domenica 30 settembre 2018

Jon Fosse – Melancholia




 “Penso che Lars è come il mare e il cielo, sempre cambia, dalla luce al buio, dal bianco al nero più nero.”

Melancholia è un dittico che ruota attorno alla figura di Lars Hertervig, paesaggista norvegese dell’Ottocento.
La prima parte del primo libro (quella principale) è focalizzata su un solo giorno nella vita del pittore, quello che rappresenta il punto di rottura, l’istante di non ritorno, il momento in cui la pazzia del protagonista si rende manifesta.
Una delusione amorosa è il primum movens della pazzia del protagonista (pazzia che, come scopriremo più avanti, era già in fieri ed aspettava solo di essere messa in moto), personaggio in bilico tra la convinzione di essere un grande pittore (“io so dipingere. Anche Gude sa dipingere. E pure Tidemann sa dipingere. Io so dipingere. Nessuno sa dipingere come me, solo Gude. E poi Tidemann.”) e la paura di sottoporsi al giudizio del suo maestro, che lo spinge a non presentarsi quella mattina all’Accademia delle Belle Arti per il timore che il suo quadro possa non piacere. Un personaggio senza equilibrio quindi, pericolosamente sospeso tra due assoluti (il cielo e la polvere), incapace di gestire i rapporti interpersonali, perché confonde i suoi pensieri con la realtà e non comprendendo ciò che lo circonda cerca rifugio nei ricordi e nelle allucinazioni condannandosi all’inazione.
Fosse dimostra di aver studiato a fondo la schizofrenia, perché nella figura di Hertervig che tratteggia ci sono tutte le caratteristiche della malattia: la vulnerabilità, la confusione spazio-temporale, la paranoia, le allucinazioni uditive e visive (“le vesti bianche e nere”), il rifugio in movimenti stereotipati auto-consolatori (“ E mi premo le mani contro la faccia, e comincio a dondolarmi con il busto, faccio dondolare il busto da un lato all’altro”)…
Originalissima la scelta dell’autore di raccontare Hertervig in prima persona e soprattutto di farlo dal punto di vista della malattia, la schizofrenia, che Fosse cerca di restituirci attraverso un corpo a corpo con la scrittura difficile da seguire, a tratti fastidioso, caratterizzato da frasi brevi e ripetizioni continue, pensieri e parole che il protagonista rimastica ossessivamente con l’intento di convincersi della veridicità dei suoi ragionamenti e finendo invece con il precipitarci dentro affondando sempre di più nella malattia. Sorprendentemente la scrittura con cui lo scrittore norvegese cerca di riprodurre la schizofrenia del protagonista, mostra anche parecchi tratti in comune con la pittura: le reiterazioni, i tentativi di definire, precisare, raccontare da capo quasi ininterrottamente, sembrano altrettante pennellate, strati su strati di colore, colate materiche versate sulla tela nel tentativo di riprodurre quella luce che in un gioco di rimandi sembra ossessionare tanto l’Hertervig del libro quanto l’Hertervig pittore, almeno a giudicare dai suoi quadri (Borgoya, uno dei principali, appare nella copertina del volume). La luce quindi come centro del libro proprio perché centro del dramma del protagonista, luce che vede provenire dagli occhi della sua amata e che lui sente essere la stessa luce verso la quale tendono i suoi dipinti e nella quale riesce ad entrare nei momenti, quasi mistici, di ispirazione.
“Io so dipingere, - dice ad un certo punto – perché infatti io so vedere, sì, io vedo tutto e vedo quello che altri non possono vedere e per questo so dipingere”. Ma più avanti aggiunge: “Vedo troppo. Vedo troppo per poter dipingere.”.

