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Ottobre 1970, primo giorno di scuola. Ed io sbagliavo classe.
Un
caso? Sicuramente. Ma forse anche un segno per dire: io sono così.
Così
come? Così. Diverso. Che sia vero o no non ha alcuna importanza. Quello che importa è che mi sento diverso, e tanto basta.
Sono quello che sento, non quello
che gli altri cercano di convincermi che io sia, questo è il punto.
E non è bello sentirsi diversi. Ci si sente a disagio.
La
diversità è un fardello pesante da portare, è merce che va
trattata con delicatezza, perché diversità fa rima con fragilità.
La diversità non puoi comunicarla a parole, e del resto sarebbe
fatica inutile: solo un altro animo simile può riconoscerla.
La
diversità è solitudine. Non ha senso esibirla, anzi. La si coltiva
nel proprio cuore e la si nasconde a chi non capirebbe.
E
così ho fatto. Ho cercato di stare nel gruppo, di confondermi, di
annullarmi nella massa, di rendermi invisibile. Ho cercato di essere
quello in fondo nelle foto, quello dietro a tutti. Ho
giocato a mascherarmi, a fingere di essere come gli altri. Fino a
quando? Per sempre, credo.
Mi
sento irredimibile, condannato da me stesso ad una doppia vita:
anonima quando sono tra la gente ed immaginifica quando sono nel mio
mondo. E’ un modo di vivere un po’ complicato, ma che per ora
funziona.
Ad
una sola cosa devo stare attento, a non mescolare mai
i due mondi. Temo che potrebbero saltare tutti gli equilibri che mi
sono faticosamente costruito.
[Lars W. Vencelowe: "Pensieri, parole, opere ed omissioni"]
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