apprensione.
Ecco apparire l’oggetto delle mie preoccupazioni: i vicini.
Alla mia sinistra c’è una coppia di ragazzi con un bambino. Avranno più o meno la mia età ed anche se non sono per nulla fisionomista lui non posso non riconoscerlo, è un ex centravanti dello Spezia di qualche anno fa, di quelli che non segnavano mica tanto. Vado a memoria: in tre anni tra C2 e C1 non deve aver superato i quattro o cinque gol a stagione (rigori compresi). Poca roba. Mi chiedo quanto sarà passato da allora, faccio due conti e scopro che sono dieci anni, dieci anni belli tondi. Merda, come se non fossi abbastanza depresso, ora mi sento anche vecchio. E vedermi davanti quell’ex punta spuntata ha il potere di evocare una serie di ricordi che dormivano chissà dove. Avete presente quando da un cassetto della scrivania saltano fuori i quaderni delle elementari, o quando vi capita di incontrare per strada un vecchio compagno del liceo? Ecco, così. Uguale sputato. Lo stesso gusto strano, a metà tra il dolce e il salato, un sapore come quello che hanno le lacrime sulle labbra, il piacere di ricordare e la malinconia che inevitabilmente il ricordo si tira dietro.
Dieci anni, una vita fa. Mi sembra impossibile. Allora c’era solo lo Spezia: col sole o con la pioggia tutte le domeniche ero fisso al campo, in casa e spesso anche in trasferta, insieme agli amici di sempre. Piovono pensieri come chicchi di grandine: lo 0 a 0 con l’Ancona che ci costò la B, i diecimila con la Lucchese, le battaglie (in campo e fuori) con la Reggiana, e quella volta con la Virescit, un 2 a 2 da incorniciare sotto un diluvio da tregenda. Che tempi! E che nostalgia. E adesso? - mi chiedo - Beh, a dirla tutta non mi sembra di essere cambiato più di tanto; forse (sicuramente) ho un po’ meno capelli di allora, magari (certamente) ho qualche chilo in più, ma in fondo lo Spezia continua ad occupare una posizione di vertice nella mia scala delle priorità. Come tutti gli anni ho appena rinnovato il mio abbonamento in gradinata, come tutti gli anni mi toccherà bisticciare con mia moglie per riuscire a strappare il permesso per seguire la squadra anche in trasferta e come tutti gli anni ho già cominciato la serie delle discussioni con colleghi di lavoro ed amici del bar sulla superiorità del 4-3-1-2 sul vecchio 4-4-2 o del più prudente 3-5-2 sul troppo aggressivo 3-4-3. Insomma: avrò anche trentasette anni, ma quanto a maturare non se ne parla nemmeno…
Mi concedo ancora un'occhiata all’ex punta spuntata dei miei vent’anni. Anche lui non sembra cambiato molto da quando vestiva la maglia bianca dello Spezia. So che dopo aver smesso con il calcio a livello agonistico, ora si barcamena con una squadra di dilettanti della nostra provincia. Contento lui... E’ lì bello pacifico che tanto per essere originale legge, guarda un po', la “Gazzetta dello Sport” (evidentemente le buone abitudini sono dure a morire), del tutto ignaro di essere il protagonista assoluto delle mie riflessioni, mentre sua moglie sembra impegnatissima nella difficile arte di cospargersi ogni centimetro quadrato di pelle con crema abbronzante ed il bambinetto che è con loro (avrà tre - quattro anni, non di più) sembra avere occhi solo per delle formine di plastica che ora come ora sembrano più che sufficienti per tenerlo calmo.
Sono moderatamente soddisfatto: da questo lato non sembra esserci nulla da temere. Quello che invece mi preoccupa è un gruppetto posizionato appena due file più avanti.
Esperienza di vita: diffidare sempre delle compagnie composte da un minimo di quattro o cinque persone. Nella massa il singolo si annulla, perde inibizioni e paure e spesso offre il peggio di sé. Concentro la mia attenzione sul gruppo sospetto, li studio, li ascolto, guardo come interagiscono, quello che dicono e come lo dicono, valuto parole ed atteggiamenti, gestualità e mimica. Morale: in cinque - dieci minuti (sono un vero esperto in questo campo) mi sento in grado di stilare i primi verdetti.
