domenica 6 marzo 2016
Mircea Cărtărescu - Una motocicletta parcheggiata sotto le stelle
sono una motocicletta parcheggiata sotto le stelle,
accanto alla vetrina di un negozio che ripara televisiori.
dall’andito viene uno spiffero notevole. sono pallida, emaciata.
nel negozio hanno lasciato una luce accesa, sicché un paio di tubi catodici
vasi d’asparago e di cactus, scaffali di lamiera stipati di carcasse di televisiori, cassette AFGA e cavi
luccicano confusamente, popolano la mia solitudine.
mi sento sola infatti.
nel mio specchietto retrovisore pullulano le galassie,
svaporano le stelle in sciamature sferoidali,
trasmettono il proprio ansimare le radiosorgenti
allontanandosi tutte in velocità, come dei criminali dal luogo del delitto che si lasciano dietro una traccia d sangue.
che silenzio. talvolta mi chiedo
cosa potrà significare fare all’amore. loro parlano
infatti solo di questo. ogni sabato m’inforcano
e mi spingono sulle strade. vedo le colline, le nuvole, il sole
le gocce di pioggia, gli alberi che si aggrovigliano nell’arcobaleno…
ah , i cilindri battono in me all’impazzata. allora sento veramente di vivere.
loro entrano in un motel e fanno all’amore.
loro sono i Padroni e si sentono liberi.
ma come può essere qualcuno libro quando è fatto di cellule?
...e torno di nuovo nell’andito, accanto a una polverosa vettura dacia.
ho sete d’amore. se potessi amare almeno uno spinotto con prolunga di questa vetrina.
lascerei scivolare le mie dita sulla sua pelle di plastica bianca, se lo volesse
e se avessi delle dita. se potessi vivere
almeno nel campo bioelettrico del cactus…
presto, ben presto morirò, e non avrò fatto nulla in questo mondo, mi getteranno tra i ferri vecchi
mi spaccheranno il fanale e la lampadina bruciata mi rimarrà sospesa a due fili di rame.
per tutta la vita ho aiutato gli altri a fare all’amore
e io morirò in mezzo a bobine, magneti e cardi.
sono una motocicletta parcheggiata sotto le stelle.
domattina m’inforcheranno di nuovo, mi torceranno il manubrio, mi metteranno in moto
e rieccomi sull’asfalto variegato, fra le colline rossicce, fra i monti azzurri,
fra gli avvallamenti percorsi da fiumi
superare i passaggi a livello, attraversare luminose cittadine di provincia
marciando controvento fra sprazzi di pioggia e gas di scappamento,
divorando chilometri.
vorrà significare questo fare all’amore?
come che sia, questa è la mia consolazione, il mio mestiere, è il mio amore.
per questo merita essere soli.
[Mircea Cărtărescu "Poema dell'acquaio"]
domenica 28 febbraio 2016
E.L. Doctorow – La coscienza di Andrew
di cervello, coscienza e anima
Romanzo
breve, complesso e spiazzante. Un lungo
dialogo tra Andrew, scienziato cognitivo, e Doc, uno psicanalista forse, perché
l’identità dell’interlocutore del protagonista non è precisata. Dalla prima
alla terza persona, dal presente al passato, dal reale all’immaginato, dal
dialogo al monologo, il tutto ambientato in uno spazio che l’autore non si cura
di definire, lasciandolo alla nostra immaginazione.
La storia di un
uomo bersagliato dal destino ma anche complice del destino, almeno per alcune
delle sventure accadutegli, e che prova a guardarsi indietro manifestando
indifferenza (“affabile come sono,
generoso e disponibile come cerco di essere, alla fin fine non ho sentimenti,
nel bene e nel male”). La morte della figlia, il divorzio dalla moglie e
poi un nuovo amore: la speranza di un riscatto, della possibilità di riemergere
dal buio nel quale era finito… e di nuovo il destino a negargli questa chance.
