“sogni, abissi,
abissi insormontabili, solitudine solitudine solitudine, tocchiamo ma siamo a
distanze incommensurabili, tocchiamo ma siamo soli”
Romanzo
da leggere e poi rileggere.
Sopra eroi e
tombe
è innanzi tutto storia di storie: da quella di Alejandra e Martìn, a quelle dei
membri della famiglia di Alejandra, da quelle di Cicìn e Humberto J.
D’Arcangélo detto Tito a quella di Fernando e alle altre mille che popolano il
racconto. Ma non solo, è anche un romanzo dove si alternano i registri e che,
soprattutto, presenta un’architettura straordinariamente moderna. Parlo di
quell’alternanza di generi che ho ritrovato in diverse opere recenti: romanzo
classico, storico, poliziesco, cronaca, diario, riflessioni letterarie… il tutto perfettamente
tenuto insieme da una trama che, pur perdendo un po’ di linearità tra la prima
e la seconda parte, regge perfettamente il peso del romanzo.
Un
libro con una prima parte di stampo dostoevskijano (la storia di Alejandra e
Martìn mi ha richiamato alla memoria quella di Nastas’ja Filippovna e del
principe Myškin) e una seconda quasi kafkiana, con riferimenti anche a Platone
(penso alla Caverna), che per certi aspetti mi ha fatto pensare a Gombrowicz e
che deve aver influenzato non poco anche autori contemporanei come Cărtărescu.
Sopra eroi e tombe è un
romanzo che partendo dalla storia di un amore contrastato si apre in mille
direzioni diverse: c’è l’aspirazione all’Assoluto di Martìn, il ragazzo che coltiva
la folle idea di arrivare attraverso Alessandra alla Bellezza più pura e c’è
anche la rappresentazione della medesima aspirazione declinata alla maniera di
Fernando, che trasformerà la sua indagine in un’ossessione, finendone travolto.
E c’è l’abisso, il mare profondo che separa le nostre vite e ci rende simili a
isole (abitanti solitari di due isole
vicine, ma separate da insondabili abissi). Anche quando i personaggi di Sopra eroi e tombe provano a instaurare
rapporti interpersonali, questi non riescono quasi mai ad essere equilibrati:
Martìn/Alejandra, Fernando/Georgina, Fernando/Bruno… c’è sempre una situazione
di dipendenza, di squilibrio che condiziona la relazione. Ognuno di noi è solo,
ha bisogno dell’altro, lo cerca, può riuscire anche a stabilire con lui una forma
di contatto, ma si tratterà solo di un legame equivoco e limitato nel tempo,
perché in realtà non riusciamo mai ad aprirci completamente e rimaniamo chiusi
dentro la nostra torre con i nostri ricordi. E d’altra parte come sarebbe
possibile mostrarci per quello che siamo se neppure noi conosciamo la nostra
vera identità (come ricordava Bruno,
«persona» vuol dire maschera e ognuno ha molte maschere: quella di padre,
quella di professore, quella di amante. Ma qual era la vera? E ce n’era
realmente una vera? In alcuni momenti pensava che l’Alejandra che ora vedeva lì
che rideva alle battute di Quique, non era, non poteva essere la stessa che
conosceva lui e, soprattutto, non poteva essere la più intima, meravigliosa e
terribile Alejandra che lui amava. Ma spesso (e col passare delle settimane se
ne convinse sempre di più) tendeva a pensare, come Bruno, che tutte le maschere
erano vere e che anche quel viso-boutique era autentico e in qualche modo
esprimeva una delle anime di Alejandra)?
Il
dramma dell’uomo (moderno): siamo isole che non possono fare a meno di cercare di
gettare ponti verso l’altro, nonostante siamo consapevoli che i nostri
tentativi sono destinati a fallire. Forse è proprio l’abisso quello che ci
attrae (mi affascinava – dice Martìn
a proposito di Alejandra – come un abisso
tenebroso), un’attrazione che nasce “dentro” e che non si può spiegare, che
è frutto più della necessità, di un bisogno, piuttosto che dell’amore (penso che farei bene a non rivederti mai
piú. Ma ti rivedrò perché ho bisogno di te. – dice Alejandra a Martìn). La contraddizione
dunque è parte della nostra natura, perché siamo
spirito ma anche carne, e lo spirito per salvare se stesso dovrebbe stare
solo, ma ha bisogno, si esprime attraverso la carne. Contraddizione che Sabato
esprime molto bene anche attraverso le parole di Bruno quando dice che “la pura verità non si può dire quasi mai quando
si tratta di esseri umani, perché provoca solo dolore, tristezza e distruzione.
Credo che la verità vada benissimo in matematica, in chimica, in filosofia. Non
nella vita. Nella vita è più importante l’illusione, l’immaginazione, il
desiderio, la speranza. Inoltre, sappiamo forse che cos’è la verità? Se io le
dico che quel pezzo di finestra è azzurro, dico una verità. Ma è una verità
parziale, quindi una specie di bugia. Perché quel pezzo di finestra non è solo,
è in una casa, in una città, in un paesaggio. È circondato dal grigio di questo
muro di cemento, dall’azzurro chiaro di questo cielo, da quelle nuvole
allungate, da infinite altre cose. E se non dico tutto, assolutamente tutto,
sto mentendo. Ma dire tutto è impossibile, anche in questo caso della finestra,
di un semplice pezzo di realtà fisica, della semplice realtà fisica. La realtà
ha infinite sfumature, e se dimentico una sola sfumatura, mento. Allora puoi
immaginare com’è la realtà degli esseri umani, con le loro complicazioni e
tortuosità e contraddizioni. Che cambia, infatti, ad ogni istante che passa, e
ciò che eravamo un momento fa non lo siamo piú. Siamo, forse, sempre la stessa
persona? Abbiamo, forse, sempre gli stessi sentimenti? Si può voler bene a
qualcuno e improvvisamente disprezzarlo e perfino detestarlo. E se quando lo
disprezziamo commettiamo l’errore di dirglielo, quella è una verità, ma una
verità molto parziale, che non sarà piú verità fra un’ora o il giorno dopo o in
altre circostanze. E invece la persona alla quale la diciamo penserà che quella
sia la verità, la verità per sempre e da sempre. E sprofonderà nella
disperazione.”
Romanzo
duro quindi, apparentemente senza speranza, se non fosse per il finale, con
l’apparizione (quasi da deus ex machina) di Hortensia, la donna che forse riescirà
a salvare Martìn dalla catastrofe
mostrandogli come nonostante tutto nel mondo esista anche la bellezza. Una
bellezza senza maiuscola, limitata alle piccole cose, ai piccoli gesti. Lontana
da quel concetto di Assoluto a cui lui aveva dedicato la sua vita, ma magari
sufficiente per tirare avanti.