Innanzi tutto il leader, la figura più pericolosa. Avrà cinquantacinque anni o poco più, capelli di un rosso sospetto (credo che se mettessimo alle strette il suo parrucchiere, non potrebbe negare di tingerglieli regolarmente), accuratamente imbrillantinati e pettinati all’indietro, come un torero. E’ un uomo alto ed abbronzato, con gambe sottili e spalle strette, senza accenno di muscolatura ma con una pancetta incipiente tipo donna incinta o, peggio ancora, cirrosi epatica. E’ lui quello che comanda la discussione muovendosi avanti ed indietro lungo gli ombrelloni come un generale che passa in rassegna le truppe, accompagnando le parole con un mulinare di braccia in tutte le direzioni. Si sente sicuro ed a suo agio, lo vedo da come scherza con gli altri, da quel sorrisetto ebete stampato sulle labbra, un sorriso di sufficienza e di superiorità. Sono certo che si crede migliore di quelli che gli stanno intorno.
E vediamola allora questa claque che fa da cassa di risonanza al torero. Più che una claque direi un gineceo, un harem per il sultano dai capelli tinti. Sono tre donne, tre allegre signore di taglia extra-large che non sfigurerebbero in un quadro di Botero e che sembrano contendersi le attenzioni del leader. Quella seduta vicino a lui (ad occhio dovrebbe essere la moglie) sembra avere anche gli stessi gusti (discutibili) del torero in fatto di capigliatura e sfoggia una chioma rosso ramata altrettanto sospetta. Che condividano anche tinta e parrucchiere? - mi chiedo non senza una punta di cattiveria. La mise da mare della signora è poi tutto un programma: indossa un improponibile due pezzi rosa con disegno a fiori per il quale provo un’immediata simpatia. D'altra parte converrete che non è proprio possibile provare comprensione (ed anche un po’ di apprensione) per la sorte di quel povero bikini, costretto ad un superlavoro per cercare di contenere tanta opulenza matronale. Ad ogni movimento della signora corrisponde un pericoloso ondeggiare di forme che sembrano dover tracimare da un momento all’altro da quegli angusti centimetri di stoffa che si tendono per lo sforzo come vele gonfiate dal vento di tramontana. Forza vecchio due pezzi, resisti! Noi qui facciamo tutti il tifo per te.
C'è da dire che almeno le altre due matrone dell'harem del sultano dai capelli tinti hanno avuto il buon gusto di scegliere il basso profilo, preferendo nascondere l’abbondanza delle forme sotto anonimi costumi interi, che forse non saranno all’ultima moda, ma se non altro hanno il pregio di non attirare troppo l’attenzione…
La discussione nella quale è impegnato il gruppetto non sembra di quelle esistenziali. Ne afferro frammenti, mi sembra che si parli del piacere di stare in casa.
- Chiamatemi pure pantofolaia, ma io sto bene in casa mia. - dice una delle due finte magre - Preferisco ricevere ospiti piuttosto che essere invitata in casa d'altri. Magari mi toccherà anche lavorare di più in cucina, mi sento più a mio agio tra le mie cose.
- Ti capisco, - conferma l’amica - anch’io sono come te. Non c’è niente come la propria casa. Pensa che quest’inverno siamo stati quindici giorni in Thailandia: spiagge bianche, templi buddisti… eravamo serviti come principi dalla mattina a sera. Bene, non ci crederete ma per me la cosa più bella è stata tornarmene a casa.
Niente di nuovo sotto il sole. Ma - se mi è permesso un inciso – sarebbe bene far notare a miss taglie forti che già Montaigne, qualche annetto prima che lei facesse la scoperta, sosteneva che la parte migliore di un viaggio fosse il ritorno?
- Io in casa non riesco a starci. - proclama il torero, fiero della propria diversità - Lei invece sì, - dice indicando la moglie - lei sì che riesce a viverla la casa.
- Sì, è vero. - squittisce il due pezzi a fiorellini - A me piace sia prendermi cura della casa che uscire.
Sai che palle..tanto per cambiare ecco un'altra di quelle mogli-mamme, attente a non contraddire il marito-padrone anche se non ne condividono le opinioni.
- Ecco: lei la casa la vive. - ripete il torero, con il tono di quello che sta dicendo chissà quali verità, compiacendosi per la brillantezza del suo eloquio e quasi stupito di aver pronunciato una frase (lei la casa la vive) per quale sembra sospettare un significato così profondo che anche lui al momento non comprende appieno.
