domenica 29 maggio 2016

Ernesto Sabato – Sopra eroi e tombe

“sogni, abissi, abissi insormontabili, solitudine solitudine solitudine, tocchiamo ma siamo a distanze incommensurabili, tocchiamo ma siamo soli”

Romanzo da leggere e poi rileggere.
Sopra eroi e tombe è innanzi tutto storia di storie: da quella di Alejandra e Martìn, a quelle dei membri della famiglia di Alejandra, da quelle di Cicìn e Humberto J. D’Arcangélo detto Tito a quella di Fernando e alle altre mille che popolano il racconto. Ma non solo, è anche un romanzo dove si alternano i registri e che, soprattutto, presenta un’architettura straordinariamente moderna. Parlo di quell’alternanza di generi che ho ritrovato in diverse opere recenti: romanzo classico, storico, poliziesco, cronaca, diario,  riflessioni letterarie… il tutto perfettamente tenuto insieme da una trama che, pur perdendo un po’ di linearità tra la prima e la seconda parte, regge perfettamente il peso del romanzo.
Un libro con una prima parte di stampo dostoevskijano (la storia di Alejandra e Martìn mi ha richiamato alla memoria quella di Nastas’ja Filippovna e del principe Myškin) e una seconda quasi kafkiana, con riferimenti anche a Platone (penso alla Caverna), che per certi aspetti mi ha fatto pensare a Gombrowicz e che deve aver influenzato non poco anche autori contemporanei come Cărtărescu.
Sopra eroi e tombe è un romanzo che partendo dalla storia di un amore contrastato si apre in mille direzioni diverse: c’è l’aspirazione all’Assoluto di Martìn, il ragazzo che coltiva la folle idea di arrivare attraverso Alessandra alla Bellezza più pura e c’è anche la rappresentazione della medesima aspirazione declinata alla maniera di Fernando, che trasformerà la sua indagine in un’ossessione, finendone travolto. E c’è l’abisso, il mare profondo che separa le nostre vite e ci rende simili a isole (abitanti solitari di due isole vicine, ma separate da insondabili abissi). Anche quando i personaggi di Sopra eroi e tombe provano a instaurare rapporti interpersonali, questi non riescono quasi mai ad essere equilibrati: Martìn/Alejandra, Fernando/Georgina, Fernando/Bruno… c’è sempre una situazione di dipendenza, di squilibrio che condiziona la relazione. Ognuno di noi è solo, ha bisogno dell’altro, lo cerca, può riuscire anche a stabilire con lui una forma di contatto, ma si tratterà solo di un legame equivoco e limitato nel tempo, perché in realtà non riusciamo mai ad aprirci completamente e rimaniamo chiusi dentro la nostra torre con i nostri ricordi. E d’altra parte come sarebbe possibile mostrarci per quello che siamo se neppure noi conosciamo la nostra vera identità (come ricordava Bruno, «persona» vuol dire maschera e ognuno ha molte maschere: quella di padre, quella di professore, quella di amante. Ma qual era la vera? E ce n’era realmente una vera? In alcuni momenti pensava che l’Alejandra che ora vedeva lì che rideva alle battute di Quique, non era, non poteva essere la stessa che conosceva lui e, soprattutto, non poteva essere la più intima, meravigliosa e terribile Alejandra che lui amava. Ma spesso (e col passare delle settimane se ne convinse sempre di più) tendeva a pensare, come Bruno, che tutte le maschere erano vere e che anche quel viso-boutique era autentico e in qualche modo esprimeva una delle anime di Alejandra)?
Il dramma dell’uomo (moderno): siamo isole che non possono fare a meno di cercare di gettare ponti verso l’altro, nonostante siamo consapevoli che i nostri tentativi sono destinati a fallire. Forse è proprio l’abisso quello che ci attrae (mi affascinava – dice Martìn a proposito di Alejandra – come un abisso tenebroso), un’attrazione che nasce “dentro” e che non si può spiegare, che è frutto più della necessità, di un bisogno, piuttosto che dell’amore (penso che farei bene a non rivederti mai piú. Ma ti rivedrò perché ho bisogno di te. – dice Alejandra a Martìn). La contraddizione dunque è parte della nostra natura, perché siamo spirito ma anche carne, e lo spirito per salvare se stesso dovrebbe stare solo, ma ha bisogno, si esprime attraverso la carne. Contraddizione che Sabato esprime molto bene anche attraverso le parole di Bruno quando dice che “la pura verità non si può dire quasi mai quando si tratta di esseri umani, perché provoca solo dolore, tristezza e distruzione. Credo che la verità vada benissimo in matematica, in chimica, in filosofia. Non nella vita. Nella vita è più importante l’illusione, l’immaginazione, il desiderio, la speranza. Inoltre, sappiamo forse che cos’è la verità? Se io le dico che quel pezzo di finestra è azzurro, dico una verità. Ma è una verità parziale, quindi una specie di bugia. Perché quel pezzo di finestra non è solo, è in una casa, in una città, in un paesaggio. È circondato dal grigio di questo muro di cemento, dall’azzurro chiaro di questo cielo, da quelle nuvole allungate, da infinite altre cose. E se non dico tutto, assolutamente tutto, sto mentendo. Ma dire tutto è impossibile, anche in questo caso della finestra, di un semplice pezzo di realtà fisica, della semplice realtà fisica. La realtà ha infinite sfumature, e se dimentico una sola sfumatura, mento. Allora puoi immaginare com’è la realtà degli esseri umani, con le loro complicazioni e tortuosità e contraddizioni. Che cambia, infatti, ad ogni istante che passa, e ciò che eravamo un momento fa non lo siamo piú. Siamo, forse, sempre la stessa persona? Abbiamo, forse, sempre gli stessi sentimenti? Si può voler bene a qualcuno e improvvisamente disprezzarlo e perfino detestarlo. E se quando lo disprezziamo commettiamo l’errore di dirglielo, quella è una verità, ma una verità molto parziale, che non sarà piú verità fra un’ora o il giorno dopo o in altre circostanze. E invece la persona alla quale la diciamo penserà che quella sia la verità, la verità per sempre e da sempre. E sprofonderà nella disperazione.”
Romanzo duro quindi, apparentemente senza speranza, se non fosse per il finale, con l’apparizione (quasi da deus ex machina) di Hortensia, la donna che forse riescirà a salvare Martìn  dalla catastrofe mostrandogli come nonostante tutto nel mondo esista anche la bellezza. Una bellezza senza maiuscola, limitata alle piccole cose, ai piccoli gesti. Lontana da quel concetto di Assoluto a cui lui aveva dedicato la sua vita, ma magari sufficiente per tirare avanti.

