sabato 16 luglio 2016

Juan Carlos Onetti - Gli addii




L'Uomo che Guarda

L'uomo che Guarda è il protagonista di questo romanzo breve, l'ex campione di pallacanestro ammalato di tubercolosi che guarda passare la vita con indifferenza, rinunciando a combattere la malattia.
L'Uoomo che Guarda è la voce narrante, il proprietario dello spaccio che assiste all'autodistruzione del protagonista, cercando di immaginare il senso di quella scelta.
L'Uomo che Guarda è Onetti, che con questo romanzo sembra dirci che la vita è un mistero, un libro scritto in una lingua impossibile da decifrare, una malattia con sintomi e segni troppo vaghi per permetterci di arrivare a una diagnosi.
La vita: un lungo tunnel buio lungo il quale procediamo per approssimazioni, per ipotesi, per lo più false o vere solo in parte o solo per poco tempo. Inutile provare a capire, perché siamo destinati irrimediabilmente a fallire. Cosa ci resta, allora? La possibilità di raccontarla, la vita: esattamente quello che Onetti fa in questo piccolo libro di struggente bellezza.
Una sapienza stilistica che unisce alla capacità evocativa già notata in altre sue opere (“Eravamo a metà della primavera, sconcertati da un solo furtivo e privo di violenza, da nottate fresche, da piogge inutili”), uno studio attento dei personaggi, il carattere dei quali sembra venir fuori dalla descrizione del loro aspetto, dai gesti che compiono quotidianamente (emblematico a questo proposito è l'inizio del libro, con l'attenzione che cade sulle mani del protagonista “lente, intimidite e goffe, con movimenti senza fiducia”, che gestiscono le cose con fare disinteressato, che nascondono i soldi “con pudore”; particolari minimi dai quali però la voce narrante capisce che l'uomo “non si sarebbe curato, che non aveva nessuna idea da cui trarre la volontà di curarsi”). A tutto questo Onetti aggiunge un montaggio quasi cinematografico della trama, alternando campi lunghi e primi piani.
“Non si sarebbe curato”, dice la voce narrante all'inizio della storia, e a ciò aggiunge un'altra considerazione: “non è che ritenga impossibile curarsi, ma non crede nel valore, nell'importanza del curarsi”. Questo per dire che l'autore mette le mani avanti da subito, lasciandoci intuire come andranno a finire le cose; non gli interessa lavorare sulla suspance, su quello che potrebbe succedere, ma sviluppa il romanzo secondo due direttive, due punti di vista: quello della voce narrante (e degli altri comprimari che si succedono sulla scena), che prova a capire, a immaginare, a indovinare perché l'ex cestista si comporta in quel modo e quello del protagonista,  il vero personaggio onettiano, che procede lungo le pagine come un forzato con una grossa palla al piede. Si muove lentamente, lentamente scivola lungo il piano  inclinato dell'inevitabilità. Lui solo sa che non è la tubercolosi ad aver decretato la sua condanna, ma qualcosa accaduto molto prima, per questo non gli interessa curarsi, per questo è indifferente alla vita, perché è un uomo sconfitto, che ha smesso di lottare e ha deciso di arrendersi al suo destino.
Il protagonista ha una consapevolezza che quasi tutti gli altri non hanno. Lui è solo e sa di esserlo, mentre gli altri credono ancora, chi più chi meno, alla possibilità di poter condividere qualcosa, qualsiasi cosa, fossero anche solo le congetture sulla vita dell'ex-cestista.
Non c'è lieto fine in questo romanzo, le cose vanno come devono e non come noi vorremmo, eppure a me sembra di cogliere una piccola luce al fondo del tunnel: la voce che narra la storia è quella di un personaggio per certi versi simile al protagonista perché come lui è consapevole della sua situazione, della mediocrità della sua esistenza. Quello che lo differenzia da tutti gli altri è una capacità di intuire, di leggere nei comportamenti, che ne fa un unicum e che per certi aspetti gli permette di sublimare la realtà, di avvicinarsi con l'immaginazione ad un altrove diverso dal presente di miseria in cui vive. Probabilmente mi sbaglio e questa è solo una mia suggestione, ma a me piace vederla come una specie di lucina in fondo al tunnel, una fiammella flebile che che diventerà fuoco scoppiettante ne “La vita breve”.

domenica 10 luglio 2016

Anche la vita è autentica quanto i sogni?