Andrew si
dichiara un impostore e allarga la definizione a comprendere anche Doc e tutti
noi
“Siamo
tutti impostori, dottore, anche tu. Specialmente tu. Perché sorridi? Fingere è
il pane quotidiano del cervello. È quello che fa. Riesce perfino a fingere di
non essere se stesso. Ah sì? E che cosa sa fingere di essere, tanto per fare un
esempio? Be’, per lunghissimo tempo, e fino all’altro ieri, l’anima.”
Già, cervello,
coscienza, anima. Dove sono i confini, quali le sfere di competenza? Cosa
governa cosa? La strada che percorriamo è un andare per tentativi,
l’esplorazione di territori ai confini delle nostre possibilità, assecondando
la voglia di sapere e poi rilanciando con interrogativi nuovi. Cos’è la
felicità (se esiste)? Cosa succede a scrutare dentro se stessi? Come si deve
vivere? Ma soprattutto: quanto dobbiamo fidarci del cervello? Perché
“(l’anima)
è la finzione del cervello. Dobbiamo andarci cauti con i nostri cervelli.
Prendono le decisioni prima di noi. Ci conducono all’acqua ferma. Rinunziano al
libero arbitrio. E la cosa è ancora più bizzarra: se tagliate un cervello a
metà, emisfero sinistro ed emisfero destro continueranno a funzionare
autonomamente senza sapere l’uno cosa fa l’altro. Ma non state a pensarci,
tanto non siete voi a pensare. Limitatevi a seguire la vostra stella. A vivere
dando per scontata la vita costruita socialmente. Abolite la scienza. Credete
più o meno in Dio. Dimenticativi gli errori commessi. Offrite la vostra
giustificazione allo specchio del bagno.”
Questioni
destinate a rimanere aperte, domande per le quali non esistono risposte certe.
La ricerca di una spiegazione onnicomprensiva va, fatalmente, a sbattere contro
una realtà frammentaria, fatta di troppe cose, proprio come il gabbiano che ad
un certo punto della narrazione si schianta contro il vetro di una finestra.
E allora? Come
uscire da questo impasse? Con un coup de théâtre, ad esempio, come una
verticale eseguita dal protagonista nello Studio Ovale della Casa Bianca, davanti
al Presidente ed al suo staff allibito. Un “infinite jest” che segna una
svolta, forse una resa, sicuramente un punto di non ritorno: da “Grande
Impostore” a “Pazzo Santo”, un modo per difendersi, proprio come
“Le
sciocchezzuole inventate da Twain accanto al letto delle sue figlie. Che lui le
protegge, e che il mondo è un posto sicuro e confortevole adesso che devono
fare la nanna. Che quando saranno grandi si ricorderanno di questa favola e
rideranno d’amore per il loro padre. Che questo è il suo riscatto.”
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sabato 20 febbraio 2016
Antonio Di Benedetto – L’uomo del silenzio
“Potrò essere solo a certe condizioni. Quali non lo
so.”
La storia di un’ossessione,
quella dell’uomo senza nome protagonista del romanzo per il rumore, rumore che fa
il suo ingresso in scena già alla seconda riga (Apro il cancello e trovo il rumore) e che viene presentato come
qualcosa di concreto più che entità astratta (lo cerco con lo sguardo, quasi fosse possibile determinare la sua forma
e il limite della sua vitalità).
All’inizio è
solo un disturbo, frastuono che proviene dalla strada e si limita ad
infastidire il protagonista quando è in casa, ma nel corso della storia si
dilaterà a dismisura fino a diventare ingovernabile, monomania in grado di fare
da innesco per l’esplosione di quel malessere che il giovane non riesce più a
comprimere dentro di sé.