domenica 22 maggio 2016

Saremmo stati in grado di dominare tutto quel silenzio?

“Che cosa eravamo noi, spersi laggiù? Saremmo stati in grado di dominare tutto quel silenzio o sarebbe stato lui a dominare noi? Mi resi conto della grandezza, della terribile grandezza di quella cosa che non poteva parlare e forse neppure udire. Che cosa c’era là dentro?”

“Viviamo, così come sogniamo – da soli…”

“In fondo, laggiù che cosa c’era? Gioia, paura, sofferenza, devozione, coraggio, rabbia – chi lo sa? – ma qualcosa di vero – la verità spogliata dal velo del tempo.”

“Non potete capire. Come potreste? Con i vostri solidi pavimenti sotto i piedi, con il sostegno dei vostri cari vicini pronti a incoraggiarvi o a saltarvi addosso, muovendo passi leggeri tra il macellaio e il poliziotto, con il sacro terrore di uno scandalo, della forca e del manicomio – come potete immaginare in quale particolare regione primordiale i piedi di un uomo privo di vincoli possano condurlo a forza di solitudine – una solitudine totale, senza neppure un poliziotto – sulla via del silenzio – un silenzio totale – senza neppure la voce ammonitrice di un vicino premuroso a sussurrarvi il punto di vista della gente? Sono queste cosette che fanno tutta la differenza. Quando non ci sono più, non rimane che contare sulla propria forza innata, sulla propria tendenza alla fedeltà.”

“quella terra selvaggia l’aveva stanato presto e si era presa su di lui una tremenda vendetta per quella bizzarra invasione. Penso che gli avesse sussurrato all’orecchio cose di se stesso che lui ignorava, cose che non era neppure in grado di concepire prima di confrontarsi con quella grande solitudine – e quel sussurro si era rivelato irresistibilmente affascinante. Aveva riecheggiato forte dentro di lui perché era vuoto, nel profondo…”

“Com’è buffa la vita – questa misteriosa disposizione di una logica spietata per uno scopo tanto futile. Il massimo che ci si possa aspettare è una certa conoscenza di se stessi – che arriva troppo tardi – una raccolta di rimpianti inestinguibili.”

[Joseph Conrad: "Cuore di tenebra"]


sabato 14 maggio 2016

Kent Haruf – Benedizione

La malattia e la morte di un anziano nella cittadina (immaginaria) di Holt, vicino Denver. Una storia minima che si allarga pian piano come i cerchi di un sasso gettato in uno stagno: la famiglia, i vicini, i parenti dei vicini. Storie di solitudini, di occasioni perse, di rapporti umani difficili, di caratteri chiusi, di vicende del passato che tornano a galla.
C’è la superficie, costituita da una comunità che si aiuta e collabora nelle piccole cose del quotidiano, e un sommerso, fatto da quello che è successo o che avrebbe potuto succedere, episodi che hanno segnato la vita dei personaggi, ferite che continuano a far male e che hanno reso le persone più dure o più fragili, comunque diverse da prima.
Uomini e, soprattutto, donne, ai quali manca qualcosa: si sono accontentati, o avrebbero voluto farlo. Persone che sembrano aver perso l’occasione, il momento giusto per la felicità. Già, la felicità, che ora identificano con la normalità, una normalità che non hanno mai avuto o che hanno perso e sentono di non poter più raggiungere.