Una postilla, solo per aggiungere che purtroppo questo libro è costellato da un numero di refusi ed errori (soprattutto negli a capo) inusuale e piuttosto fastidioso.

domenica 23 settembre 2018

Joy Williams – L’ospite d’onore



 “Siamo soli in un mondo senza senso”

C’è solitudine nei racconti di Joy Williams, storie abitate da personaggi che sembrano non saper più comprendere l’altro, incapaci di condividere, chiusi nel loro bozzolo come se una frattura impossibile da rimarginare li separasse dal resto del mondo.
Spesso il motore della trama è un trauma, una tragedia che le persone non riescono ad affrontare, come se non avessero gli strumenti adeguati per farlo. Storie di disagio, di alcolismo (Ossa di balena, Foglie), di incomunicabilità, caratterizzate dal bisogno che qualcuno dica qualcosa e insieme dalla consapevolezza che la gente non sa più parlare: “Parlami” – dice la protagonista di Estate, ma quello che sa dirgli suo marito non è sufficiente. “È stenografia, solo squallida stenografia”.
Tutto è difficile a definire, da mettere a fuoco, anche i sentimenti (“Constance ci pensò su. Forse l’amore non era né l’obiettivo né la risposta. Forse la comprensione era più importante dell’amore, e forse la forma più alta di comprensione era la comprensione di se stessi, delle proprie motivazioni, dei propri desideri e delle proprie capacità. Constance si costrinse a rifletterci, ma l’idea non le piaceva in granché. Lasciò perdere”).
Sono i bambini quelli che incarnano al meglio il contrasto tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere e l’autrice è maestra nel descrivere quel momento della vita in cui le pulsioni non hanno ancora preso la forma di sentimenti, quello stato di provvisorietà in cui sogno e realtà si mescolano. Si tratta di una condizione propria dell’infanzia e dell’adolescenza e che con il tempo dovrebbe portare i personaggi ad evolvere, a definire i propri contorni acquisendo la consapevolezza propria della maturità, ma i personaggi di Joy Williams non sembrano in grado di fare questo passo, rimanendo condannati a vivere in una specie di limbo (“Avrebbe voluto dire qualcosa,” – pensa la protagonista de Il piccolo inverno – “ma no, non era nemmeno quello. Non voleva dire niente. Voleva capire qualcosa che non era in grado di dire.”).
Se la quotidianità si rivela un terreno sterile, nel quale gli attori di queste storie faticano a ritrovarsi, allora il surreale costituisce una via d’uscita quasi obbligata, un modo per spostare le cose su un piano diverso, un piano nel quale una pianta può diventare l’unica compagna di vita (ne Il giardiniere una felce “è circondata da tanto spazio in cui tutto può succedere, ma di sentimenti sa poco o nulla, perché è matta. Quindi è una confidente perfetta.”), una macchina sgangherata può finire in salotto (Ruggine) e una lampada può accompagnare una donna in giro per l’America alla ricerca della sua vera vocazione (Congresso).

Joy Williams racconta le sue storie con frasi brevi, secche, affilate come lame, attenta a lasciar emergere i caratteri dei personaggi più dalle descrizione dei loro comportamenti che da quello che dicono o pensano, seguendo i canoni di un minimalismo che ricorda Carver pur mantenendo una propria originalità.

domenica 16 settembre 2018

Anatomia di una sconfitta (ipse dixit).




 “…gli era capitato qualcosa che gli risultava difficile da capire e con cui gli era difficile anche riconciliarsi. Ed era una sensazione gradualmente crescente di essere stato messo socialmente fuori gioco. Lo tormentava molto, e gli sembrava anche stupefacente che dovesse essere così. Ma era come se poco di quanto gli veniva offerto come essere sociale lo interessasse ancora davvero. Né la televisione né i giornali riuscivano più a stimolarlo. Sul perché non ci riuscissero, gli era difficile dare una risposta razionale. Comunque non ci riuscivano. Spesso cercava di dirsi: Non è poi così male. I giornali hanno sia notizie che contenuti culturali; di cosa mi lamento in verità? Ed era poi tanto meglio prima? No che non lo era. La gente si è sempre lamentata dei giornali e soprattutto della televisione; anch'io. Quando però, la mattina dopo, riapriva un giornale, provava la stessa sensazione di essere stato lasciato fuori. Le cose che avrebbero dovuto interessarlo, le notizie del giorno e gli argomenti culturali non riuscivano a coinvolgerlo abbastanza; sfogliava il giornale e basta, spesso con un gesto irritato della mano. Lo stesso con la televisione. Quando si metteva a seguire un dibattito televisivo era uguale. Quello che i partecipanti dicevano non lo interessava più di tanto, […]
Aveva come la sensazione di non riuscire più a stare dietro al suo tempo, e nessuno ha mai avuto quella sensazione senza provarne dolore, forse anche rabbia. Guardava le immagini di gente che doveva essere famosa e che aveva appunto compiuto questa o quella impresa; ma il motivo per cui era famosa non gli diceva niente e non lo impressionava neanche un po'; e il particolare exploit che aveva fatto gli pareva piuttosto insignificante, mentre quello che per lui era importante doveva dunque andarselo a cercare come qualcosa di recondito, nel migliore dei casi. Era il sistema gerarchico dei giornali a indignarlo, e a deprimerlo. Era che gli opinionisti che influenzavano la società giudicavano e rispecchiavano la realtà in un modo che sembrava degradare tutto quanto lui rappresentava, che lo metteva quotidianamente fuori gioco, che lo obbligava ad ammettere che giornali e televisione significavano per lui il confronto quotidiano con una personale sconfitta senza fine.[…]