Lei la casa la vive: una proposizione che meriterebbe di essere sviscerata, cinque parole che nella mente del sultano dai capelli tinti si ammantano di magia, come se nascondessero dentro una potenzialità tutta da indagare. Lei la casa le vive: che questa frase rappresenti la porta d’accesso per capire finalmente il vero significato della vita?
Basta, m’annoio.
Abbasso gli occhi, apro il libro che tengo in grembo e mi tuffo nelle pagine di Kenneth Patchen. Le “Memorie di un pornografo timido” non è quel che si dice un libro facile. E’ un fluire di pensieri ed azioni che si sovrappongono confondendosi, un po’ come accade nell’Ulisse di Joyce. E’ una lettura che non può essere superficiale, ma abbisogna di una costante concentrazione (e mi rendo conto che la spiaggia non è il posto migliore per un libro come questo). Una trama che prima ti disorienta, poi ti coinvolge, poi di nuovo ti confonde ma man mano che vai avanti ti trascina all’interno di un’altra vita. Pagine di intenso lirismo, di una bellezza commovente. Ed io vorrei dirlo, comunicare le emozioni che sto vivendo, rendere chi mi è vicino partecipe di quello che sto leggendo. Ma non lo faccio, rimango zitto. Perché mi rendo conto che non è possibile coinvolgere qualcuno in una storia così complicata, dovrei spiegare troppe cose, non capirebbe.
E allora vado avanti, saltando come in uno zapping impazzito dalla vita dell’ex centravanti a quella del torero dai capelli tinti a quella del protagonista del romanzo di Patchen alla mia…, passando da una all’altra con leggerezza, con assoluta nonchalance, come se tutte fossero egualmente reali. E’ comodo rifugiarsi in un mondo diverso quando si è stufi di quello in cui ci si trova. Io lo faccio spesso.
Ripenso al quadro di Hopper: ecco, mi sa tanto che ora mi sono spostato. Se prima ero l'uomo pelato in prima fila, adesso sono quel giovane con calzoni chiari, camicia azzurra e giacca marrone che siede in seconda fila leggendo un libro. Mi colpisce la sua diversità: mentre tutte le altre persone sono semisdraiate con il viso rivolto al sole, gli occhi chiusi e le menti perse dietro chissà quali pensieri, lui è piegato in avanti con il capo chino sul volume che tiene in mano, completamente immerso nella lettura. Tutte i personaggi del quadro vivono in un loro mondo, ma quello del giovane che legge sembra diverso da quello degli altri, sarà per questo che lo sento così vicino.
- Ti spalmo un po’ di crema? - questa che parla è mia moglie nella versione della solerte crocerossina.
- No, grazie. - rispondo.
- Ma sei al sole! - insiste lei, con garbo ma anche con una certa risolutezza (o forse sono io che sono un po’ orso) - finirà che ti ustioni, come al solito.
- Vabbè, caso mai fra un po’. Adesso no. - dico io, senza alzare gli occhi dal mio libro, cercando una difficile mediazione tra la sua richiesta e la mia indolenza.
- Perché fra un po’? - cinguetta lei senza mollare la presa - Perché non te ne dai un po’ adesso? Almeno sulle spalle e in faccia.
Chiudo il libro.
Odio queste cose. Odio questo genere di domande. Sono insofferente a tutti i “perché” ed i “percome”, sono perfettamente conscio del fatto che stanotte mi girerò nel letto con le spalle in fiamme maledicendo la mia testardaggine e che domani mattina mi ritroverò con gli occhi gonfi come un pugile suonato ed il viso color aragosta ma a questo punto è una questione personale: ho detto no ed è no. A qualunque costo. Filtri solari, creme protettive e pozioni schermanti per oggi non toccherete il mio corpo, questa è la mia ultima parola.
Perfetto, ora mi è passata anche la voglia di leggere. Cosa faccio? Mi annoio.
Mi guardo intorno: tutti fanno qualcosa, parlano, leggono, dormono, ridono, scherzano, camminano… io no. Io guardo. E mi annoio. E continuo a schiacciare delle povere formiche che hanno come unico torto quello di arrampicarmisi sulle gambe ad intervalli regolari di cinque minuti una dall’altra. Così mi annoio. Schiaccio e mi annoio.
