sabato 21 giugno 2014

La goccia d'acqua


 

Stine si chinò, staccò una foglia, la tenne davanti al volto di lui. Sulla lucida superficie verde scuro c'era una goccia d'acqua.
La goccia d'acqua cominciò a spostarsi lungo il bordo della foglia. «Volevo capire la goccia. Volevo capire cosa la tenesse insieme. Cosa le impedisse di dividersi in parti più piccole.»
«Che cosa la tiene insieme?» disse lei. Kasper aveva amato la sua curiosità. Era una fame, era insaziabile. Era come la curiosità del clown e dei bambini. Un'apertura mentale, un appetito del mondo che non dava nulla per scontato. «Faccio ancora quel gioco» sussurrò, «anche se in modo un po' diverso, con un po' più di concentrazione, sui suoi aspetti essenziali. È l'unica differenza fra la ragazza e la donna, fra il bambino e l'adulto. Raccolgo nella coscienza tutto ciò che sappiamo sulle forze di coesione nei liquidi. L'elasticità della goccia. Il suo tentativo di trovare la minore energia di tensione possibile.
E quando sto quasi per capire, e sono molto, molto vicina, e allo stesso tempo mi rendo conto che non ci arriveremo mai, e lo spirito sta per esplodere, allora rinuncio a ogni comprensione e cado dentro la goccia.» La foglia era ferma, e anche la goccia. Niente si muoveva. Kasper sentì l'ultima acqua che veniva sollevata dalla pompa.
Con cautela, con molta cautela, posò la foglia sul cemento. «Quando accade, e accade di rado, si intuisce cosa ci costerebbe capire davvero. Un prezzo che nessun ricercatore può pagare, se vuole continuare a fare il suo lavoro. Ci costa la comprensione stessa. Non si può arrivare fino a qualcosa e allo stesso tempo volerla comprendere. Capisci cosa intendo?»

[Peter Hoeg: "La bambina silenziosa"]

domenica 15 giugno 2014

ritorno a Volastra


... avevo creduto sbagliando, che tutto avrebbe potuto essere come venti anni prima.
Per me rivedere Giulia avrebbe voluto dire riprendere il discorso lasciato in sospeso sulla Costa de' Posa. Ne ero convinto. Sarei stato capace di ricominciare al punto esatto in cui eravamo rimasti. Avrei potuto replicare alle sue parole di allora su Pessoa e su quanto fossi introverso, come se non fosse trascorso neppure un giorno, come se io e lei fossimo gli stessi ragazzini di allora. Non avevo considerato il fatto che per lei probabilmente quei venti anni erano passati eccome.
Solo ora me ne rendevo conto. Ora che sedevo con i vecchi del paese al tavolino del bar davanti alla scuola, in attesa di vederla uscire da quel portone. Avevo fatto seimilacinquecento chilometri convinto di ritrovare era una ragazzina di diciotto anni, ma quella che mi sarei trovato davanti se fossi rimasto lì sarebbe stata una donna di trentotto. Qualcosa di un po' diverso, un leggero errore di prospettiva. Una persona reale invece di una mia fantasia. Solo ora capivo che sicuramente per lei tutto era cambiato e che niente avrebbe potuto essere come prima.
Viviamo a velocità diverse. 
Ognuno di noi viaggia a una velocità che è solo sua e che non è mai uguale a quella degli altri, questa è la verità. Di più: la velocità con la quale ci muoviamo non è mai costante. Tutti durante la nostra vita abbiamo momenti in cui acceleriamo, rallentiamo, ci fermiamo e ripartiamo. Incontriamo gli altri per un attimo brevissimo o magari per un periodo più o meno lungo, ma prima o poi riprendiamo a muoverci ad una velocità diversa rispetto a chi abbiamo vicino. È una velocità interiore, quella di cui sto parlando, non reale. Possiamo rimanere fermi in un posto per tutta la vita, circondati dalle stesse persone, ma è inevitabile che ci muoviamo ed ognuno di noi lo fa in maniera diversa dall'altro. Cambiamo, ci evolviamo, si potrebbe dire con parole diverse. Ma la sostanza rimane quella.
Anche mamma e papà ad un certo punto avevano preso ad andare a velocità diverse. Era successo quando avevano venduto il bosco di Monterosso e papà si era buttato nell'edilizia, forse. O magari era successo prima. Come si fa a dirlo. 
È inevitabile, non puoi farci niente e tanto varrebbe prenderne coscienza subito. Perché puoi anche sforzarti di accordare il tuo passo a quello di un altro, cercare di condividere il suo cammino, ma è difficile. È impossibile, perché non puoi essere mai certo di cosa stia facendo lui in quel momento, non puoi vedere a che velocità sta andando, se sta andando. Puoi provarci come no, puoi cercare di immaginarlo, puoi anche convincerti di aver sincronizzato la tua andatura sulla sua, ma prima o poi dovrai riconoscere che è solo una tua fantasia, un'impresa folle e destinata a naufragare, perché neppure lui è consapevole della sua velocità, neppure lui sa se in quel momento si sta muovendo o invece è fermo.