Un uomo solo, che
frequenta un strano e contorto amico di nome Besarion, con il quale non riesce
ad avere un rapporto confidenziale ma solo conversazioni superficiali, ed è
invaghito di una ragazza, Leila, una vicina di casa alla quale non riuscirà mai
a dichiarare i suoi sentimenti, finendo poi per sposarne l’amica, Nina, più per
indolenza che per amore (Sposerò Nina. È
la cosa più facile, sì, molto più facile di tutto il resto.).
Un uomo freddo,
apatico, che si sorprende della considerazione qualcuno può avere per lui (“Perché mi accetta?” – chiede a Nina – “Perché lei è buono e per bene.” “Sono buono e per bene?”), e che non
riesce a provare alcuna forma di empatia per gli altri.
Un uomo che vive
veramente solo nella sua immaginazione, nei suoi sogni, come quello del romanzo
che vorrebbe scrivere senza però iniziarlo mai, ma che se non altro gli
fornisce il conforto necessario per andare avanti (forse questo è il fausto giorno in cui comincerò il mio libro. Ce l’ho
quasi tutto nella testa. Mi basta sceglierne un inizio: cosa dire per primo,
con cosa cominciare. Seduto allo scrittoio, ci rifletto, e le creature che ho
pensato già fanno quel che devono per vivere il dramma prefissato. Ho detto
loro di camminare, e camminano. Mi meraviglio della magia del mio pensiero.
Reclino la testa e mi assopisco. Sono felice e questo mio riposo è meritato).
Un personaggio
simile in tutto e per tutto al Bernardo Soares di possoana memoria: un
sognatore, ma forse anche un immaturo, uno che preferisce la fuga al confronto,
che ha paura di assumersi delle responsabilità e appena può scappa in solaio a
giocare da solo con i suoi soldatini. Un uomo
lacerato, come lo definisce Besarion, senza sapere cos’è che lo lacera.
Gli altri, la
gente, i vicini, sono nemici, fabbricatori di rumori e di disturbo, da evitare
prima e combattere poi, in un crescendo che diventa drammatico con il procedere
della trama.
Perché tanto
accanimento nei confronti del rumore? Perché secondo il protagonista è ciò che
gli impedisce la concentrazione, ma questa è solo una scusa, una
giustificazione che racconta agli altri sperando di convincere anche se stesso,
perché in realtà il problema è che non sa su cosa concentrarsi: il protagonista
è un guscio vuoto, senza obiettivi, ambizioni, aspirazioni. Questo è il vero
dramma, il dramma dell’uomo moderno che dopo essersi calato nei labirinti della
coscienza scopre di aver perso il filo che lo legava all’esterno (Besarion tenta di essere, finge di essere,
pur di non essere. Non essere che cosa? Non essere chi? Se stesso. Besarion
tende decisamente a non essere. E io, tendo a non essere?... no, tendo a
essere. Non me lo permettono. Interferiscono, mi bloccano. Potrò essere solo a
certe condizioni. Quali non lo so, Lo intuisco appena.).
Atmosfera kafkiana
per una scrittura che per il rigore e la freddezza delle frasi brevi, secche
come sentenze, mi ha ricordato Lo
straniero di Camus. Ma Di Benedetto è scrittore argentino e come tale non
può far mancare tra le pagine quegli squarci di luce tipici della letteratura
sudamericana (il sole che si prodiga sul tavolo della stanza da pranzo,
il giorno che non è altro che latticello
acquoso alla finestra). Leggo sulla quarta di copertina che la rivista La Nacion ha definito l’autore “uno dei
segreti meglio custoditi della letteratura nazionale”: ecco, sono contento che
questo segreto sia stato finalmente svelato.
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sabato 13 febbraio 2016
Javier Cercas - Anatomia di un istante
Lettura diversa
da quello che mi aspettavo, nel senso che mi è sembrata più una via di mezzo
tra il saggio e il reportage simil-giornalistico che un romanzo. Cercas non
parte dal tentativo di golpe del 23 febbraio 1981 per sviluppare una trama, ma si
ferma ad analizzarne presupposti e conseguenze con grande perizia.