"C'è solo una cura io so che lo sai
è una stanza vuota, io mi fiderei
bravo puoi capire cose che non vuoi
sei il tuo guaritore se è lei il tuo mondo.
Dammi tre parole, sole cuore amore
dammi un bacio che non fa parlare.
E' l'amore che ti vuole, prendere o lasciare
stavolta non farlo scappare.
Solo le istruzioni per muovere le mani
Non siamo mai così vicini-iii.....ah ah"
Un tempismo da manuale. In effetti, cominciavo a stare in pensiero. Possibile - mi stavo chiedendo - che non sia ancora apparso il genietto della musica? Quell’uomo (o donna, il sesso è un dettaglio irrilevante) che ad un certo punto della giornata tira fuori da chissà dove una radio (per lo più di formato magnum) e siccome è anche un tipo generoso non si limita ad ascoltarla con le cuffiette, ma si prende la briga di regolarne il volume al massimo, in modo da riuscire ad allietare la giornata a quanti più bagnanti possibili. Cerco di capire da dove provenga la soave melodia e sorpresa delle sorprese, il protagonista del gesto inconsulto non è un adolescente brufoloso (come avevo immaginato) e nemmeno una teenager in micro-tanga (come avevo sperato), ma un signore palestrato dallo sguardo truce, capo completamente rasato e due baffoni pettinati all’insù che fanno tanto sollevatore di pesi turco (come, tra l’altro, sembra confermare un vistoso scorpione tatuato sull’avambraccio destro).
"Parla a voce bassa, spiegami che vuoi
sai ne è pieno il mondo di mali come i tuoi
slacciati la faccia arrabbia il gatto che
gioca con la buccia e gira in tondo."
Provo un’immediata tenerezza ad associare le parole della canzone e la voce da gattina che le accompagna al responsabile della loro diffusione su tutta la spiaggia. Possibile che il sollevatore di pesi turco nasconda dietro la ruvida scorza di un aspetto poco raccomandabile uno spirito delicato di chi non sarebbe in grado di far del male ad una mosca? Che sia una di quelle persone sensibili facili alla lacrima, uno di quelli che si commuovono davanti alle soap-opera e sussurrano poesie mielose all’amata?
Difficile, - mi dico guardandolo meglio - probabilmente non sta neppure ascoltandola, la radio. L’avrà accesa per abitudine, tanto per fare un po’ di rumore.
Anche il torero sembra non gradire l’intrusione della radio nella quiete domenicale, se non altro perché il sollevatore di pesi si è sistemato proprio nell’ombrellone accanto al suo e potrebbe minacciarne la leadership all’interno del pollaio (pardon, harem). Lo osservo mentre lancia occhiate rancorose all’indirizzo del turco: non gradisce, ma si adegua (e cosa potrebbe fare di diverso, vista l’evidente disparità di massa muscolare?).
Niente da fare, nonostante i miei tentativi di distrarmi in qualche modo, il tempo continua a non trascorrere. Ho appena finito di passare in rassegna mezza spiaggia, non ho più voglia di leggere Patchen, sono stufo di schiacciare formiche e non mi vengono in mente argomenti per avviare una brillante conversazione. Cosa faccio? Ci vorrebbe un’idea…
E dove la trovo un’idea in spiaggia, a mezzogiorno del 6 Agosto?
Apro il giornale. Leggo i titoli, qualche titolo. Solo i titoli. E mi passa la voglia.
Chiudo il giornale. Mi giro verso mio moglie e vedo che dorme il sonno del giusto sul suo lettino. Lasciamo stare, - mi dico - parleremo un’altra volta.
Sento lo scazzo che sale. Ricomincio a fare il Laocoonte con i miei pensieri, così, tanto per fare. A volte mi chiedo se anche gli altri pensano le cose che penso io, se anche loro si arrovellano con riflessioni tanto capziose quanto inutili. Forse sono così perché mi annoio o forse sono semplicemente pazzo.
