Ora non ho retro nè fronte.
Sono come sono alcune persone
che non ti dicono mai come sono
ma sai che sono come te, e lo sono.
Io ero soprannaturalmente saggio
ma era primavera, non c'era nessuno a preoccuparsi o da fare.
Era primaverea e gli irrigatori a pioggia erano in funzione.
Baia, insenature, rocce viscose
quelli sono i piaceri di qualcuno. Piaceri che non se ne vanno
ma che non è proprio che restino,
restino nel modo che avrebbero dovuto.
Ne ho catturato uno alato,
l'ho guardato fisso negli occhi:
qual'è la tua supposizione? Oh, a me piace solo vivere,
il resto non m'importa granchè,
niente affatto, se vuoi.
Ma a me sì, dissi. Allora, beh, è come una radura
nel buio che non puoi vedere. Il buio è destinato a noi tutti.
Ad esso ci si abitua. Poi di nuovo spunta il giorno.
E' questo che voglio dire quando dico del vivere
che potrebbe andare avanti, andando altrove,
ma non lo fa, sta qui, più o meno.
Devi batterti per lui, allora combatte per te,
ma ciò non è necessario. Andrà avanti a vivere comunque.
Dico ti spiace, mi sto stancando.
Ma c'è un'ultima cosa che devo sapere di te.
Ti ricordi una fucina a mezzanotte
attorno a cui strisciavano gli spettri del lebbrosi, che erano fabbri ferrai
in un tempo persistentemente non identificabile, e poi te ne sei andato così?
Ricordi come cadeva lento il martello
portando tutta quella canzone con te.
Ricordi la musica dei cavalli da tiro
che potevano eseguire solo contro un muro.
Perfetto, quanto poco ti costa il tutto allora?
Eri uno scolaro, ora hai passato la mezzetà,
e la grande lotteria non c'è stata.
Vedo che devo andare.
E' proprio che mi piace vivere,
mi piace solo vivere.
Un giorno o l'altro dovrai dirmi delle tue intenzioni,
ma adesso devo stare qui su questa corsia di sorpasso
nel caso arrivino le vettovaglie
che non mi servono, perchè sono una creatura che vive, respira.
Ma ti ho chiesto del tuo cappello.
Oh, sì, beh, è importante avere un cappello.
[J. Ashbery: "Un mondo che non può essere migliore"]
sabato 6 marzo 2010
sabato 20 febbraio 2010
VI
Mi hanno detto: quello che dici, devi dirlo con il cuore
Ma anche: quello che dici oggi, domani potrebbe non essere più vero
E poi: non è importante quello che dici, ma come lo dici
Mi ripetevano: quando dici qualcosa,devi anche essere in grado di dimostrarla Prima di parlare pensa alle conseguenze che potrebbero avere le tue parole E' tutto nelle pause, più che nelle frasi
No, è tutto nello sguardo più che nelle parole
Quello che dici è un conto, poi bisogna considerare quello che capiscono gli altri
A volte si capisce più da un'espressione del volto che da tante parole
Non avere paura di dire quello che pensi
Pensaci bene prima di dire qualcosa
Quello che dici è importante, ma a volte conta di più quello che non dici.
[Xenia Dubinina: “Dialoghi afasici”]
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dialoghi afasici,
l'inganno delle parole,
Xenia Dubinina
sabato 13 febbraio 2010
Una strana vigilia
Chi l’avrebbe detto.
Che un giorno mi sarei trovato qui, seduto al tavolino di un bar all’interno della Questura nella zona di Litejnyj.
E’ passata mezz'ora da quando il mio accompagnatore si è allontanato dicendo di attenderlo un attimo, “cinque minuti al massimo”, ed io inganno l’attesa bevendo caffè e guardando la gente che mi passa davanti, giocando ad indovinare le loro vite. Vorrei fermarli, chiedere se anche a loro succede che… oppure no, e allora cosa… Così vicini e così lontani.
Fuori nevica e fa freddo, ma qui dentro si sta bene.
In Malaya Moskaya Ulitsa mia moglie ed i miei figli attendono il mio ritorno.
Vigilia di Natale a San Pietroburgo, se qualcuno me lo avesse detto non gli avrei creduto.
Che un giorno mi sarei trovato qui, seduto al tavolino di un bar all’interno della Questura nella zona di Litejnyj.