Il fatto di non
essere uno storico permette all’autore di lavorare su più livelli: sull’accaduto,
ovviamente, ma anche sulle ipotesi e soprattutto sui protagonisti, indagandone
carattere e psicologia.
Nel 1981 avevo
sedici anni e mezzo, e nei miei ricordi il 23-F ha i contorni della farsa più
che quelli della tragedia: il tenente colonnello Tejero, con quei baffoni, l’improbabile
tricorno e gli occhi spiritati… mi aveva fatto subito pensare a uno di quei
soldati che Zorro sbeffeggiava quotidianamente che a un militare di prima fila.
Per non parlare dei goffi tentativi che aveva messo in atto per sgambettare Gutiérrez
Mellado… un soldatino, altro che un militare determinato e pronto a tutto.
Probabilmente la realtà era un po’ diversa e io l’avevo percepita in quel modo
a causa della mia giovane e della televisione ( è lo stesso Cercas a scrivere
che “è probabile che la televisione
contamini di irrealtà qualunque cosa riprenda, e che un evento storico venga in
qualche modo alterato una volta trasmesso sullo schermo, perché la televisione
distorce il modo in cui lo percepiamo”). Eppure la ricostruzione dell’autore
spagnolo, per quanto dettagliata e ampiamente condivisa, sembra confermare
quella mia impressione di golpe da operetta e per questo non riesce a
convincermi fino in fondo.
“Forse
il suo piano era campato in aria e peccava di troppa immaginazione.
Non
ebbe successo, soprattutto perché nei primi minuti del golpe, quando era in
ballo la riuscita o il fallimento, si verificarono due fatti imprevisti: il
primo è che il sequestro del Congresso non avvenne secondo la discrezionalità
prevista e degenerò in sparatoria, cosa che lordò con un'immagine da golpe duro
quello che voleva essere un golpe morbido, mettendo in difficoltà il re,
impedendogli cioè di accettare fin dal principio una manovra politica che si
presentava con un simile eccesso di violenza; il secondo è che il nome di
Armada era già sulla bocca dei golpisti prima che il generale avesse
l'opportunità di spiegare al re la natura del golpe e fargli la sua proposta di
soluzione, e aver menzionato Armada suscitò diffidenza nel re e in Fernández
Campo, cui si aggiunge la rivalità tra Fernández Campo e Armada, ottenendo il
risultato che i due decisero di tenere lontano dalla Zarzuela l'ex segretario.
E fu così che, dopo soli quindici minuti, il golpe si impantanò.”
Questo per dire
che mi sembra poco verosimile che un golpe militare possa andare gambe all’aria
solo per qualche colpo di pistola sparato in aria e perché poi il segretario
generale del re si rifiuta di ricevere il generale Armada alla Zarzuela.
L’altro aspetto
che non mi ha convinto pienamente nella scrittura di Cercas è l’uso reiterato
delle “simmetrie”. Qualche esempio:
“pur
sembrando forte, il suo partito era ancora debole, e, pur sembrando debole, il
franchismo era ancora forte”
“se
è forse impossibile capire il comportamento di Armada il 23 febbraio senza
tenere conto del suo rancore per Adolfo Suàrez, forse è altrettanto impossibile
comprendere il comportamento di Milans quel giorno senza tenere conto della sua
avversione per Gutiérrez Mellado.”