Se c'era qualcuno che aveva dimostrato la propria fedeltà verso questa società, era lui. Aveva dedicato sette anni della sua vita agli studi per prepararsi a essere un pubblico educatore della gioventù norvegese. Dopo di che, per quasi venticinque anni, aveva avuto come missione quotidiana quella di tramandare alla nuova generazione l'autocoscienza della nazione e il suo fondamento. Tutto questo l'aveva fatto del tutto spontaneamente, a occhi aperti, anzi, l'aveva proprio deciso scegliendo liberamente tra molte altre possibilità a sua disposizione; […] aveva scelto di studiare filologia per diventare un fedele educatore della società, per portare avanti quel fondamento su cui tutta la società era, e doveva essere, basata, […] La sua scelta era stata fatta con cognizione di causa, tenendo conto della soddisfazione interiore che gli avrebbe dato il suo lavoro quotidiano di insegnante di scuola superiore, e che quella soddisfazione avrebbe prodotto una luce interiore che avrebbe reso indifferente il grigiore che poteva apparire dal di fuori, convinzione che rivelava una fiducia nella società norvegese e nel suo fondamento che non poteva definire che commovente, perfino bella, […] Perciò lo feriva profondamente il fatto che i giornali e la televisione non si rivolgessero evidentemente più a lui e a quelli come lui. Era come se i nuovi araldi della società non si curassero proprio più di lui. Al contrario, era come se guardassero ostentatamente al di là di lui, e addirittura quasi come se provassero una gioia particolare nel farlo. Era diventato trasparente per loro, come aria, e questo Elias Rukla lo trovava profondamente offensivo. Che cazzo, pensò, sono un normale essere umano interessato alla società, con una buona formazione e una capacità di giudizio complessivamente buona. Sono anche colto. Perché allora sono diventato così poco interessante per gli opinionisti, che neanche più fanno lo sforzo di salutarmi? […] Si sentiva sconfitto. Tutto quanto lui rappresentava era stato cancellato dal linguaggio quotidiano della società. […]
La cosa peggiore era che gli sembrava di non avere più niente da dire. Se non a se stesso. Un'epoca era tramontata, e lui era lì a parlare con se stesso. Un'epoca era tramontata e, con lei, Elias Rukla in quanto essere sociale, perché era proprio a quell'epoca che lui si era messo a disposizione, quale pubblico educatore. Aveva poca voglia di diventare educatore di un'epoca nuova, e per altro neanche aveva le qualifiche per farlo, per dirla in modo blando. E semplicemente così, sbottò. E questo, cazzo, che si prospetta. Decadenza da ogni parte. Basta che ti guardi intorno, gridò. Non riesci cazzo più neanche a parlare. Quand'è l'ultima volta che hai fatto una conversazione? Dev'essere stato anni fa, pensò assorto. Se vuoi trovare qualcosa che per te abbia un senso devi andare a rovistare in mezzo a un pantano di interessi economici, aggiunse. Si può ammutolire per meno. Ma loro chiamano questo pantano democrazia. Anzi, se io lo chiamo pantano vengono a dirmi che disprezzo il popolo, pensò indignato. E forse hanno ragione, pensò assorto. Forse non credo più alla democrazia. Senti, adesso smettila, Elias. Adesso sei sbronzo, si disse severo, e per sicurezza lo disse ad alta voce, per verificare se biascicava un po', e con grande sollievo lo constatò. Ma la cosa si ripeteva. Svariate volte, la sera tardi, oltre mezzanotte, Elias Rukla si sorprendeva ad avere certi pensieri, e ogni volta si deprimeva. Anche questa! Che nemmeno era più un democratico in cuor suo! E quale sarebbe stata la prossima?! Era perché era stato sconfitto? Che la causa della sua sofferenza sociale stava nella democratizzazione della cultura e anche della vita stessa? Ma lui era contro! Lo indignava! E allora perché avrebbe dovuto essere un sostenitore della democrazia, se poi le espressioni della democrazia lo indignavano? Sei sbronzo, Elias, sentiva nuovamente dire dalla sua voce, vai a letto, è notte fonda. Ma non andava a letto. Continuava a pensare, più a fondo che poteva. Provava a consolarsi col fatto che è abbastanza normale che una minoranza sconfitta, e quasi annientata, abbia difficoltà a rendere onore a chi l'ha sconfitta e alle armi usate per sbaragliarla in modo così totale. Ma a lui quel dovere toccava, dal momento che erano stati la voce del popolo e il suo diritto d'espressione a sconfiggerlo. Mi rifiuto di considerarmi un antidemocratico, pensava testardamente. Non mi rassegno. Perciò devo ammettere, non senza repulsione, tutto considerato, che se vuoi presentarti come sostenitore della democrazia, devi esserlo anche quando sei in minoranza ed essere convinto, intellettualmente e soprattutto nel tuo intimo, che la maggioranza, nel nome della democrazia, possa abbattere tutto ciò che tu rappresenti e che significa qualcosa per te, di più, che ti dà la forza di vivere e resistere, anzi, che dà una specie di significato alla tua vita, qualcosa che trascende il tuo destino piuttosto casuale, si può dire. Quando gli araldi della democrazia urlano e sbraitano trionfanti le loro volgari vittorie, giorno dopo giorno, in modo da far soffrire sul serio, come soffro io, si deve comunque accettarlo, perché non voglio che mi si appiccichino altre etichette, pensava. Poi restava immobile, sprofondato nei pensieri, lo sguardo fìsso davanti a sé per un lungo momento. È orribile però, aggiungeva, alzandosi di scatto per andare a letto. E poi non ho più nessuno con cui parlare, sospirava. […]