E’ passata mezz'ora da quando il mio accompagnatore si è allontanato dicendo di attenderlo un attimo, “cinque minuti al massimo”, ed io inganno l’attesa bevendo caffè e guardando la gente che mi passa davanti, giocando ad indovinare le loro vite. Vorrei fermarli, chiedere se anche a loro succede che… oppure no, e allora cosa… Così vicini e così lontani.
Fuori nevica e fa freddo, ma qui dentro si sta bene.
In Malaya Moskaya Ulitsa mia moglie ed i miei figli attendono il mio ritorno.
Vigilia di Natale a San Pietroburgo, se qualcuno me lo avesse detto non gli avrei creduto.
domenica 7 febbraio 2010
Volo LH 3224

C’è la ragazza russa, che dopo dieci minuti dal decollo estrae dalla borsa una trousse da viaggio e comincia ad armeggiare intorno alle unghie delle mani con forbici, lime e smalti. Finirà poco prima dell’atterraggio, circa tre ore dopo.
C’è la coppia di francesi che dorme. Dorme per tutta la durata del viaggio. Evidentemente due professionisti della dormita, attrezzati con coperte e ciambelle per il collo.
C’è l’italiano cinquantenne, con moglie e figlia al seguito. Aria da playboy fuori forma, capello lungo alla Roberto Mancini, abbronzatura artificiale, braccialetto brasiliano al polso e pancetta incipiente. Si alza in continuazione, non riesce a stare seduto per cinque minuti di seguito, fissa con sguardo porcino tutte le donne che gli passano davanti che non siano ancora in menopausa.
Ci sono due tedeschi sprofondati nella lettura del giornale. Lo leggono tutto, dall’inizio alla fine, senza parlare, senza cambiare espressione del volto, concedendosi come unica pausa il pasto.
C’è un tipo che ogni tanto si alza per armeggiare intorno alla cappelliera: la apre, sistema la giacca e tocca un po’ la borsa, poi la richiude, senza prendere niente. Fin qui niente di strano, il problema è che durante il viaggio ripeterà questa specie di rito almeno sei o sette volte.
Ci sono quattro o cinque ragazzi russi che bevono. Birra, vino, birra, vino ed ancora vino. All’inizio parlano, ridono e scherzano, ma con il passare del tempo sembrano sempre più in difficoltà, nonostante ciò continuano a bere, come se fosse una specie di obbligo.
C’è un gruppetto di spagnoli che parla fitto fitto. Tre ore e ventisette minuti di fila di discorsi, senza prendere respiro. Una specie di record.
Domande: perché quando si accendono le luci che indicano di allacciare le cinture e rimanere seduti, ci sono sempre due o tre persone che si alzano per andare in bagno?
Ma soprattutto: perché quando l’aereo atterra la gente applaude?
C’è la coppia di francesi che dorme. Dorme per tutta la durata del viaggio. Evidentemente due professionisti della dormita, attrezzati con coperte e ciambelle per il collo.
C’è l’italiano cinquantenne, con moglie e figlia al seguito. Aria da playboy fuori forma, capello lungo alla Roberto Mancini, abbronzatura artificiale, braccialetto brasiliano al polso e pancetta incipiente. Si alza in continuazione, non riesce a stare seduto per cinque minuti di seguito, fissa con sguardo porcino tutte le donne che gli passano davanti che non siano ancora in menopausa.
Ci sono due tedeschi sprofondati nella lettura del giornale. Lo leggono tutto, dall’inizio alla fine, senza parlare, senza cambiare espressione del volto, concedendosi come unica pausa il pasto.
C’è un tipo che ogni tanto si alza per armeggiare intorno alla cappelliera: la apre, sistema la giacca e tocca un po’ la borsa, poi la richiude, senza prendere niente. Fin qui niente di strano, il problema è che durante il viaggio ripeterà questa specie di rito almeno sei o sette volte.
Ci sono quattro o cinque ragazzi russi che bevono. Birra, vino, birra, vino ed ancora vino. All’inizio parlano, ridono e scherzano, ma con il passare del tempo sembrano sempre più in difficoltà, nonostante ciò continuano a bere, come se fosse una specie di obbligo.
C’è un gruppetto di spagnoli che parla fitto fitto. Tre ore e ventisette minuti di fila di discorsi, senza prendere respiro. Una specie di record.
Domande: perché quando si accendono le luci che indicano di allacciare le cinture e rimanere seduti, ci sono sempre due o tre persone che si alzano per andare in bagno?
Ma soprattutto: perché quando l’aereo atterra la gente applaude?
sabato 23 gennaio 2010
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