“per
Tejero Santiago Carrillo rappresentava qualcosa di simile a ciò che Adolfo
Suárez rappresentava per Armada, e Gutiérrez Mellado per Milans”
“Milans
era contro la democrazia, ma non contro la monarchia, Armada non era contro la
monarchia né contro la democrazia (almeno non in modo aperto ed esplicito), ma
solo contro la democrazia del 1981 di Adolfo Suàrez”
“il
golpe del 23 febbraio fu singolare perché si trattò di tre colpi di Stato
diversi: prima del 23 febbraio Armada, Milans e Tejero credevano che il golpe
fosse lo stesso per tutti e tre, e questo permise di sferrarlo; il 23 febbraio
scoprirono che c'erano tre golpe distinti, e tale scoperta causò il fallimento
del golpe. Questo fu ciò che accadde, almeno dal punto di vista politico; dal
punto di vista personale accadde qualcosa di ancor più singolare: Armada,
Milans e Tejero scatenarono tre colpi di Stato contro tre uomini diversi”
“Santiago
Carrillo aveva tradito gli ideali del comunismo, Gutiérrez Mellado aveva tradito Franco,
Suàrez aveva tradito il partito unico fascista in cui era cresciuto, Suàrez,
Gutiérrez Mellado e Carrillo tradirono la lealtà nei confronti di un errore per
costruire la lealtà a una scelta giusta; tradirono i loro seguaci per non
tradire se stessi; tradirono il passato per non tradire il presente.”
Efficaci,
niente da dire, e con indubbi vantaggi sulla leggibilità dell’opera, ma mi è
parso che l’autore si sia fatto prendere un po’ troppo la mano, finendo in
qualche frangente per abusare di questo espediente.
domenica 7 febbraio 2016
Tadeusz Konwicki - Piccola apocalisse
"Nessuno
protestava, ci avevano fatto tutti l’abitudine."
Piccola apocalisse è un libro
sull’approssimarsi della fine del mondo, tema che Konwicki finge di voler “sterilizzare”
riconducendolo a una dimensione intima, quella del protagonista del libro, mentre
nei fatti oggetto della sua attenzione è quel mondo che sembra andare (o essere
già andato) in frantumi sia di qua che di là dal muro.
Protagonista
del romanzo è uno scrittore che ha da tempo perso la fiducia nella parola
scritta e guarda alla vita con disillusione: nulla sembra avere significato, agire
è compiere azioni stereotipate, vivere è camminare sulle macerie di una guerra
(la seconda guerra mondiale) che ha spazzato via tutto quello che ha incontrato
sulla sua strada: cultura, moralità, principi, idee… precipitando l’umanità
indietro di secoli, facendo regredire l’uomo a ominide. Si vive obbedendo ad un
Destino che non si riesce a comprendere, accettando quello che accade con
rassegnazione, magari concedendosi l’unico svago di giocare con l’idea della
morte, assaporandone con la fantasia il gusto dolce e amaro, come fa lo
scrittore al centro della trama.
Per questo
quando una mattina bussano alla porta due suoi sodali, appartenenti agli
ambienti dell’opposizione, e gli chiedono di farsi interprete di un gesto
dimostrativo e darsi fuoco alle otto di sera davanti all’edificio del Comitato
Centrale del partito, lo scrittore non trova ragioni valide per non farlo e da
quel momento inizia la sua piccola apocalisse, una Via Crucis tra le strade di
Varsavia in attesa che arrivi l’ora designata per immolarsi in nome di qualcosa
nel quale probabilmente ha smesso di credere da tempo.
Attraverso le
pagine di Piccola apocalisse, Konwicki
ci restituisce l’immagine plastica della Polonia del dopoguerra: una nazione
sottomessa al giogo sovietico con una popolazione incapace di alzare la testa
davanti alle vessazioni quotidiane cui la sottopongono la casta di satrapi che
la malgoverna. Una Polonia dove ci si abitua a tutto e tutto si accetta: non
importa che ti stacchino acqua e gas da casa, che manchino latte e giornali, che
si venga sottoposti a controlli dei documenti più volte al giorno e che un
autobus passi ancora o meno per una determinata strada… Si vive sotto una cappa
di nebbia che ammanta il quotidiano fino a rendere incerta pure la data: il
giorno e il mese, per non dire l’anno.