Torno al torero-sultano dai capelli tinti, che nel frattempo ha abbandonato il gineceo per attaccare discorso con un signore un po’ più anziano di lui. Non è che il tipo si presenti benissimo: bassetto, grassottello, occhiali spessi e calvizie feroce, insomma mi sa tanto che il nostro narciso dai capelli tinti si sia scelto l’interlocutore ideale per sentirsi a proprio agio. Si parla di Juve, Inter, Milan… insomma banalità e luoghi comuni in serie sulle amichevoli estive. Non è tanto la discussione ad interessarmi (e ci mancherebbe…), ma come il torero sembra condurla. Si comporta con l’amico tracagnotto esattamente come con il gruppo di matrone: la stessa spocchia, lo stesso atteggiamento altezzoso, la stessa alterigia del principe annoiato che ha deciso di concedere un po’ del suo preziosissimo tempo ai suoi sudditi. Non è minimamente interessato a quello che il signore grasso gli dice, ma solo a se stesso. Ironizza sulle parole dell’altro, lo interrompe con il fare di quello che sa tutto lui e più che parlare pontifica. Non è un uomo, è un insieme di difetti: egocentrico, presuntuoso, arrogante e sgradevole. Non c’è niente da fare, da qualsiasi parte lo guardi mi è antipatico, punto e basta. Una cosa devo ammetterla: un tipo così, con un ego talmente ipertrofico, non mi è del tutto sconosciuto… mi sa che se non cambio registro tra una ventina d'anni rischio di essere come lui, capelli tinti a parte.
Basta, mi arrendo. Chiudo gli occhi, congiungo le mani dietro la nuca e decido di darla vinta al sole. Ho deciso di fare come gli altri, di lasciarmi trafiggere dai suoi raggi: novello San Sebastiano immolato sull’altare della noia.
Fa caldo, un caldo schifoso. Assisto impotente al lamento del corpo che comincia ad imperlarsi di sudore (a proposito: chissà come fanno quei personaggi dipinti da Hopper a prendere il sole vestiti di tutto punto), non soffia un filo di vento neppure a pagarlo, vorrei tapparmi le orecchie ma non posso, così sono costretto ad ascoltare discorsi dove problemi di ipertensione si mescolano a nuore stronze e fastidiose artrosi cervicali sembrano misteriosamente collegate a vacanze in Sardegna, mentre bambini dispettosi sono minacciati da mamme nevrotiche.
"Voglio averti qui vicino
coi tuoi occhi da bambino
voglio stringerti un pochino
dove sei
se ti scrivo mi rispondi?
Se ti penso mi confondi
E mi mandi questa email
con scritto su
www mi piaci tu tututu tututu
i love you you and me e mi manchi sempre più
www mi manchi tu tututu tututu
every day every night every second of my life"
Sarò anche noioso, non dico il contrario, ma cosa dovrei fare? Non ascoltare? Mettermi delle cuffie ed isolarmi dal resto del mondo? Magari fosse possibile…
Mi alzo dalla sdraio, bevo un po’ d’acqua anche se non ho sete, sbuffo annoiato e poi mi risiedo sconfitto: mi sa tanto che la prima impressione della mattinata, che questa sarà una giornata molto lunga, si sta confermando.
E mia sorella? Me l’ero quasi dimenticata. Chissà se almeno lei vede quello che vedo io.
E ci mancherebbe altro! - mi dico, rimproverandomi per aver pensato anche solo per un attimo che possa avere una sensibilità diversa dalla mia - Mi giro cercando i sui occhi, quello sguardo d’intesa in grado di farmi capire che anche lei, come me, si trova a disagio qui in mezzo ed in realtà non vede l’ora di andarsene. D’altra parte siamo fratelli, il DNA non è mica uno scherzo…
Buonanotte, altro che fratelli! E’ triste ammetterlo ma in questo momento mia sorella nemmeno si accorge che esisto. E’ lì che parla fitta fitta con il fidanzato, incurante di tutto quello che le succede intorno. La spiaggia, il torero, la musica, questo caldo schifoso… tutta roba che non sembra esistere; lei non è qui, lei è da un’altra parte, mille miglia lontano da noi.
La guardo meglio. Sembra serena, di più: sembra felice. Non capisco. Felice di cosa? - mi chiedo perplesso - Felice perché? E come si fa, poi, ad esseri felici?