E noi, persone senza importanza, simili alle formiche sopra i tronchi d'albero, cieche a tutto ciò che è a più di due centimetri dai nostri corpi sodi e bruni. La nostra vita con due centimetri di spessore. Allora mi è accaduto qualcosa: guardavo come la mamma fluttuava in cucina, immersa fino al petto, insieme col mulino e con l'inverno e con i colombi, nelle acque dense del manoscritto, e a un tratto mi sono chiesto se in qualche modo anche il mondo è una forma di realtà, magari consistente quanto la funzione, se in qualche modo anche la vita è autentica quanto i sogni...

[Mircea Cărtărescu. "Abbacinante. L'ala destra]

domenica 19 giugno 2016

Samuel Beckett - Murphy

 
Corpo vs spirito

Murphy è uno dei grandi personaggi letterari con i quali Beckett ha marchiato a fuoco il secolo appena trascorso. Fin dalle prime righe ci viene svelato nella sua essenza, come se l’autore avesse urgenza di presentarci la sua invenzione: un protagonista tanto diverso da quelli che animavano i romanzi dell’epoca. Ed è una presentazione quanto mai sorprendente, visto che lo troviamo nudo e legato alla sua sedia dondolo:

“Stava seduto così perché gli faceva piacere star seduto così. Prima di tutto piacere del corpo, appagamento fisico. Poi piacere dello spirito, allargamento nel suo mondo spirituale. Soltanto dopo aver appagato il corpo, poteva cominciare a vivere nello spirito. E il suo modo di vivere nello spirito gli dava un enorme piacere, quasi un’assenza di dolore.”

Gesti stereotipati, un dondolio via via più lento, un movimento ipnotico che sembra il viatico al raggiungimento di uno stato di trance. Da subito il dualismo corpo/spirito, la necessità di placare i bisogni del primo per avere accesso al mondo del secondo, quello che Murphy riconosce come il suo vero mondo, quello dal quale gli altri cercano di strapparlo via e quello nel quale lui cerca costantemente rifugio perché non è interessato a ciò che accade fuori da sé: la realtà è irredimibile, e da questo punto di vista l’incipit così noto del romanzo (il sole splendeva, senza possibilità di alternative, sul niente di nuovo) è una vera e propria dichiarazione di intenti.

Murphy aspira all’atarassia e il primum movens su questo cammino è il tentativo di annullare o ridurre il potere della volontà, intesa come molla che muove le nostre passioni. Quando prova a sprofondare nel suo spirito, lo fa per abbandonarsi al torpore, non per seguire pensieri o speculazioni. Quella che detta il tempo è la musica del suo Io, non quella suonata dal pensiero cosciente.

Il problema del protagonista del romanzo consiste nel non riuscire a conciliare i contrari nel suo cuore perché il suo spirito è una grande sfera cava, ermeticamente chiusa all’universo esterno. Succede così che esperienza mentale ed esperienza fisica parlino in Murphy linguaggi diversi, di qui la frattura, l’impossibilità di armonizzare le due parti della sua persona che per questo risulta divisa. Per questo gli unici individui per i quali prova empatia sono i pazienti della clinica psichiatrica nella quale si trova a lavorare; loro non vogliono nulla da lui (a differenza da tutti gli altri con i quali entra in contatto e che per un motivo o per l’altro pretendono di cambiarlo), loro sono indifferenti al mondo circostante, anche loro – come Murphy – hanno qualcosa di rotto dentro.