L’analisi di
Knowicki è lucida e senza sconti per nessuno: la società polacca è una palude e
quelli che ci sguazzano felicemente non possono pretendere di farlo senza
sporcarsi. Ce n’è, ovviamente, per l’intellighenzia che flirta con l’opposizione
stando però ben attenta a non disturbare troppo il manovratore: conformisti
vestiti da rivoluzionari, smidollati che vivono di sponda, vecchi tromboni
interessati solo ad appagare gli appetiti di un ego smisurato. Tra gli aedi
della resistenza e gli intellettuali organici che appoggiano il (e si
appoggiano al) potere, non c’è poi molta differenza: sia in un caso che nell’altro
si tratta di uomini senza carattere, che agiscono per pura convenienza, ad accomunarli
è anche il fatto di considerare l’invasore sovietico esattamente per quello che
è: un usurpatore gretto e volgare, dal quale però accettano di farsi mettere il
morso con indifferenza.
Quello che
manca è il carattere, quei carattere che “aveva
fatto il suo tempo”. Il problema non
è (solo) la miseria, ma la monotonia di una vita senza speranza, l’accettazione
pedissequa di quello che succede. Le persone che lo scrittore incontra sul suo
cammino sembrano ripiegate su se stesse, capaci di vivere solo al loro interno,
dentro un recinto privato, facendosi bastare quanto è loro concesso,
consapevoli dell’inutilità delle loro vite.
Nulla desta più
meraviglia, neppure il crollo di un ponte (“Non
importa, - osserva un passante - sono
rimasti ancora un paio di ponti.”). La vita è così priva di importanza che
quando lo scrittore si accinge a fare testamento, le uniche cose che giudica
meritevoli di essere tramandate ai posteri sono una ricetta per guarire dalla
forfora, una per curare la stitichezza e dei consigli per cavarsela a “sette e
mezzo”…
Non si può
parlare neppure di un’umanità di “vinti”, perché gli abitanti della Varsavia
che ci descrive Konwicki si sono arresi prima di combattere. Rassegnazione e
disincanto dominano sovrani, non c’è più spazio neppure per l’indignazione o la
rabbia: rassegnazione è quello che resta dopo aver messo la sordina anche alle
emozioni e a dare la cifra del momento storico descritto dall’autore è l’indifferenza,
quell’indifferenza che manifestano al protagonista tutti coloro i quali
sembrano essere a conoscenza del suo progetto suicida (“Forse l’indifferenza, figlia della mediocrità, è quella materia
volatile come la nebbia, che si pietrifica in rocce, si congiunge in macigni,
cresce come massiccio montuoso fino al cielo schiacciando la nostra misera
vita? Forse la trasparente, incolore, inodore, informe, svogliata,
onnipresente, accogliente, gentile e innocente indifferenza è l’unico peccato
che viene trattenuto dallo staccio della Provvidenza? Forse nel giorno del
Giudizio Universale saremo giudicati unicamente per quel peccato- non peccato?”).
Tanta
indifferenza da parte della gente per la propria sorte, fa sì che la tragedia si
trasformi in certi momenti in farsa, come succede al Paradyz, quando un gruppetto
composto da cuochi ed avventori finisce per banchettare con il pranzo destinato
ai segretari del partito. Nulla importa, se non approfittare del momento,
cogliere quello che si può senza preoccuparsi del futuro.
La società
polacca presentata da Konwicki è un guazzabuglio dove convive tutto e il suo
contrario, o – per meglio dire – dove ogni cosa si stempera in qualcos’altro,
dove non esistono confini, dove tra potere e opposizione c’è una strana
contiguità per cui l’uno giustifica l’altra e viceversa, proprio come la
confusione che regna sovrana giustifica l’immobilismo, la passività della
popolazione. La Varsavia (ma non solo Varsavia…) tratteggiata in Piccola apocalisse è un luogo in cui il peccato
si confonde con la virtù, l’immoralità con la moralità, una melma maleodorante
nella quale la gente galleggia più per abitudine che per convinzione.
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