Credo che nella ricerca della felicità non facciamo altro che ripercorrere la strada già seguita degli alchimisti medioevali quando cercavano la formula della pietra filosofale: non esiste metodo, si va a tentativi, mescolando a casaccio un tanto di voglia di vivere, un tanto di amore, un tanto di fiducia nel futuro, poi si aggiunge una bella spruzzata di pensiero positivo, fino ad ottenere (a volte, qualche rara, rarissima volta) il risultato sperato. Un risultato che comunque sarà sempre casuale e non riproducibile, perché frutto più del caso che della scienza. O forse no. Forse la felicità è qualcosa di più semplice e consiste semplicemente nel sapersi accontentare, nella consapevolezza dei propri e degli altrui limiti e nella loro serena accettazione (ed in questo caso – scusatemi tanto – ma io mi chiamo fuori: io sono quello che passerà la vita a tirar sassi alle stelle). Non so, continuo a non capire, fatto sta che mia sorella mi sembra davvero felice: mah, ne prendo atto. Non saprei cosa aggiungere.
A dirla tutta mi sa che non sono solo mia sorella ed il suo fidanzato a vivere nel loro mondo, ma anche tutti gli altri. La spiaggia è un brulicare di universi che si sfiorano, si incrociano e poi si perdono. A parte due o tre persone semisvenute su asciugamani o lettini, tutti gli altri sono affaccendati in qualcosa. Il torero dai capelli tinti è impegnato a spiegare il senso della vita al signore grasso, il gineceo delle taglia extra-large (che nel frattempo è cresciuto di due o tre unità) ha deciso di farmi la grazia di spostare il salotto un po’ più lontano, l’ex centravanti dello Spezia è impegnato nella difficile opera di convincere il figlio a mangiare il panino del mezzogiorno e mia moglie ha deciso che è giunta l’ora del bagno (invito che ho gentilmente declinato). Sembra proprio che io sia rimasto l’unico sulla spiaggia a non fare niente.
Mi correggo, quasi l’unico. Solo ora mi accorgo che alla mia estrema destra c’è una ragazza bionda (avrà sui trent’anni) con i capelli raccolti in un ciuffo, naso a patata e bikini verde che scruta con sguardo severo la spiaggia, nascosta dietro un paio di occhiali scuri. Mi incuriosisce la sua maschera imperscrutabile, mi intriga perché è diversa da tutti gli altri.
- Chissà quali pensieri attraversano la sua mente in questo momento. - mi chiedo - Chissà che storia si porta dietro.
Enigmatica, indecifrabile e per questo carica di fascino: è lei, la donna del mistero in grado di buttare legna sul fuoco della mia fantasia. La sua vista mi fa pensare ancora una volta al dipinto di Hopper. E' l’ultima seduta in prima fila, quasi completamente nascosta dall’uomo con i baffi. Se ne vedono solo i capelli di media lunghezza, una porzione minima del viso, il braccio destro ed i piedi. Sappiamo solo che è bionda e che indossa tailleur azzurro e scarpe marroni. Non è che Hopper sia stato proprio prodigo di informazioni al suo riguardo, ma non importa, quello che vediamo è più che sufficiente per permetterci di fantasticare sulla sua vita; proprio il fatto di non conoscerne il volto è il motore in grado di muovere la nostra immaginazione.
- Chissà cosa ci fa lì in mezzo a quella gente. - mi chiedo - Si capisce subito che non c’entra niente con gli altri, forse ha a che fare con il ragazzo che legge, seduto nella fila dietro. Forse hanno appena bisticciato e lui ostenta indifferenza sfogliando un libro, mentre lei siede impettita attendendo che lui faccia la prima mossa per una riconciliazione, oppure no, sono semplicemente vicini ed ognuno ignora l'esistena dell'altro, o forse...
"Me gustan los avion gustas tu.
Me gusta viajar, me gustas tu.
Me gusta la mañana, me gustas tu.
Me gusta el viento, me gustas tu.
Me gusta soñar, me gustas tu.
Me gusta la mar, me gustas tu.
Que voy a hacer, je ne sais pas
Que voy a hacer
Je ne sais plus
Que voy a hacer
Je suis perdu
Que horas son, mi corazón."
Mi ero quasi dimenticato del sollevatore di pesi turco e della sua radio! Eccolo che ha ripreso con rinnovato entusiasmo a smanettare sul selezionatore della sintonia. Non si capisce bene cosa stia cercando con tanto accanimento: canzoni melodiche degli anni ’50 o disco dance anni ’70? Liscio o musica sinfonica? Non importa. Qualunque cosa cerchi per me va sempre bene.
Come diceva quel film? “Suonala ancora, Sam”, e speriamo che in un modo o nell’altro passi anche questa domenica.

[Lars W. Vencelowe: "Hopper's Country"]

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