Il dramma di Murphy deflagra nel momento in cui, invece di accettare la situazione di incomunicabilità alla quale si è condannato, prova a stabilire un contatto con il signor Endon, un paziente schizofrenico. La partita a scacchi tra i due rappresenta il climax del romanzo e uno dei vertici della poetica beckettiana: Murphy prova a gettare un ponte tra lui e un individuo che giudica simile a sé e per farlo utilizza le mosse del gioco come fossero lettere di un alfabeto diverso da quello consueto, un linguaggio nuovo per tentare una comunicazione altrimenti impossibile. È una partita nella quale si gioca tutto: dapprima cerca di ripetere sulla scacchiera i movimenti del suo avversario per dimostrargli che è come lui, poi prova a farlo uscire dal guscio, invitandolo a mangiare dei pezzi per accorciare le distanze e così attirarlo nel suo territorio. Tutto inutile, il signor Endon non gioca contro Murphy ma gioca da solo, e dopo aver abbozzato qualche movimento ripiega progressivamente verso le posizioni che occupava all’inizio del gioco, indifferente al suo avversario: Murphy per lui non esiste, è uguale a tutti gli altri. Di qui la sconfitta, non tanto nella partita a scacchi quanto nel progetto del protagonista, condannato a una solitudine senza speranza: Murphy non chiedeva di cambiare il suo destino di essere diviso, ma almeno di condividere con qualcuno la separazione tra corpo e spirito che vive dolorosamente sulla sua pelle. 

Murphy è un gran libro, un libro denso, angosciante e ironico, una distesa enorme che si estende in ogni direzione, anche (soprattutto) in profondità. Ovunque ci soffermiamo, se iniziamo a scavare troviamo materiale, spunti per nuove riflessioni. Murphy è una specie di Moloch al cospetto del quale si può ragionare solo per approssimazione; è difficile procedere con equilibrio e misura, molto più facile provare un senso di disorientamento, l’impressione di trovarsi a navigare nel caos accontentandosi di seguire alcune linee di pensiero con la consapevolezza che ce ne sono molte di più che finiranno per essere trascurate o, peggio, non comprese compiutamente.

mercoledì 15 giugno 2016

Sprazzi di luce (armonia e bellezza al più alto grado)

"Pensò tra l'altro che nel suo stato epilettico c'era una fase, proprio prima dell'attacco (sempre che l'attacco venisse mentre era sveglio), quando improvvisamente, in mezzo alla tristezza, alle tenebre dell'anima, all'oppressione, il suo cervello pareva accendersi, e tutte le sue forze vitali si tendevano di colpo con uno slancio inusitato. Il senso della vita e la coscienza di sé si decuplicavano quasi in quegli istanti che duravano il tempo di un lampo. La mente, il cuore gli si illuminavano di una luce straordinaria. Tutte le sue emozioni, i suoi dubbi, sembravano placarsi di colpo, si risolvevano in una calma suprema, piena di gioia serena, di armonia e di speranza, piena di intelligenza e di causa ultima. Ma quei momenti, quegli sprazzi di luce, erano soltanto il preludio di quel secondo definitivo (mai più di un secondo) con cui aveva inizio l'attacco vero e proprio. Quel secondo era certamente insopportabile. Riflettendo in seguito su quell'istante, quando ormai si trovava in condizioni normali, spesso diceva a se stesso che tutti quei lampi e quei bagliori di altissima sensazione e coscienza di sé, e quindi anche di "vita superiore" non erano altro che malattia, alterazione dello stato normale, e se era così, quella non era affatto un'esistenza superiore, ma, al contrario, doveva essere annoverata fra le più basse. E tuttavia arrivò infine ad una conclusione straordinaria e paradossale: "Che importa se è una malattia?" concluse infine, "che importanza ha che sia una tensione anormale, se il risultato, se quel minuto di sensazioni rievocato e analizzato poi in condizioni normali si rivela armonia e bellezza al più alto grado, e dà un senso fino allora insospettato e inaudito di pienezza, di misura, di acquietamento e di trepida fusione di preghiera con la suprema sintesi della vita?"


[Fëdor Michajlovič Dostoevskij: "L'idiota"]

domenica 12 giugno 2016

Angelo Calvisi – Clandestini

Angelo Calvisi, direttore della fotografia.