Il limite di Benedizione, a mio avviso, è nell’architettura un po’ troppo “rigida” del romanzo: i brevi capitoli sono concepiti quasi come un racconto a sé (per certi versi come in Winesburg, Ohio) e costruiti ognuno attorno ad un personaggio del quale viene esposto, con prosa scarna ed essenziale, un episodio della vita attraverso un’alternanza di dialoghi, descrizioni d’ambiente e riflessioni che si ripetono forse un po’ troppo schematicamente.

mercoledì 11 maggio 2016

L'inganno delle parole: A. Moresco

 
Cominciano sempre così, in un primo momento, le parole...” mi dicevo andando verso la chiesa “quando una è partita non si ferma più. L’aria acquista una certa quantità di moto, non può fare altro che continuare ad andare, ad avanzare, anche quando ormai la sua forza motrice non agisce più. Attira a sé altre parole, altri suoni che non può non incontrare sulla sua strada, altri ancora ne comincia a suscitare, e questi a loro volta ne suscitano altri e altri ancora... si espande sempre di più, solleva cartacce, ramazza dappertutto onde sonore, ingloba piccoli e grandi trasferimenti d’energia, spostandosi da un punto all’altro dello spazio, interi fronti vocali cominciano a scollarsi, non si capisce neanche più se è trascinante oppure trascinata, le sue pareti dilagano irresistibilmente, formano in un istante le necessarie connessioni, mentre la sua forza centrifuga aumenta ancora di più, smotta su altri piani che a loro volta smottano, le sue superfici cominciano a scottare, attira a sé colonie sonore sterminate, si raccoglie a valanga su se stessa, rotola sempre più irradiata e irradiante, sradica, strappa, e alla fine non può che assumere poco per volta l’inconfondibile aspetto di una grande sfera di fuoco che rovina...”

Sentivo le parole andare e venire rallentate eppure tutte attaccate. “Come fare a staccarle?” pensavo confusamente nel dormiveglia. “Ed è poi veramente possibile staccarle? Precedendo di molto la parola già pronunciata, forse, la prima parola mai pronunciata, oppure trattenendo così a lungo quella ancora da pronunciare che tutte le altre non possano che staccarsi e sgranarsi per forza nella loro corsa...”

domenica 8 maggio 2016

Witold Gombrowicz – Pornografia


“La bellezza stava tutta dall’altra parte, dalla parte dei giovani”

Le cose sono come ci appaiono. Guardando le interpreto, le faccio mie trasfigurandole. Questo, a grandi linee, è il pensiero che Gombrowicz sviluppa in quella ideale trilogia nella quale Pornografia si pone a metà strada tra Ferdydurke e Cosmo.
Seguendo l’assunto esposto, ne consegue che ognuno di noi “vede” un suo mondo e legge ogni fatto in maniera personale, con la conseguente scomparsa dell’oggettività, di una verità condivisa. Un mondo quindi per ogni persona, ma anche due mondi che si fronteggiano: quello degli adulti e quello dei giovani, due mondi che obbediscono a regole diverse.
La gioventù è l’età delle possibilità, non esistono ancora strade tracciate ma una miriade di sentieri da esplorare. È fuoco che cova sotto la cenere, età delle contraddizioni (innocenza/malizia, per dirne una) e delle contrapposizioni (istinto contro esperienza, leggerezza contro serietà, fantasia contro certezza), ma anche crudeltà e, soprattutto, incoscienza.
La gioventù è Bellezza, rifugio che l’autore sceglie per fuggire dalla normalità della vita adulta, ed essendo mondo adulto e mondo dei giovani due sistemi non comunicanti, l’immaginazione diventa l’unico strumento possibile per provare a stabilire una forma di contatto con un universo così lontano. L’opera a cui Gombrowicz si affanna a dar vita è una costruzione tanto affascinante quanto ardita, basata su fondamenta fragilissime, che vengono messe alla prova ogni volta che l’autore aggiunge una nuova carta al castello che sta faticosamente prendendo forma. Costruzione destinata a crollare irrimediabilmente, che da sempre costruire sui sogni è un po’ come scrivere sull’acqua…