Non aveva più niente da dire, e non sembrava nemmeno che ci fossero altri della sua cerchia, o ceto culturale, che avessero più qualcosa da dire. Sembrava che non interessasse più a nessuno dialogare. Discutere davvero insieme, tendere insieme verso una comprensione, di carattere personale o sociale, non fosse che per la momentanea scintilla di quella comprensione. Da parte sua Elias Rukla doveva ammettere di non esserne più capace, semplicemente non sapeva più parlare. Non sapeva nemmeno più come comportarsi per avviare una di quelle conversazioni cui aveva così spesso partecipato, e che pure anelava a ristabilire. […]
Nella sala insegnanti della scuola di Fagerborg, si ritrovavano ogni giorno quaranta, cinquanta individui che erano complessivamente detentori delle conoscenze generali del nostro tempo […] e sebbene nessuno di quelli lì riuniti fosse un luminare nel suo campo, capace di elaborare nuove idee nella sua disciplina, avevano comunque una preparazione abbastanza vasta da essere in grado di valutare le nuove acquisizioni nel loro campo e capirle, […] Ciò che quindi colpiva Elias come estremamente singolare, era quanto poco quella riserva di conoscenze, di più, quell'alto livello culturale influisse sulla personalità del singolo. Anzi, era come se dovessero negare a tutti i costi di trovarsi a quell'alto livello culturale e di poterlo quindi usare con la massima naturalezza come punto di partenza quando si esprimevano. Si presentavano invece come schiavi dei debiti. Era di questo che parlavano, era quello l'argomento principale della loro conversazione. Ogni mattina, quaranta, cinquanta schiavi dei debiti si trovavano con il loro pranzo portato da casa nella sala insegnanti della scuola superiore di Fagerborg. Si chiacchierava del più e del meno. Dell'entità del loro debito per gli studi pro tempore e pro anno, dell'entità del mutuo della casa p.t. e p.a., dell'entità del prestito per l'acquisto dell'automobile e le rate p.t. e p.a.  […] tutti parlavano della propria vita come schiavi dei debiti presenti o passati, era l'argomento preferito della pausa pranzo; […]
Era come se solo partendo da se stessi in quanto schiavi dei debiti riuscissero a vedersi come esseri sociali, cioè come persone che potevano parlare insieme di qualcosa che è comune ed essenziale per tutti coloro che partecipano alla conversazione. Partendo dal proprio livello culturale si nutriva infatti un giustificato timore di fare un effetto, socialmente parlando, «strano», anzi «innaturale»; mentre come schiavo dei debiti si viveva una vita sociale quasi drammatica, su cui si potevano esprimere commenti e intrattenersi e intrattenere gli altri. È vero che, in quanto schiavo dei debiti, si era un perdente, uno che non aveva realmente successo, ma questo metteva l'individuo in relazione con la vita sociale e lo rendeva pienamente moderno. Partendo da sé in quanto schiavi dei debiti ci si poteva anche lanciare sui giornali e sui programmi televisivi e provare la gioia di commentare quello che vi si diceva, e che non era altro che l'espressione delle tendenze diffuse dai leader di opinione; e in quanto schiavi dei debiti non era così difficile condividere i valori e le preferenze, addirittura l'atteggiamento di vita che vi venivano espressi. Elias Rukla non aveva niente da dire, eppure anche lui continuava a parlare di niente. Come gli altri. Spesso e volentieri con una distanza critica e ironica da tutto, ma pur sempre di niente. […]
Il dialogo si era bloccato. La gente dello strato sociale di Elias Rukla non parlava più insieme. O solo per poco e superficialmente. Praticamente si facevano spallucce l'un l'altro. Anzi, forse anche l'uno con l'altro in una sorta di ironica intesa. Perché lo spazio pubblico richiesto da un dialogo è occupato. Vi si svolgono altre attività, come si suol dire. Si diventa «artificiosi» a starne fuori e constatare che lo spazio pubblico è occupato. Con «innaturale» sorpresa si deve constatare che non esiste più. Non esiste più, non esiste più.”

