Onetti
è Onetti è Onetti…
Raccattacadaveri
è uno dei libri che Onetti dedica alla saga di Santa Maria, Raccattacadaveri è
Larsen, gestore di un bordello, ma Raccattacadaveri non è solo una trama come
tante, Raccattacadaveri è un capolavoro di stile, una delizia per il lettore,
con passaggi da leggere e rileggere più volte per gustarne appieno il bouquet,
come un vino sapientemente invecchiato del quale non vogliamo perdere neppure
una sfumatura.
Sfrondare,
tagliare, eliminare il più possibile gli aggettivi, dire e non dire, andare all’osso…
così dicono i soloni della scrittura creativa. Sì, certo: vallo a dire a
Onetti, prova a togliere solo una parola a quelle frasi rigogliose, cariche
come grappoli d’uva.
Era un uomo di oltre cinquant’anni, con una peluria a piumino intorno
alla pelle rosea del cranio, con la faccia flaccida e glabra, con sporadiche
fiammelle d’astuzia e d’interesse sotto la canizie precoce delle sopraccigli. S’accomodava,
corretto e pesante, sul sedile circolare della sedia, teneva unite le scarpe
piccole e lucide, e descriveva curve nell’aria con la mano sinistra, o la
presentava a palmo rovesciato sulla coscia. Forse sapeva di cosa stava parlando
quando imponeva il racconto della sua vita, ed enumerava o diminuiva
ingiustizie; quando la voce ridente ripercorreva luoghi comuni: il capitalismo,
l’oligarchia, le cooperative agricole o il laburismo inglese; quando lasciava
intendere che tutto ciò era stato, se non un prologo deliberato, un antecedente
fatale dell’esistenza di un postribolo a Santa Maria.
Ecco,
questo, per esempio, è Barthè, il farmacista.
E
questo Jorge, il ragazzo:
io sono io, Jorge. Io sono io, questo essere,
questo loro “ragazzino”, triste, diverso, incerto e saldo quanto nessuno di
loro potrebbe mai sospettare; così discosto e così incombente su tutti loro. Io
sono costui che guardo vivere e fare, con simpatia, senza amore eccessivo; io
sono costui con la pazienza cortese e inesauribile nei confronti di ognuna
delle commedie tediose e senza spirito nelle quali loro si ostinano a
complicarsi per far sì che gli riesca intellegibile, per preservarsi dalle
novità e dalle diffidenze. Cammino in un giardino curato e umido, mi lascio
bagnare il viso dalla pioggia che non spiega nulla, penso oscenità distratte,
guardo la luce della finestra dei miei. Non voglio imparare a vivere, ma
scoprire la vita una volta per sempre. Giudico con passione e vergogna, non
posso impedirmi di giudicare; tossisco e sputo verso il profumo dei fiori e
della terra, ricordo la condanna e l’orgoglio di non partecipare alle loro
azioni.
E
siamo solo a pagina 30. 30 di 300.
Trecento
pagine di prosa ipnotica, parole che galleggiano leggere sul foglio, la sciabordio
dell’onda che lambisce la riva, quel ritmo regolare che chiede solo di essere
assecondato. Rallentare la corsa dei pensieri, chiudere gli occhi, ascoltare,
provare a sentire le cose. Lasciarsi andare.
Raccattacadaveri
è un libro di immagini: le donne di vita che arrivano a Santa Maria, i vari
protagonisti della trama, il dottor Diaz Grey che lascia la casa di Larsen:
Scesero le scale, entrando nel vento freddo che arrivava dalla strada;
Diaz Grey con gli occhi socchiusi e col bastone appeso al braccio, mentre si
appoggiava al corrimano e così si lasciava guidare, risentì, con la stessa
intensità di cinque anni prima, ma con una tenera curiosità che non aveva
conosciuto prima, la tentazione del suicidio. Si calava nella penombra verso il
vento e la solitudine delle strade, verso le abitudini, verso il pranzo da
solo, verso la ripetizione di gesti e di frasi rivolti alla serva, verso i
vecchi trucchi per mezzo dei quali riusciva a non pensarsi, a non affrontarsi.
Un
mondo di vinti, di personaggi che interpretano una parte e mentono, anche a se
stessi. Un mondo fatto di attese infinite, di disincanto, di parole che evocano
immagini che evocano suggestioni…
Leggere
Raccattacadaveri ed entrare nel suo mondo è stato per me un grande privilegio.