Opera
ai limiti dell’illeggibile. E sono limiti che in parecchie pagine vengono
ampiamente superati. La storia di Watt, un essere misterioso, privo di
identità, che compare improvvisamente sulla scena mentre un gruppo di persone è
intento a conversare. L’aspetto come vestito del carattere: “inerte sul marciapiede, una sagoma
solitaria”, “Tetty non era sicura se si trattasse di un uomo o di una donna. Il
signor Hackett non era sicuro che non si trattasse di un involto, un tappeto
per esempio, o un rotolo di tela incerata avvolto in carta scura e legato al
centro con uno spago”. Non si sa come lo conoscano, cosa faccia, chi sia. È
lì: una specie di alieno che quando ride lo fa per imitazione degli altri e che
sente dentro di sé delle voci che a volte comprende ed altre no. Un uomo
diverso da tutti, che cammina in maniera contorta, come se non avesse il
controllo degli arti e si sforzasse di guidarli alla meno peggio, come se il
suo corpo non gli appartenesse, come se fosse uno strumento che fatica a far
funzionare e che lui porta in giro ballonzolando come un funambolo. Un tipo indifferente
a quello che succede intorno a lui e anche a quello che succede a lui, che non
si da pensiero neppure quando è colpito da un sasso in testa. Watt,
semplicemente, trova inutile fare attenzione ai particolari, ai cambiamenti
delle cose, perché è convinto che non se possa ricavare nulla di più di ciò che
sono (“trovava strano pensare a questi
piccoli mutamenti di scena, ai particolari che si aggiungono, a quelli che si
perdono, a ciò che viene portato, a ciò che viene rimosso, alla luce data, alla
luce tolta, e a tutte le vane offerte all’ora, trovava strano pensare a tutte
queste piccole cose che si ammassano intorno a ogni arrivo, permanenza e
partenza, che egli non ne avrebbe saputo nulla, nulla, per quanto vivesse, di
ciò che erano state, nulla di quando e come venivano e com’era dopo, a paragone
con prima, nulla di quanto e come rimanevano, e com’era poi, a paragone con
prima, prima che venissero, prima che se n’andassero”).
Ci
sono pagine di Watt in cui Beckett sembra
impegnato nel tentativo di tenere assieme tutte le cose, di abbracciare
contemporaneamente tutte le possibilità: inizia descrivendo un aspetto, un
comportamento e subito dopo elenca tutte le varianti immaginabili, i possibili sviluppi
della situazione, in una folle escalation che se in apparenza sembra
divertente, nella realtà si rivela disturbante, inutile e per questo dolorosa.
Queste “accumulazioni” di possibilità inespresse, come quelle di informazioni e
particolari inutili che l’autore dissemina per le pagine del libro, disegnano
un mondo abitato da personaggi che non sanno più discriminare tra cosa è utile
e cosa inutile. Ogni cosa è quel che è, lì davanti a noi, incomprensibile. L’analisi
non ci aiuta (anzi ci confonde) e la sintesi è impossibile: siamo all’impasse,
e se la nostra capacità di elaborare un giudizio consapevole è azzerata vuol
dire che compiere o meno un’azione
risulterà, come per Watt, indifferente.
La
realtà è una monade inconoscibile e gli strumenti che usiamo per provare a
comprenderla sono armi spuntate. Unica via di uscita è accontentarci del
particolare lasciando perdere l’universale, vivere cioè la realtà che è data ad
ognuno di noi sapendo che è diversa da quella degli altri, che rimarrà per
sempre una porta chiusa alla quale è inutile bussare.
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