Dag Solstad, uno di noi.

[Dag Solstad – Timidezza e dignità]

sabato 8 settembre 2018

Franco Stelzer – Cosa diremo agli angeli




Vedere è un processo che parte dagli occhi ma arriva al cuore.

Cosa diremo agli angeli è romanzo indubbiamente originale. Il racconto in prima persona di un addetto al controllo dei passaporti d’aeroporto che osserva la gente passare e intanto fantastica su quello che dirà agli angeli quando sarà il momento. Il lavoro manuale (un vano che sta costruendo nella sua casa) è il legame che tiene ancorato il protagonista alla vita reale, il resto è immaginazione, una sorta di voyeurismo delicato, immaginare le vite degli altri come modo per guardare (anche) dentro se stesso.
Cosa diremo agli angeli è un libro breve, frasi corte, sincopate, ma cesellate come strofe di una poesia. Ma al tempo stesso è anche un fiume tranquillo, con Stelzer che dilata il tempo della narrazione per permetterci di godere della bellezza di ogni singolo istante, per aiutarci a recuperare il “nostro” ritmo, quello scandito dai grani della clessidra e non dal cronometro dell’epoca che viviamo. La lentezza è la vera misura, sembra indicarci l‘autore, quella che ci permette di vedere davvero le cose, quella che ci consente di fermarci senza provare sensi di colpa, di lasciare da parte la fretta per apprezzare ogni momento, ogni singolo gesto, di perderci nel mondo e di perderci dentro l’immaginazione.
Stelzer invita il lettore a rivedere le sue priorità, a cercare la bellezza nelle piccole cose, nei particolari secondari, in quello che rimane nell’ombra. Quello che ci propone è un universo nel quale la realtà si allunga verso il sogno e viceversa, un vivere languido ma anche malinconico perché il protagonista è consapevole di quanto la sua esistenza sia sbilanciata verso la contemplazione del mondo, sul pensiero più che sull’azione, anche se si tratta di un pensiero in grado di aprire porte su mille mondi diversi.
Come detto, è una vena lirica quella che attraversa le pagine di questo libro e che accompagna lo sforzo dell’addetto al controllo passaporti di avvicinarsi al cuore delle cose accontentandosi però di rimanere sulla soglia, di guardarle come si guarda un fiore che si teme di rovinare cogliendolo, di vivere rimanendo sempre un passo indietro per paura della delusione, per paura che lasciarsi toccare dalla felicità possa illuderci di possederla per sempre.