sabato 7 giugno 2014

Costa de Posa (Volastra), 5.40 del mattino


La prima cosa della quale avevo sentito la nostalgia, una volta arrivato a Milano, non era stata la famiglia e nemmeno gli amici ( del resto non è che fossi quel che si dice un compagnone e più che amici veri e propri avevo qualche conoscente, compagni di scuola, frequentazioni saltuarie). La prima cosa che mi era mancata era stata la Costa. 
Ma non in senso lato, non la Costa intesa come posto del cuore del quale si sente l'assenza appena ci se ne allontana, non la Costa come “idea”, quasi più sentimento che luogo vero e proprio. No, ciò che mi era mancato era qualcosa di ben definito, una combinazione di spazio e tempo precisa.
Mi era bastata poco più di una settimana a Milano per sentire, fortissima, la nostalgia della Costa de Posa alle 5.40 del mattino in uno di quei giorni in cui la primavera si approssima a diventare estate. 
Una di quelle mattine in cui uscivo di casa prestissimo con la scusa di andare nell'orto e invece me ne stavo lassù da solo a guardare il mare, ad ascoltare il silenzio e i suoi rumori. 
A quell'ora non c'erano voci, né di uomo né di animali, solo il suono lontano delle onde e quello di un alito di vento che soffiava tra gli alberi. E poi c'ero io, che cercavo di accordarmi più possibile alla natura, seduto sull'erba, sforzandomi di restare immobile, di mimetizzarmi con quello che mi stava intorno, come se potessi assorbire almeno una parte di quella magia, come se potessi sciogliermi dentro di lei. 
Ma non ci riuscivo mai, c'era sempre qualcosa che mancava, che mi sfuggiva. Un movimento, un respiro, un pensiero che mi distraeva. Era come su tutte le volte lei mi riconoscesse e non mi lasciasse entrare in sintonia completa, come quando da bambino giocavo a nascondino e quando credevo di aver trovato un nascondiglio perfetto c'era sempre un movimento che mi tradiva, che mi faceva scoprire. 
Quei mattini che duravano sempre troppo poco, con la luce del giorno che all'inizio si stendeva sulla Costa languida, pigra come un gatto che si stira e poi accelerava senza preavviso e di colpo era giorno pieno, con l'esplosione di colori ed il risveglio di voci che mi richiamavano ai miei impegni. 
Una specie di sogno interrotto, di ricerca continua di una sintonia impossibile, un castello di carte che cadeva ogni volta che credevi di aver messo l'ultimo tassello, un castello di sabbia costruito con cura e pazienza che l'onda cancellava con un soffio. Un castello che poi il bambino costruiva di nuovo. Una, due, tre volte. Sempre, all'infinito. Perché era così che doveva andare.