Un doppio delitto, un “delitto a specchio”, sarà la conclusione che i due protagonisti del libro partoriranno per dare una logica al complesso di situazioni che si sono venute a creare, ottenendo però il risultato di accelerare ancora di più quel processo di frammentazione della realtà che Gombrowicz inizia a tratteggiare anche dal punto di vista stilistico (penso alla scrittura sincopata, con un sacco di puntini di sospensione) e che deflagrerà definitivamente con Cosmo.

domenica 1 maggio 2016

Clarice Lispector – Legami familiari





“Il suo era l’apprendistato della pazienza, il voto dell’attesa. Dal quale forse non avrebbe più saputo liberarsi”
Ho faticato un po’ ad entrare in sintonia con i racconti della Lispector. La narrazione in terza persona, i periodi brevi che si limitano a descrivere comportamenti, gesti, parole e soprattutto la costruzione paratattica che trasporta gli avvenimenti in un eterno presente dominato da un’atmosfera di attesa e sospensione, mi attiravano sempre più dentro alla storia, sempre più avanti nella trama e contemporaneamente mi davano l’impressione che mi stessi perdendo qualcosa.
Perché c’è sempre qualcosa che si è perso, che si è rotto, nei personaggi della Lispector, qualcosa da cui discende tutto il resto.
Una raccolta che esplora - come detto nel titolo - l’universo della famiglia, le persone per quello che sono e per come interagiscono (o non interagiscono) tra loro. Mi viene in mente Felici i Felici, di Yasmina Reza: le due autrici affrontano pressappoco lo stesso argomento a cinquant’anni di distanza, anche se con una scrittura decisamente diversa, più compassionevole l’occhio della franco-iraniana,  decisamente più “crudo” il punto di vista della scrittrice (ucraino-)brasiliana.
Clarice Lispector osserva le dinamiche familiari, vite in bilico,  e ce le restituisce senza ammorbidirle, senza provare a smussare gli angoli. Questa è la vita, – sembra volerci dire – questi siamo noi. Specchiamoci e riflettiamo su quello che i nostri occhi vedono. Nessuna indulgenza, nessuna assoluzione. Solo la nuda descrizione di quello che i personaggi  provano.
È un vivere difficile, quello che si racconta nelle pagine di Legami familiari, un vivere al quale non si può sfuggire, ma solo cercare di interpretare sforzandosi di farsi meno male possibile, agendo con circospezione, stando perennemente sulla difensiva.
I personaggi della Lispector vivono soprattutto dentro se stessi, consapevoli che uscire dal guscio che si sono costruiti può rappresentare un rischio del quale non sanno calcolare la portata, accompagnati dalle “meschinità di una vita intima fatta di precauzioni”.
Sono racconti che comunicano un senso di qualcosa che incombe, che rischia di succedere da un momento all’altro. Quello che vediamo è un mare nero, con le acque ferme, ma sotto intuiamo che c’è un agitarsi di correnti, un turbinio di emozioni e sentimenti, che salgono e scendono senza raggiungere mai la superficie,  condannate a vivere compresse.
Ecco, credo che proprio questa “tensione”  sia la cifra di Legami familiari, una tensione che la Lispector dimostra di maneggiare con precisione ed efficacia, esprimendola al meglio quando descrive quell’ambivalenza affettiva dei personaggi sulla quale si è soffermata la psicanalisi.
Qualche esempio:
“Amava il mondo, amava quanto era stato creato – amava con repulsione. Così come era sempre stata affascinata dalle ostriche, con quel vago disgusto che l’approssimarsi della verità le provocava, mettendola in guardia.”
“perché quella bellezza estrema la disturbava. La disturbava? Era un rischio. Ma, no, perché un rischio?, la disturbava solamente, erano un avvertimento, ma! no, perché un avvertimento?”
“rifletté sulla crudele necessità di amare. Rifletté sulla malignità del nostro desiderio di essere felici. Rifletté sulla ferocia con la quale desideriamo giocare.”
“qualcosa di simile alla felicità, non era ancora odio, ma una volontà tormentata di odio simile a un desiderio”
Amore e odio, paura della verità, il bello che attrae e spaventa e poi tanta solitudine, anche questa cercata e fuggita al tempo stesso, ma alla quale i personaggi si votano per poter sopravvivere:
“«Sono sola al mondo! Nessuno mai mi aiuterà, nessuno mai mi vorrà bene! Sono sola al mondo!»”
“tutto quello che sentiva restava prigioniero dentro il suo petto, in quel petto che sapeva solo rassegnarsi, solo sopportare, solo chiedere perdono, che sapeva solo perdonare, che aveva imparato soltanto a possedere la dolcezza dell’infelicità, che aveva imparato solo ad amare, amare, amare. Pensò che non sarebbe mai riuscita a tradurre in azione quell’odio di cui era sempre stato fatto il suo perdono.”