Clandestini è una raccolta di racconti eterogenea per forma e contenuti. Storie scritte nell’arco di anni e spesso legate a un vincolo tematico richiesto dal blog o dalla rivista che poi le hanno pubblicate.
Storie diverse anche per il valore letterario (alcune più riuscite ed altre probabilmente meno), che pure ci permettono uno sguardo anche sul Calvisi scrittore di racconti.
Diciamo subito che, ad oggi, ho apprezzato maggiormente le sue qualità come autore di romanzi brevi sia in Un mucchio di giorni così che in Adieu mon coeur, ma anche alla prova di una forma narrativa diversa dimostra di cavarsela bene e soprattutto di saperne risolvere i problemi tecnici connessi  con apparente semplicità.
Le storie di Clandestini sono tutte narrate con stile diretto in prima persona presente (mi sembra che solo in un racconto l’autore usi l’imperfetto) e caratterizzate da un incipit in grado di attirare da subito l’attenzione del lettore (caratteristica fondamentale nelle short stories), un buono sviluppo della vicenda e un climax che per il mio gusto a volte è un po’ troppo vicino alla conclusione. Ma al di là di certi formalismi è “la misura” quello che mi sembra uno dei tratti salienti di questi racconti, l’equilibrio tra la scorrevolezza di una scrittura che procede sicura, senza sbavature e una narrazione che alterna accadimenti, dialoghi, osservazioni e divagazioni senza perdere il filo di una trama che alla fine si risolve  con naturalezza, senza forzature.
Angelo Calvisi, direttore della fotografia, si diceva nel titolo. Già, più direttore della fotografia che regista, perché le storie che racconta sembrano avere vita propria, svilupparsi autonomamente come un film che scorre sotto i nostri occhi. Calvisi fotografa le scene e poi traduce in parole i fotogrammi: impresa tutt’altro che banale, soprattutto perché riesce a rendere con poche pennellate impressioni, attimi, momenti di vita che trasforma in suggestioni cariche di possibilità (L’acqua è scura, calma, ci sono dei barconi che trasportano tronchi e sulla riva soffia un’aria fresca. È una scena che trasmette un’idea di inevitabilità, e non sono in grado di descriverla meglio, scrive in Missione a Berlino di un redattore suicida).
Calvisi scrive quello che vede (parafrasando il protagonista del primo racconto della raccolta, che, in un incipit che ricorda Il Grande Freddo, tira fuori il bloc-notes nel bel mezzo di un funerale e scrive: il mio stato d’animo sono le cose che vedo) ed è un vedere senza pre-concetti, finalizzato non tanto a formarsi opinioni quanto a provare a capire. La curiosità è il primum movens dell’autore, curiosità che trasforma la routine di un cooperatore sociale o di un commesso di un negozio di dischi in qualcosa di diverso: dietro ogni persona c’è un personaggio,  e Calvisi ce lo restituisce nella sua “unicità”.
È la curiosità che porta i personaggi di Clandestini a interrogarsi su ogni cosa,  anche sul significato delle parole (come fa il protagonista di Giornata tipo di uno strenuo cooperatore sociale che tornando a casa si chiede se quelli dell’autobus fossero proprio vagoni e Come si chiamava il nastro di spessa gomma nera che separava le due ante delle porte? E le porte dell’autobus si chiamavano veramente porte?), la stessa curiosità che abbiamo quando da bambini andiamo alla scoperta del mondo e che poi perdiamo (o nascondiamo) crescendo, perché la consideriamo un sinonimo di immaturità, un segno di debolezza.
C’è un’ultima osservazione che voglio fare su questo brevissimo libro (si legge, cronometrato, in un’ora) ed è relativa all’ultimo racconto, Missione a Berlino di un redattore suicida, che mi ha colpito particolarmente: una trama originale, straniante e surreale, con il protagonista che alla fine finisce per svanire all’interno della storia che ha raccontato. Un racconto diverso da tutti gli altri, ma perfettamente riuscito, a dimostrazione delle capacità dell’autore di esprimersi al meglio anche con registri narrativi differenti.