lunedì 2 giugno 2014

Aimee Bender – L'inconfondibile tristezza della torta al limone


Bel romanzo della Bender che conferma tutto quello che di buon aveva lasciato intuire con “Un segno invisibile e mio”. Anche qui ritroviamo un storia raccontata secondo i canoni del realismo magico, con l'inserimento di un elemento fantastico (i “superpoteri” di alcuni dei membri della famiglia Edelstein) all'interno della realtà. 
Nonostante i tanti (troppi?) luoghi comuni (la crisi della famiglia della middle-class americana, la madre frustrata, il padre poco comunicativo, il figlio genio dal comportamento disfunzionale, la figlia-bambina che si comporta con più maturità degli adulti...), la Bender dimostra di sapersi muovere con maturità e sicurezza, gestendo bene i rapporti tra i personaggi, senza appiattire la narrazione sulla protagonista ma sviluppando anche le altre figure e soprattutto mantenendo la difficile misura tra l'elemento fantastico e quello reale, il tutto raccontato con un tono leggero, a tratti poetico o malinconico e che riesce a governare gli sviluppi della trama senza eccedere mai, senza andare sopra le righe e che per certi versi mi ha ricordato Murakami. 
E qui ci si potrebbe anche fermare. 

Ma il fatto è che questo, per me, è uno di quei libri. E io ci sono finito dentro calzato e vestito, come in una buca (per continuare il paragone con Murakami), e allora la cosa cambia perché quando il ragionamento si sposta sul piano emotivo i giudizi e le valutazioni assumono un carattere aleatorio, personale, sul quale diventa difficile confrontarsi. 
Se mi trasferisco dall'altra parte dello specchio, “l'inconfondibile tristezza della torta al limone” diventa una di quelle storie che appena le hai finite già ti mancano, di quelle che vorresti che tutti i tuoi amici le leggessero, che ti fanno guardare agli altri con più indulgenza e che ti lasciano dentro quella specie di struggimento che è inutile che mi sforzi di descrivere (che ci ho già provato più volte e non ci sono mia riuscito). Perché la storia di Rose è la storia di una ragazzina che comprende come il suo “superopotere” non sia una condanna ma una possibilità per capire gli altri e quindi capire/accettare anche se stessi, ma è soprattutto una metafora. 
Ognuno di noi è un unicum, diverso da tutti gli altri e sta a noi accettare o meno la nostra peculiarità, senza cercare di metterla da parte per paura di non saperla gestire (come fa il padre di Rose) e stando attenti a non lasciarsene travolgere (come succede a Joseph, suo fratello). 
Rapportarsi con il mondo, con le cose, con gli altri, può non essere così semplice come sembra: nel libro tutti vanno per la loro strada, faticando a comunicare davvero tra di loro perché troppo impegnati a seguire i propri bisogni e poco disposti ad ascoltare gli altri, e per questo condannati ad una vita incompleta, fatta di compromessi, rimpianti, insoddisfazioni, tanto che forse, alla fine, l'unica davvero pacificata è Rose. 
La sensibilità – sembra dirci la Bender – può essere sia un dono che una condanna, spetta a noi decidere che uso farne.

sabato 31 maggio 2014

Nasconditi la faccia tra le mani


Poiché abbiamo attraversato il fiume e il vento offre soltanto un torpido sdipanarsi di freddo cui ci siamo adattati con mansuetudine, senza più aspettarci altro oltre a ciò che ci è stato dato, e senza più chiederci com'è che siamo arrivati in questo luogo, non ci dispiace affatto che niente sia andato come avevamo sperato. Non c'è modo di dissipare la foschia in cui viviamo, non c'è modo di sapere che ci è stato inflitto un altro giorno. La neve silenziosa del pensiero si scioglie senza una sola possibilità di attecchire. Nessuno ha la minima idea di dove siamo. Le porte sull'assenza di luogo si moltiplicano e il presente è così distante, così profondamente distante. 

 [Mark Strand: “Quasi invisibile”]